Hotel Littré, Barcellona

di Paolo Maria Mariano

Enrique Vila-Matas ha viso di hidalgo da qualche tempo non più troppo esposto alle intemperie del mondo. La fronte ampia e lo sguardo simile a quello che faceva battere i tacchi per perentoria fierezza ai suoi antenati spagnoli, anche quando avevano le tasche bucate, quelle di un solo paio di pantaloni e per di più sbrindellati, si accompagnano ad ampiezza e solidità del viso proprie di una vita sin qui – si può forse presumere – agiata, almeno negli anni, oramai non pochi, del riconoscimento letterario. È un viso che potrebbe apparire come emblema di quello che sembrava essere Barcellona prima che le conseguenze della furia rapinosa di una finanza priva di un’etica della solidarietà, del rispetto, e la mediocre insipienza della classe dirigente mettessero in severa angoscia del futuro anche le terre spagnole con altre.

Ed è proprio a Barcellona che Vila-Matas immagina che nell’Hotel Littré viva Vilnius Lancastre che conduce i fili di Un’aria da Dylan, romanzo pubblicato in traduzione da Feltrinelli nel 2012. Vilnius – il cognome Lancastre è quello della moglie di Antonio Tabucchi, primo ma non ultimo di rimandi letterari trasversali – è figlio di Juan Lancastre, scrittore di gran fama e ampia ammirazione culturale. Il narratore lo incontra a un convegno sul fallimento, organizzato a San Gallo (estremo nord della Svizzera) da un professore di matematica di cognome Echèk, che in creolo haitiano significa “fallimento”, circostanza che suggerisce il suo interesse a discutere del tema. Quando s’incontrano a San Gallo, di Vilnius si sa subito che si dedica al cinema – per meglio dire alla critica cinematografica – e lavorava a un Archivio Generale del Fallimento. Lungo la narrazione si scopre che Vilnius vive nel Littré prima da solo, poi con Debora Zimmerman – il cognome è di Bob Dylan; quello con cui più comunemente lo conosciamo, Dylan appunto, è un nom de plume – che era stata legata al padre defunto quando questi si era allontanato dalla moglie, la donna fatale “Luara Vedrai, andrai e non tornerai”, come ripetutamente la appella la voce narrante. Quest’ultima appartiene a uno scrittore ormai sulla strada dell’aridità letteraria, interrotta solo per accondiscendere, almeno nelle intenzioni, alla richiesta di una possibile scrittura delle memorie apocrife e abbreviate (qui vi è un riferimento indiretto alla Storia abbreviata della letteratura portatile, un delizioso libretto di Vila-Matas del 1985, pubblicato da Feltrinelli nel 2010) del defunto Juan Lancastre. “Avevo deciso in segreto,” – scrive chi narra, rivolgendosi a Vilnius e Debora – “già la prima volta di conoscervi, di non scrivere nessun altro libro perché ero molto pentito, quasi addolorato per tutti quelli che avevo pubblicato nel corso della mia vita, ma poi alla fine avevo deciso di concedermi una proroga di qualche mese prima di ritirarmi, dato che sentivo di aver bisogno di raccontare la sorprendente storia che, con voi come protagonisti, avevo progressivamente incontrato negli ultimi tempi nella vita reale: la storia di come un lutto può generare una nuova famiglia a un defunto; la storia, anche, di giovani poetici e malati, Oblomov patentati, persi nel vuoto culturale della loro terra e con la tendenza a essere, fino a limiti insospettabili, sfaticati e refrattari allo sforzo; una storia di lutto e abisso che, una volta pubblicata, avrebbe sicuramente detto su Lancastre molto di più delle sue stesse memorie abbreviate e che con il tempo sarebbe stata letta come la sua vera autobiografia perché si sarebbe visto che l’anima moderna, l’aria di Dylan, l’essenza della nostra epoca non poteva essere ritratta meglio” (p. 298).

Il narratore scrive dell’incontro con Vilnius e Debora ma riporta anche, storia nella storia, quella narrazione, il Teatro di realtà, che Vilnius scrive e comincia a leggere in pubblico sin dal convegno di San Gallo, sperando così di perturbare il flusso degli eventi e determinare almeno inquietudine tra chi ritiene responsabile della scomparsa del padre. È questo l’esplicito rifarsi all’espediente che Shakespeare attribuisce ad Amleto, dopo che egli ha visto il fantasma del padre. Così  Vila-Matas fa in modo che Vilnius Lancastre creda di sentire tornare insistentemente a lui la voce di Juan Lancastre e si muova da qui per rincorrere la verità sulle vicende della sua scomparsa. Vilnius, però, non è Amleto, peraltro citato esplicitamente nel romanzo. Assomiglia nel fisico a Dylan ed è lontano dall’immagine che istintivamente abbiamo del principe di Danimarca, non avendone neanche quella profondità che ha spinto negli anni Bloom a scrivere su Amleto così tante pagine entusiaste, per citare una sola delle innumerevoli voci che sull’opera di Shakespeare si sono espresse. “Montaigne si domanda: «Cosa so?». Amleto, come si conviene al figlio di un re, non potrebbe formulare il quesito in questo modo e preferisce provocare i membri del suo pubblico: «Cosa sapete?»,” scrive Bloom nel suo Anatomia dell’influenza (Rizzoli, 2011, p. 115). Vila-Matas ha appreso la lezione e senza presunzione – altrimenti non avrebbe le qualità che egli ha – immagina l’analogo artificio per il suo personaggio, non per imitazione ma perché in fondo scrive un romanzo sulla letteratura e quindi, proprio per ciò che la letteratura è, sulla vita. E la storia presentata diventa occasione per riflettere su un orizzonte più vasto della vicenda specifica stessa, il cui sviluppo è sempre un pretesto di scrittura, come la buona letteratura sa insegnare. “Nevicò sorprendentemente su Barcellona e si paralizzò tutto, ma non volli perdermi la prima al Tivoli di Un tram chiamato desiderio di Tennessee Williams, per la regia di Mario Gras. Nevicava talmente tanto che non ci fu modo di trovare un taxi e finii col condividerne uno con uno sconosciuto che disse di essere poeta e che lasciai al vecchio Perturbado, quel bar della mia gioventù, per poi proseguire verso il Tivoli. Durante il breve viaggio, il poeta non smise di parlare. Senza nemmeno essersi presentato, prese a dirmi che nel mondo tutto andava male e che sarebbe andato anche molto peggio nelle successive settimane, mesi e anni. Tutto pessimo, chiosò. E poi non smise di chiedermi pareri. Cosa ne pensavo di questo e di quello, della recente ricostruzione fatta a Ginevra del big bang originale, del grande ritardo culturale spagnolo, della stirpe infinita di cretini e, infine, dell’affitto di tombe per un mese. Fermò all’improvviso l’incalzare delle domande, ma solo per poter tornare con più forza a dirmi che l’arte aveva a che vedere con il raggiungimento della quiete in mezzo al caos. La quiete intrinseca della preghiera e anche l’occhio della tempesta, concluse categorico” (p. 280). E per ora basta così.

 

 

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