di Augusto Benemeglio
1. Michele Pierri
“In ognuno di noi / c’è un Cristo sconosciuto / da amare che si rivelerà”… prima o poi, magari con una gazza sulla spalla, con cui parlare, come faceva il vecchio Pierri negli ultimi mesi di vita. E quando il Cristo sconosciuto riapparirà ci sarà ancora un Giuda ad aspettarlo, “libero dal tradimento”. Lo bacerà di nuovo, ma stavolta “nell’amicizia / del cuore … E anche Giuda avrà una mite gazza sulla spalla”. Nessuno metterà (crudelmente) la gazza nell’orcio come facevano i salentini al tempo della “Luna dei Borboni” di Bodini, grande poeta che ci si ostina a lasciare tra le carte e nella muffa dei conferenzieri universitari eruditi, invece di farlo circolare nelle scuole, spiegandone il furore e l’amara malinconia.
In una sorta di alleanza ermetica-surreale e chiaroscurale con Bodini, ecco sorgere la parola di Michele Pierri, medico tarantino, che usa il bisturi come un crocifisso, o il crocifisso come il bisturi, sbagliando sempre le mosse e non riuscendo a trovare una sua via precisa e decisa, una sua identità storica. “Si direbbe – scrive Antonio Corsaro – “che il suo processo evolutivo non abbia storia, come non ha storia la sua vita offerta alla medicina. Pierri si è occupato di periodici provinciali, ha scritto racconti quasi in segreto e paginette di critica, ha collaborato a riviste letterarie, ma senza dare a simili esercizi di scavo culturale che un puro peso di mestiere, con la volontà di mettere a fuoco le esigenze dell’anima”.
2. Alda Merini
C’è, però, dentro di lui, un paesaggio simile ad una strana macchia d’artiglio, a una realtà che non è solo realtà, ma qualcosa che la trascende in un misterioso rapporto di bene e male, di amore e odio, dove si fanno colloqui a distanza tra uomini e angeli invisibili, gli uomini sono uomini e gli angeli assumono le sembianze di gazze, gazze blu con striature bianche, bolse, ma eleganti nel breve volo… Aggiungiamo, per dovere di cronaca, che Michele Pierri fu uno dei co-fondatori dell’Accademia Salentina “ideata dal “poeta barone” Girolamo Comi nell’immediato dopoguerra, all’inizio degli anni ’50, quando la popolazione salentina era all’ottanta per cento praticamente semianalfabeta. Ma oggi di lui onestamente si trova poco o nulla, e quel poco è quasi sempre associato al nome di Alda Merini, con la quale ha convissuto per alcuni anni, dal 1981 al 1986, subito dopo la morte della sua adorata moglie, Aminta. E in quegli anni di fiato a fiato in un modesto condominio del centro di Taranto, il dottor Pierri non fece altro che parlarle di lei, alla povera Alda, della moglie morta, novella Beatrice, che stava in paradiso aspettandolo, pronta a far “spazio per essere l’unica / ad accoglier(lo), al transito”…
3. La gelosia
Comprenderete che la poetessa milanese, trovandosi peraltro in quella fase di ossessionante delirio metaforico, o follìa d’amore, che caratterizzò una fase importante della sua vita e della sua poesia, con tutta la gratitudine e l’ammirazione che poteva avere per lui, non è che fosse felicissima di sentir parlare della defunta:
“Tu mi parli della tua vita e dell’angelo / che ha lasciato in te il profumo della presenza, / tu mi parli di solitudini / e di antiche montagne di memorie / e non sai che in me risvegli la vita, / non sai che in me risvegli l’amore / parlandomi di una donna”.
E’ vero che il sodalizio tra i due fu quasi esclusivamente di natura spirituale e intellettuale, considerando che Pierri era un anziano vedovo e l’Alda una donna ancora giovane, sola, con problemi esistenziali gravi, e senza risorse economiche.
Probabilmente fu Giacinto Spagnoletti, amico di entrambi, che convinse il medico-poeta ad accoglierla nella sua casa, più come una paziente sensibilissima e nullatenente, una sorella minore (tra i due c’erano oltre trent’anni di differenza) che come una donna vera e propria che potesse in qualche modo sostituire la compagna scomparsa. Però è strano che Pierri, da medico, non considerasse l’effetto che potevano avere le parole, le lacrime di rimpianto, e i versi tutti indirizzati alla buonanima su un animo sensibilissimo di una discepola, avida di carezze e “gelosa”, come Alda:
“… Io penso a quella che fui / quando morii mill’anni or sono / e adesso tua discepola e canto, / scendo giù fino al Golfo / a toccare la tua ombra superba, / o stanco poeta d’amore / fissato a una lunga croce…”: “…Odio e amo. Forse mi chiederai come sia possibile. / Non so, ma sento che avviene, e mi tormento…”; “Molti diedero al mio modo di vivere un nome / e fui soltanto un’isterica”.
4. La “pazza barbona” diventa famosa
Quando Alda scrisse questi versi, probabilmente non avrebbe mai immaginato che le posizioni tra lei e il dottor Pierri si sarebbero invertite radicalmente e che lei, la “ barbona”, la “disperata”, la “isterica”, la “disturbata” non solo avrebbe superato di gran lunga il “maestro”, ma che addirittura il Signor Pierri sarebbe stato ricordato quasi esclusivamente per aver dato ricetto a lei, ritenuta una demente, una alcolizzata senza alcun futuro, con il pallino della poesia, (che è appunto “roba” per pazzi, complessati e originali. Nessuno che sia “normale” si mette a perdere tempo e a rendersi ridicolo con i versi). Oggi Alda Merini, recentemente scomparsa, è ancora uno dei poeti italiani più letti, considerati, apprezzati, discussi e amati, al centro di ogni forum, consesso, barnum letterario e poetico, e fino a poco prima della morte aveva avuto, giustamente, premi prestigiosi, riconoscimenti nazionali e internazionali. C’erano addirittura editori che le facevano la corte, nonostante sia notorio che i libri di poesia non abbiano praticamente mercato … ma i suoi sono versi “diversi”, bellissimi, (Tra il confuso via vai d’un aereoporto, spettatore casuale dell’amore / di sconosciuti adolescenti, ho baciato la morte. /Come un barbone o un mendicante, / sui marciapiedi m’incatenerei /per mendicare / amore). Ma sono anche i versi della “pazza della porta accanto”, di una che è stata in manicomio e ha un background tutto particolare, e quindi hanno fatto breccia nel mondo dei mass media, dello spettacolo e nel teatro, dove sono stati realizzati recital e piéces sulla sua vita e sulla sua poesia che “alacre come il fuoco, /trascorre tra le mie dita come un rosario //. Le più belle poesie / si scrivono sopra le pietre /coi ginocchi piagati /e le menti aguzzate dal mistero. Le più belle poesie si scrivono / davanti a un altare vuoto, / accerchiati da agenti / della divina follia.
5. Il poema della Croce
Alda Merini è stata e continua ad essere una delle voci più potenti e prolifiche della poesia contemporanea, poetessa di vertice, a livello europeo. Il suo ultimo libro, il “Poema della croce”, è stato letto in spazi religiosi come una moderna rappresentazione sacra, epifania tragica e luminosa. “ Ogni poeta /laverà nella notte / il suo pensiero / ne farà tante lettere /imprecise / che spedirà all’amato/senza nome”. La carnalità – scrive Gianfranco Ravasi – che era spesso in lei intrecciata all’eros, qui si trasfigurava e diventava la sarx giovannea, la carne del Verbo e la Divinità diveniva Umanità gloriosa e dolente. La poetessa poneva il suo Cristo al centro dello spazio e del tempo in una epifania tragica eppur luminosa. ”Attorno allo sperone roccioso del Calvario s’addensa non solo l’odio del mondo, ma si delinea anche il teatro della derisione” , cioè la brutale stupidità e la volgarità dell’umanità che la Merini aveva sperimentato su di sé e tanto detestava. Eppure su quell’asse della derisione e della crudeltà si inaugurava il giudizio definitivo sul male e, contestualmente, si apriva il cielo della redenzione. La croce ove si raggrumava il dolore di Dio, diventava così “sogno d’amore”: “Dio ha espresso il suo amore per l’uomo nel pianto”.
“Cristo è la lacrima di Dio, una lacrima (che) coprì tutta la carne del figlio.
In questi ultimi anni “la colpa e la grazia, l’inferno e la gloria sono stati i poli della ricerca spirituale di Alda, una ricerca attraversata non di rado dai fulmini di follia che lei non temeva più di rappresentare, “quella follia che la colpì la attraversò anche nel periodo dello strano sodalizio “tarantino” con Michele Pierri.
6. La gazza del nord
Del resto la poesia le era giunta sulle ali del vento del suo disordine interiore, anche se lei aveva paura di quel vento che la risospingeva per sentieri troppo tortuosi e profondi facendola vagare là dove si incontrano i ricordi e le speranze disattese, i visi dei morti e quelli dei vivi che non sanno più dire parole. La poesia è stata sempre vigile e presente in lei, anche e soprattutto nel periodo della sua follìa tarantina, e forse l’ha salvata dall’abisso della demenza, del non ritorno. Ma la fortuna editoriale le ha arriso non solo per gli indubbi meriti, riconosciuti perfino da Montale, ma anche perché, nel 1986, è tornata a vivere a Milano, dove, pur immersa nella solitudine, con il bisogno e la fame ossessiva d’amore spirituale e carnale, – che sempre ha avuto – nell’appartamento disordinato e misero, sito al secondo piano dei Navigli, ha “consumato i suoi giorni a fumare sigarette e a scrivere poesie, “le cose belle della vita” (“Oggi, -disse alla giornalista di Espresso- per esempio vorrei che qualcuno mi andasse a comprare le sigarette. Perché io non ho mai smesso di fumare, né di sperare”). Ma ci sono state altre cose che l’hanno fatta sperare, nella più completa disperazione, ad esempio, quand’era nell’inferno del manicomio di Taranto?
“Michele Pierri è stato sempre un uomo gentile, sensibile e meraviglioso, un angelo di bontà, e poi… poi ho amato intensamente le gazze salentine, quelle che, bolse, volano basse; le mie sorelle gazze, quanto mi somigliano!”
E i suoi pensieri furono quelli di una gazza ladra del nord, tenera e solitaria, santa e meretrice, sanguinaria e ipocrita, rapida nel rubare l’oro e lenta nel volare sul ramo; anche lei vive di un amore personale fatto di sogni, che quasi esclude il rapporto con il maschio. Amori intensi e infelici, come quelli di una gazza ladra, amori grandi e inesistenti, così grandi da elevarsi oltre l’umanità.
Negli anni del suo successo (“ma cos’è il successo?, idiozia, spazzatura, roba buona per guardoni!), quando tutte le televisioni e i giornali la intervistavano, le fu chiesto: E del suo maestro amato, Michele Pierri, infine, che ne è stato? Alda non volle mai più parlarne. Ricordava lo squallore il dolore la solitudine l’infamia del manicomio di Taranto, un lager nazista, qualcosa di più orrendo dell’inferno dantesco. “Dopo, per tutti, fui come un’appestata”. Ma Lucio Pierri, figlio di Michele, che ha scritto una biografia sul padre, replica: Nessuno di noi ha trattato la Merini come una appestata dopo il suo ricovero nella psichiatria tarantina, che effettivamente era peggio di un lager perché per mancanza di spazio i malati erano costretti sempre a letto; noi abbiamo cercato di tirarla fuori al più presto, in quel momento anche mio padre era ricoverato in chirurgia e non ha potuto aiutarla. Io andavo a trovarla dopo il lavoro, i medici me la affidavano per farla uscire a passeggio”.
“Lei mi dice che di Michele Pierri si è persa ogni traccia? Chissenefrega!
Alda volle cancellarlo dalla memoria, dimenticò perfino di avergli scritto una poesia con cui rivela la sua passione e il suo estremo disagio nel vivergli accanto, causa i figli, che riportiamo integralmente:
A Michele Pierri,
Amore, perdonami: sono brutale e vorrei ungerti / d’olio, /ti perseguito e vorrei / che davanti a te io fossi un tappeto, / ti amo e mi recludo nel mio silenzio, /ma ho paura, paura di me stessa, / di questi gigli orrendi di fame e di fango /che crescono nella mia mente. / I tuoi figli non mi perdonano/ e divorano la mia anima, i tuoi figli sono divoratori, / eppure io che sono madre / sazierò le loro bocche violente / perché non arrivino mai al nostro amore, /a dividere la nostra infamia segreta / di poeti malevissuti nel mondo.
E pure Michele Pierri, medico umanista e uomo nobile, alla sua morte, le lasciò un terzo dell’appartamento, 70 milioni, che il figlio Lucio si adoperò affinché la poetessa avesse nel più breve tempo possibile.
7. Il poeta Michele Pierri
Pierri, chi era costui?, dirà qualcuno. Era un poeta vero, di notevole spessore, con un’anima religiosa, chiusa, ascetica, ma un’anima mortificata, insaziata, fermentata di ribellioni, che si piega ad ascoltare la voce dei fanciulli e delle gazze tarantine che portarono consolazione alla sua esistenza chiusa e appartata; ascoltò la ragione della coscienza, esplorò, indagò sul perché delle cose, si confuse con i sogni, i fantasmi e i misteri della natura, per specchiarli in un colore e in un dolore densi e frantumati, come il ritmo del suo verso, che ora s’attorce e s’ingroviglia e non ti concede tregua, né respiro, sembra quasi che strida e arrivi fino a patire, a “fingere il dolore che sente davvero”, come disse ironicamente Pessoa…
Era un poeta vero, che brilla di luce propria. Non ha bisogno di essere preso al rimorchio della Merini, che è una grande poetessa, ma ha avuto – come accennato – la fortuna (dopo le disgraziate vicende sanitarie) di tornarsene a Milano e non a Taranto o nelle regioni di estrema periferia ed emarginazione del meridione come il Salento fino a pochi anni fa. Quella sfortuna è toccata a Pierri, che ha vissuto appartato, schivo, nascosto, quasi obliato. Donato Valli, che ebbe diversi incontri con lui, scrisse, in occasione del centenario della sua nascita (21 maggio 1998): “Si citano immancabilmente tre autori salentini, Bodini, Comi e Pagano, ma quasi nessuno fa riferimento a Michele Pierri, un poeta, che meriterebbe di essere collocato sullo stesso piano dei suddetti tre.
8. Le sue frequentazioni “alte”
Era nato nello stesso anno di Betocchi, con cui aveva instaurato uno dei sodalizi di più intensa qualità spirituale. Altri amici profondamente legati a Pierri erano Oreste Macrì e i già citati Comi e Spagnoletti, che curò e pubblicò alcune raccolte di liriche del Pierri. Suo amico carissimo fu, durante la prima stagione letteraria del novecento, il padre dell’ermetismo storico italiano, Carlo Bo, che scrisse la prefazione del suo primo libro, “Contemplazione”. Anche Giorgio Caproni, il lirico ligure-toscano, il cantore di “Annina”, ritenuto per un certo periodo il più grande poeta italiano di quest’ultimo scorcio di secolo, fu ottimo amico del Pierri e tra loro per un certo periodo di tempo ci fu un carteggio degno di rilievo. Queste frequentazione “alte” del Pierri – sostiene Valli – ci offrono un’idea su quali fossero le fonti del suo pensiero e della sua poetica, che si agganciano all’avanguardia simbolista, successivamente irrobustita dalla letture di scrittori mistici quali Santa Teresa D’avila, San Giovanni della Croce e Jacopone da Todi.
Ma non va trascurato l’influsso filosofico di grandi pensatori “irregolari”, dichiarati eretici, quali Giordano Bruno e Tommaso Campanella, attraverso i quali Pierri è confluito nell’orfismo classico moderno ispirato dalla scuola pitagorica. Un’altra componente della poesia di Pierri passa attraverso una costante dialettica reiventata di un marxismo purificato e idealizzato come forza redentrice. L’azione di queste due forze è evidente in “Contemplazione” (1950) e in “De consolatione” (1953) in cui si avverte l’urgenza della realtà che ci assedia con forza fisica, quasi materiale e da questo assedio ci si può liberare solo mediante la parola, che però trasmette solo pensieri, non sensazioni. Ed ecco la voluta ricercata ambiguità della scrittura di Pierri, tra l’urgenza della fisicità e quella dello spirito.
9. Chico ed io, il poema dedicato ad una gazza
Nel 1971 fu pubblicato un poemetto, “Chico ed io”, sulla Rivista “L’Albero” fondata da Comi, un poema dedicato ad una gazza, che allietò alcuni mesi della sua vita e poi morì, forse avvelenata. (“Era una gazza che viveva in famiglia con noi”, scrive Lucio Pierri. Il poema si componeva di 59 liriche e fu scritto molti anni prima di conoscere la Merini”) . Pierri passava diverso tempo ad allevare le gazze, non lo faceva certo da esperto, ma da “fratello” (c’è in lui “ l’indipendenza dialettica del cristiano giullare” tutta francescana) perché tali considerava tutti gli animali: fratelli di viaggio, oppure da “comunicatore” di sensazioni misteriose. La bellissima gazza di Pierri non era come la capra di Saba, legata e dal viso semita, anche se “il dolore è eterno / ha una voce e non varia”, ma era una creatura “libera e felice” che faceva sentire libero e felie anche il poeta. Con “Chico”, Pierri trascorreva delle magnifiche giornate, giocavano e parlavano, in un linguaggio assolutamente misterioso e misterico, per iniziati, che conoscevano soltanto loro due.
Il poema “Chico ed io ” non è una favola, né una metafora (La “Gazza Ladra”-Alda Merini, che intanto trovava spazio perfino sulla copertina di Time, non c’entra per nulla, come ha precisato Lucio Pierri), ma piuttosto la descrizione di una presa di coscienza più alta e consapevole da parte dell’uomo: noi e gli animali siamo sullo stesso piano, essi hanno pari dignità, gioiscono e soffrono, sono capaci di renderci felici, meritano il più assoluto rispetto. Pierri, in definitiva, intendeva suggerire agli uomini un pietoso pensiero verso tutti gli esseri sensibili, voleva diffondere l’idea che “allargare la cognizione del dolore extra umano non è conquista di certo inferiore a quella della conquista degli spazi”. E noi concordiamo pienamente con lui.
Roma, 22 novembre 2011