di Ferdinando Boero
La fortuna turistica di un posto con una natura bellissima dipende dalla sua scoperta. Arriva qualcuno con una barca e trova un paradiso. Torna e dice: sono stato in un posto dove non c’era NIENTE. Giusto un villaggio di pescatori. Niente è un valore enorme. Ci torna, con i suoi amici. Magari affittano una casa nel villaggio. La comprano. Poi arrivano altri turisti. I locali cominciano ad affittare camere, aprono ristoranti. Qualcuno costruisce un albergo. Poi un altro. La spiaggia un tempo deserta viene “attrezzata”. Si costruiscono altre case, e si sbancano le dune. Perché tutti vogliono stare a due passi dal mare. Il NIENTE viene sostituto da “infrastrutture”e “servizi”. Il posto selvaggio diventa “turistico”. La natura viene deturpata, e si distrugge prima il paesaggio, poi la biodiversità. I pescatori che vivevano del loro pescato si trovano all’improvviso a far fronte alle richieste dei turisti. L’intensità delle attività di pesca aumenta e, dopo qualche anno, i pesci sono diminuiti. Chissà perché? Le case, spesso abusive, non hanno impianti fognari efficienti. L’acqua un tempo limpidissima è sporca. Quelli che hanno costruito la casa sulla spiaggia si lamentano. Perché l’acqua non è più pulita come un tempo? Si scoprono animali prelibati. I datteri di mare, i ricci, le patelle, e tanti altri. Vengono raccolti da moltitudini di persone che, dopo un po’, si lamentano. Ma come mai non ci sono più ricci? E come mai i fondali sono stati distrutti? Si va in spiaggia a fare il pic nic e si abbandonano i rifiuti tra le dune, e poi, quando si torna, si dice: ma che immondezzaio! Possibile che nessuno pulisca? Già… chi sporca si lamenta perché nessuno pulisce.
Il lusso del posto per pochi, rimasto in uno stato naturale, è, appunto, un lusso. Quando arrivano le masse è inevitabile che l’alta frequentazione deturpi i luoghi. Una spiaggia perde le sue caratteristiche se ci sono diecimila persone che ballano al suono di martellanti altoparlanti, con tutto quello che ne consegue in termini di spazzatura, calpestio, inquinamento acustico. Quelle persone di solito arrivano in auto, e la devono parcheggiare, ma non vogliono camminare. Magari passano sei ore a saltare sulla spiaggia, ma non vogliono camminare. I parcheggi si costruiscono da soli, a forza di mettere le macchine nelle dune. Si formano piste tra la vegetazione, che scompare, il terreno si appiattisce e si parcheggia comodamente.
Tutto questo ha impatti fortissimi sulla biodiversità terrestre e marina. Flora e fauna perdono la loro diversità, restano solo poche specie e, quando il processo arriva fino in fondo, siamo alla desertificazione. Non sto parlando di posti lontani. Questo è quello che è avvenuto in Salento negli ultimi 40 anni. Cosa si deve fare a fronte di questo? La risposta è arrivata con le aree marine protette, prima a Torre Guaceto e poi a Porto Cesareo e Nardò, e ora se ne sta progettando una tra Otranto e Santa Maria di Leuca. Ci sono diverse finalità, nel proteggere gli ambienti costieri. Una è di proteggere il NIENTE, lo stato naturale. Tra Otranto e Leuca il “niente” è dappertutto. Sarebbe criminale farlo andare incontro alla sorte che ho descritto sopra. A Porto Cesareo, invece, si lavora per rinaturalizzare un sito che ha sostenuto impatti fortissimi, sia a terra sia in mare. Bisogna restaurare gli ambienti devastati.
Una delle finalità delle aree marine protette consiste anche nella formazione di una coscienza ambientale nelle popolazioni residenti. Perché lo squallido destino dei posti baciati dal “niente” di solito avviene per carenze culturali in chi li abita. Una volta distrutto il “niente” l’economia declina, dopo un florido periodo basato sulla devastazione. Ancora qualche sindaco, purtroppo, pensa che infrastrutturare la costa sia “progresso”. E il sindaco esprime il sentire della popolazione che lo elegge. Avere un mare bellissimo e costruire piscine sulle scogliere, e parcheggi, significa non aver capito niente del “niente” che si sta distruggendo.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, venerdì 21 luglio 2017]