di Rosario Coluccia
Recentemente, durante una sobria cena con amici, nella conversazione spunta un argomento. Una signora siciliana, trasferitasi per lavoro in Salento, afferma che qui si sente come a casa sua. Paesaggio urbano e agricolo, architettura e clima si somigliano, ci sono molti tratti in comune tra i dialetti del Salento e quelli della Sicilia. Quasi spontanea sorge la questione: «È vera l’ultima affermazione? E, se è vera, come si spiega?». Mi rivolge queste domande uno dei presenti, occupa un ruolo di grande importanza nella struttura economica della nostra terra. Molto discreto, non ama essere sotto i riflettori. È attento a quanto succede intorno. Vuol capire, sempre. Forse anche con la capacità di analizzare fenomeni culturali diversi, al di là degli stretti interessi di lavoro, si spiega il suo successo professionale.
Alle domande rispondo: sì, è così. Sicilia, Calabria meridionale (al disotto di una linea ideale che va da Diamante e Cassano Jonico) e Salento sono linguisticamente omogenei. Nel 1977 il glottologo padovano Giovan Battista Pellegrini, riprendendo importanti lavori di studiosi precedenti, trasferì su una cartina dell’Italia la classificazione dialettale dell’intero territorio italiano (ad aree linguisticamente simili corrisponde identico colore). Le grandi partizioni (ulteriormente scomponibili al loro interno) sono le seguenti: dialetti settentrionali, toscano, dialetti centro-meridionali, dialetti meridionali estremi, sardo. La cartina rappresenta in maniera lampante la solidarietà linguistica che lega Sicilia, Calabria meridionale e Salento. Le cause della netta differenziazione tra dialetti salentini e dialetti pugliesi settentrionali nella nostra regione e tra
dialetti calabresi del sud e del nord in Calabria sono legate molto probabilmente al diverso ambiente politico-culturale di questi territori durante parecchi secoli del Medioevo (bizantino a sud, longobardo a nord, in entrambi i casi).
Ecco una lista (non completa) di fenomeni, diffusi nelle tre aree estreme d’Italia, con qualche variazione tra una zona e l’altra.
In queste zone si dice nive (/nie) ‘neve’, sule ‘sole’, nuce ‘noce’.
Nell’articolare determinate consonanti (soprattutto le dentali rafforzate nelle parole corrispondenti a «bello», «cavallo») ha luogo una pronunzia cosiddetta “cacuminale”: beɖɖu, cavaɖɖu. Ho trascritto secondo il sistema IPA, quello dell’International Phonetic Association; nei testi dialettali troviamo spesso le grafie beddhu, cavaddhu, o anche beddrhu, cavaddrhu. L’importante è intendersi, alludono allo stesso fenomeno, non esiste una regola definita per mettere per iscritto questi suoni (e così rispondo alla domanda che mi ha posto il sig. Rino Longo di Trepuzzi). La pronunzia cacuminale ricorre anche in ƫŗenu, ƫŗe, quaƫƫŗo, ecc.
Dopo verbi come «volere», «andare» e dopo alcune congiunzioni non si usa l’infinito ma si ricorre a perifrasi. Non si dice «voglio mangiare» ma «vogghiu (/ogghiu /oiju) cu mangiu» (in Calabria cambia la congiunzione, ma il costrutto è identico: «vogghiu mu mangiu»); non si dice «prima di andare» ma «nnanti cu bbau».
Si ricorre spesso al passato remoto in luogo del passato prossimo, anche in questo caso con variazione di intensità del fenomeno. In Sicilia mi è capitato di ascoltare frasi come: «ti vidi nel bar cinque minuti fa, stavi prendendo un caffè», in Salento questo costrutto è meno frequente (ma ancora recentemente ho sentito «che sbagliò!», con riferimento a un gol appena fallito a porta vuota). Il rapporto, variabile, tra passato prossimo e passato remoto ha una dimensione nazionale, riguarda tutt’Italia. Le parlate settentrionali hanno quasi abbandonato il passato remoto. L’aveva già osservato, alcuni decenni fa, Primo Levi, lo straordinario autore di Se questo è un uomo (un libro che consiglio, i ragazzi delle scuole, quando lo leggono, ne sono affascinati) e di altri testi che documentano un maniera drammatica l’orrore dei campi di sterminio nazisti. Ricordate quei versi bellissimi, con reminiscenze dantesche, della poesia Ad ora incerta, in cui disperatamente esprime l’angoscia per essere sopravvissuto a tanti suoi compagni morti: «Andate. Non ho soppiantato nessuno, / Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. / Ritornate alla vostra nebbia. / Non è colpa mia se vivo e respiro / E mangio e bevo e dormo e vesto panni». È leggero e ironico Primo Levi quando allude al modo di usare la lingua dei suoi conterranei, al rifiuto del passato remoto nell’italiano regionale piemontese: «Lui, per esempio, si sarebbe fatto scuoiare prima, come del resto qualsiasi piemontese si farebbe scuoiare vivo prima di usare un passato remoto» (Lilit e altri racconti, Einaudi, Torino 1985, p. 245). In Toscana si usa sia il passato remoto che il passato prossimo, con funzioni differenziate. Al sud, come abbiamo visto, prevale il passato remoto. Ma il fenomeno è in arretramento, per influenza del modello settentrionale.
Un amico napoletano che sicuramente leggerà queste parole (lo so per certo, non spiego perché) qualche tempo addietro mi raccontò che, appena arrivato in Salento, era rimasto colpito da un costrutto sintattico frequente nella parlata di un suo collaboratore salentino. Questi, che fittiziamente chiameremo PincoPallino, cominciava sempre le telefonate dicendo «PincoPallino sono». E all’interlocutore napoletano, non abituato a questa struttura, veniva in mente per analogia l’attacco telefonico «Montalbano sono» della serie televisiva di grandissimo successo. Aveva ragione, i dialetti salentini e siciliani, che hanno molti tratti in comune, pospongono spesso il soggetto al verbo.
Si potrebbero fare molti esempi di lessico, sono moltissime le parole specifiche comuni alle tre aree (a volte non esclusive, sempre caratterizzanti): ampuɖɖa ‘bollicina, eruzione cutanea’, anciɖɖa ‘anguilla’, arienu, arainu, rienu ‘origano’, bizzoca, birzocca ‘bigotta; donna timida; monaca’, birloccu, bbilloccu ‘ciondolo per il collo, medaglione’, cuddura, cuɖɖura (cull’ovu) ‘ciambella, pane pasquale di forma preferibilmente circolare’, ecc. Per fortuna non mancano gli strumenti da cui partire per verifiche e indagini in profondità: G. Rohlfs, Vocabolario del dialetti salentini (ristampato dall’editore Congedo, Galatina 1976), G.B. Mancarella e altri, Dizionario dialettale del Salento (Edizioni Grifo, Lecce 2011), G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale della Calabria, con repertorio italo-calabro (Longo, Ravenna 1977), Vocabolario siciliano fondato da G. Piccitto, poi diretto da G. Tropea e S. C. Trovato (Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Opera del vocabolario siciliano, Catania-Palermo 1977-2002). Un lavoro su questi vocabolari fondamentali ricostruirebbe la storia lessicale, ancora in parte sconosciuta, delle tre regioni meridionali estreme.
Non è sicuro che sia di origine siciliana una parola che è diventata italiana, la conosciamo tutti: «omertà» ‘solidale intesa che vincola i membri della malavita alla protezione reciproca, tacendo o mascherando ogni indizio utile per l’individuazione del colpevole di un reato’. Credo che con questa parola vada qualificato il comportamento del sindaco di Pimonte (un paesino della Campania). Il sindaco ha usato la parola «bambinata» per definire un episodio orribile, la violenza di gruppo che 12 giovani dai 14 ai 17 anni hanno esercitato su una ragazzina di 15 anni. Si tratta di una parola italiana, non regionale. Ci interessa il significato. Ecco la definizione che ne dà il vocabolario: «bambinata» ‘cosa, azione, discorso da bambini’. Per il sindaco di Pimonte quel fatto non è un reato di cui vergognarsi per la vita, è semplicemente ‘una cosa, una azione da bambini’. Le parole, usate in modo omertoso, possono mascherare la realtà? Possono modificare i fatti? Se riflettiamo sulle parole capiamo molte cose. Ho aspettato a parlarne, volevo vedere se quel paese reagiva, se il Sud reagiva, se l’Italia reagiva. Ho cercato in rete. Dopo settimane, quel sindaco è ancora lì, non si è dimesso, non è stato costretto alle dimissioni né da coloro che l’hanno votato né dalla parte politica a cui appartiene (non so quale sia, non ho voluto informarmene) né dai suoi avversari. L’omertà non mi piace, in qualsiasi modo si manifesti e in qualsiasi luogo d’Italia si verifichi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 23 luglio 2017]