di Antonio Prete
Diciamo città, e il pensiero di ciascuno va ai luoghi animati di voci, di passaggi, di presenze in cui ha vissuto o vorrebbe vivere : con palazzi, strade, vicoli, piazze alberate o affollate da crocchi di individui in sosta, o in ascolto di qualcosa che sta accadendo. Diciamo città, e pensiamo al termine che spesso la accompagna in opposizione, o in controcanto, oppure in dolce contraltare –insieme, soglia del ricordo, linea di fuga, sintomo di una cercata serenità- e cioè la campagna. Diciamo città, e il pensiero trascorre lungo viaggi compiuti o viaggi sognati, per indugiare nella rammemorazione di campanili romanici, o di minareti, o di cupole dorate, oppure di lunghi portici ombrosi, di giardini con panchine che attendono la nostra sosta, e intanto sono visitate dal tocco leggero di un uccello che presto si allontana per raggiungere lo stormo che ha altre mete e vortica già nell’aria della sera.
A ogni città reale si accompagna una città invisibile, fantasmatica, morganatica. Una città che vorremmo visitare, o forse abitare. Una città di una regione dove mai arriveremo se non con la fantasticheria. In questa immaginazione si mescola sia il resto di una conoscenza fatta di viaggi, sia una memoria che sale dall’infanzia e dall’adolescenza, sia quel pulviscolo leggero che muove dal desiderio dell’ignoto, e disegna mondi possibili battuti però dal vento dell’impossibile, facciate di edifici immaginari che si specchiano in fiumi verdissimi e placidi, ed è lì, su quegli argini che siamo vissuti in una vita anteriore.
E abbiamo in mente le città raccontate nei romanzi, la Parigi di Balzac e di Zola, la Pietroburgo di Dostoevski, la Praga di Kafka, la Vienna di Schnitzler e di Hofmannsthal, la Buenos Aires di Borges e di Casares, la Dublino di Joyce, la Trieste di Svevo. Ma anche le città della poesia, ancora la Parigi di Baudelaire, la Lisbona di Pessoa, la Genova di Campana e di Caproni, la Firenze e la Siena di Luzi, la Luino di Sereni, la Trieste di Saba e così via. Su queste città diventate narrazione, ritmo, meditazione sull’esistenza e sui suoi imperscrutabili destini, aleggiano le immagini di altre città il cui disegno è mosso dalla fantasia, città delle utopie – a partire appunto da Utopia di Thomas More- e città invisibili come quelle che Calvino ha costruito con particolari ora nitidi e quasi arabescati ora nebbiosi e allucinati ora soltanto onirici.
Eppure, se diciamo città andiamo col pensiero a due parole che la città raccontano, la raccontano nella sua vita, nelle presenze da cui è abitata e vissuta : polis e civitas. La prima come luogo della partecipazione a una comune appartenenza, luogo della prima democrazia, che nell’agorà si confronta e decide; la seconda come immagine della convivenza plurale, armonica, tesa a un concorde scambio di vedute, a un incrocio di destini e di scelte. Ma sia la polis greca sia la civitas romana e poi cristiana avevano i loro recinti, le loro esclusioni, le loro emarginazioni. E bisognerebbe dalla polis e dalla civitas muovere per leggere e architettare la odierna convivenza, allargando le forme dell’ospitalità, rendendo dialogiche le diverse provenienze. Oggi che le nostre città sono abitate da molti che vengono da lontano, e hanno lingue e culture e storie e radici e immagini diverse dalle nostre, il compito primo è tentare la via di un incontro che possa essere reciproco scambio di storie e memorie, di saperi e conoscenze. Davanti al progetto di città multiculturali, multietniche, c’è chi si trincera in difese di un’origine e di un’appartenenza autoctona, distogliendo lo sguardo e le orecchie da quello che la lontananza può portare di nuovo, e di trasformazione, e di reinvenzione dei rapporti. Ma l’origine di tutti gli uomini è una sola terra. La città vera è il mondo. “Nostra patria è il mondo intero”, cantava una vecchia canzone degli anarchici. Oggi, sottratto il senso politico e utopico di quelle parole, e liberata anche la globalizzazione dai suoi aspetti specificamente mercantili e dal suo vorticoso divorare storie e singolarità, si tratta, intorno alla città, di trovare un equilibrio il più possibile armonioso tra storia e nuove presenze, tra stili propri e abitabilità, tra memoria e accoglienza, tra identità e differenza. Allo stesso tempo, difendere la fisionomia che la storia ha dato a una città, alle sue forme, alla sua irripetibile singolarità, e aprirsi alla curiosità e alla relazione nei confronti di nuove presenze che chiedono di essere cittadini delle nostre, e loro, città.
(2014)