Prefazione a “Italieni” di Paolo Vincenti

[In occasione dell’uscita da Besa del nuovo libro di Paolo Vincenti, “ITALIENI”, pubblichiamo la Prefazione di Massimo Melillo.  La copertina del libro e le vignette sono firmate da Paolo Piccione.  Postfazione di Maurizio Nocera.]

di Massimo Melillo

E’ un genere letterario antichissimo quello della satira e non staremo qui a raccontarne la storia perché sarebbe un esercizio troppo lungo, che rischierebbe di annoiare i lettori. Ma alcuni punti fermi, però, vanno stabiliti scrivendo subito che, come il cinico greco Menippo di Gadara, Paolo Vincenti, con questo suo “Italieni”, intinge ben volentieri la propria penna nel veleno. Nella letteratura latina, ad esempio, la satira annoverava esponenti come Lucilio, Persio, Orazio, Petronio, Giovenale, Marziale, ed aveva sempre un’intonazione moraleggiante, nel senso che la sua missione era quella di colpire la corruzione e i potenti, prendere di petto politici, ruffiani, debosciati, ipocriti e profittatori e di correggere costumi e pregiudizi. Passano i secoli ma la lezione della satira rimane la stessa e, sconfinando spesso nella comicità con battute, arguzie, mirate invettive, il suo compito resta quello della riflessione e del divertimento colto.

Certo la satira di Vincenti non proviene in maniera diretta dalla letteratura latina ma dall’evoluzione – in senso caustico, giullaresco, picaresco – che essa ha avuto nei secoli successivi, in particolare a partire dal Cinquecento. Forse l’antecedente letterario va proprio ravvisato nelle “pasquinate”, componimenti satirici che nella Roma papalina venivano affissi sulla statua di Pasquino e con i quali si dileggiavano pontefici, regnanti, nobili e gente in vista. Vincenti, infatti, utilizza un linguaggio colorito, vario per intonazione e stile, non disdegna la parolaccia, che però non è mai gratuita ma sempre adeguata alla struttura della narrazione.

L’autore si pone come un cronista beffardo e mordace dell’esistente, che smascherando vizi e infingardaggini del nostro panorama nazionale, spinge il lettore a riflettere sulla deriva cui sta andando incontro la nostra società, ad acquisire consapevolezza della criticità dell’attuale situazione italiana, a non dare nulla per scontato, a non cullarsi sull’adagio “mal comune mezzo gaudio”, a non lasciarsi andare al menefreghismo o, peggio ancora, all’indifferenza. Un monito, il suo, affinché le coscienze addormentate escano dal torpore per riprendere in mano non solo la propria esistenza ma sollecitando anche quelle altrui per diventare attori e protagonisti consapevoli di un cambiamento possibile e non più procrastinabile. Vincenti, ad esempio, è abbastanza lontano da un certo populismo, che oggi impera sulla scena politica italiana e molto spesso del popolo ha addirittura un concetto tutt’altro che conciliante, disprezzandolo quando diventa furbo e servile, pronto a seguire le mode, ad accodarsi, ad abbassare la testa, ad affidarsi ciecamente all’uomo della provvidenza e ai taumaturghi di turno, che ancora oggi, purtroppo, abbondano.

Prendendo spunto da argomenti seri e a volte tragici, la satira esercita la propria corrosiva provocazione, portando sovente all’indignazione e quasi sempre a far meditare il lettore. Argomenti della politica, del costume e della cronaca, che altrimenti passerebbero inosservati, diventano dunque anche per i più distratti motivo di più approfondita osservazione e spunto di riflessione. Stesso ragionamento vale per le vignette, che nel libro sono firmate dal bravissimo Paolo Piccione, e per la stessa satira televisiva. Indipendentemente dallo strumento utilizzato, la satira, se è graffiante, acuta, intelligente, è una altissima forma di arte capace di curare l’anima con il balsamo dell’umorismo: una formula che ben conosce il mio amico Antonio Mele in arte Melanton (sue le vignette del precedente libro di Paolo Vincenti “L’osceno del villaggio”), che ha spesso sottotitolato le sue mostre con “Sorrido ergo sum”.

Capita che Vincenti, nel presentare il proprio lavoro, premetta, quasi a volersi giustificare, che il libro “è abbastanza cattivo”. Non so se lo faccia per una malcelata modestia o come excusatio non petita, sta di fatto che la sua premessa è del tutto inutile: la satira è ontologicamente cattiva. La satira colpisce tutti, sferza, fustiga i costumi, mette alla berlina malvezzi e cattive abitudini. Può essere fatta bene o male, può andare a segno oppure no, schiaffeggiare o solo accarezzare, ma la sua ragion d’essere è sempre la stessa.  Pensiamo alla rivista socialista L’asino, fondata nel 1892 da Guido Podrecca insieme a quello che si può considerare forse il più grande umorista di tutti i tempi, Gabriele Galantara, al quale oggi è intitolato un Centro studi nel Comune marchigiano di Montelupone, che gli ha dato i natali. L’asino, più volte censurato, fu chiuso dal fascismo dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti e lo stesso Galantara venne perseguitato e incarcerato.  Tra i tanti periodici di satira, redatti nel corso del tempo da prestigiosi giornalisti, vanno ricordarti tra gli altri anche Il becco giallo, Marc’Aurelio, Il Travaso delle idee, Il Bertoldo, Don Basilio, Candido, Il selvaggio e, per venire ad anni meno lontani, il Satyricon del quotidiano “la Repubblica”, Tango del giornale comunista “l’Unità” e Il Male. E proprio in queste testate, che vendevano centinaia di migliaia di copie, hanno lavorato grandi firme del giornalismo tra cui Indro Montanelli, Leo Longanesi, Giovanni Mosca, Mino Maccari, Giovannino Guareschi, Arrigo Benedetti, Sergio Saviane e tanti altri ancora, insieme ad autori e vignettisti che hanno fatto la storia del cinema italiano come Federico Fellini, Ettore Scola, Cesare Zavattini, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli (Age e Scarpelli), Vittorio Metz, Stefano Vanzina (Steno). Una stagione d’oro anche per disegnatori e caricaturisti che, a partire dalle straordinarie vignette di Giuseppe Scalarini, pubblicate nel primo Novecento dal quotidiano socialista Avanti!, sferzavano il potere e il capitalismo tanto che con l’avvento della dittatura fascista di Mussolini lo stesso Scalarini subì il carcere e fu confinato a Ustica e Lampedusa.

Certo, già prima dell’era di Internet, la satira ha pagato pegno e con la capillare diffusione della rete vi è stata una generale commistione di generi e stili. C’è da dire però che, per quanto invasivo e spesso fuorviante possa essere lo strumento informativo tecnologico, la scrittura di Vincenti si presenta originale, ricca e dinamica, utilizza una vasta gamma di sfumature comunicative, passa con disinvoltura dal basso all’alto con moltissime citazioni, a cominciare dai versi dei cantautori italiani che appaiono in esergo ad ogni intervento. Vincenti è stato definito un moderno giullare di corte dove però la corte è il “ villaggio globale”, che richiama il titolo della sua rubrica “L’osceno del villaggio” nella quale pubblica gli articoli raccolti nell’omonimo volume e in questo “Italieni”, due opere che costituiscono di fatto un continuum.

Al giullare tutto era concesso e godeva di una specie di immunità per cui, assumendo la maschera dello scemo, poteva permettersi di dire qualsiasi cosa rivelando le contraddizioni, i capricci, le magagne, gli intrighi, le oscenità che avvenivano nella corte. Era una figura poliedrica con tratti di poeta, attore, cantastorie, affabulatore, animatore di feste e festini, ironico castigatore di costumi. Caratteristiche che Paolo Vincenti possiede e padroneggia, fra ironia e autoironia, e questo libro ne è un caso esemplare.

Nel dimostrare allergia all’ipocrisia e alla falsità, l’autore fa una mirabile carrellata di tipi umani, quelli che lui detesta maggiormente, in “Ad ogni giorno il suo affanno”, che è forse il pezzo più corrosivo del libro, nel quale esercita al meglio la propria “vis polemica”. Sebbene questi siano ritratti universali, quindi non destinati a qualcuno in particolare, le descrizioni posseggono una straordinaria vivezza, e ognuno di noi può incollare ad ogni maschera umana almeno un nome, perché tutti nella nostra vita quotidiana abbiamo a che fare con personaggi che proprio non sopportiamo.

Una lettura, quindi, che invita tutti noi a fare i conti con le nostre debolezze e a sorriderne perché in fondo siamo davvero tutti “italieni”, chi più chi meno. Paolo Vincenti – lo confessa lui stesso – non ama cantare nel coro e questa sua tendenza a contrastare sempre l’opinione dominante e ad andare controcorrente, qualche volta lo spinge a sostenere tesi paradossali, come in “La sindrome di Totti” o in “E’ sempre festa” o in “Vegan party” e a tessere addirittura un antifrastico “Elogio del matrimonio”, pezzo in cui spinge al massimo il gusto per il paradosso e la provocazione.  Potremmo definire molti di questi articoli “politicamente scorretti”, se non tenessimo presenti le premesse che abbiamo evidenziato. Vincenti, uomo lontano da qualsiasi parrocchia o confraternita, è contro tutto e tutti puntando il suo “j’accuse” in ogni direzione. E, tuttavia, lo fa senza eccessiva enfasi, senza retorica e senza acrimonia, bensì con il sorriso sulla labbra, ritenendosi un disimpegnato.

Ciò, però, è vero solo in parte poiché se lo fosse del tutto, il totale disimpegno lo condurrebbe inevitabilmente ad un banale e sciocco cinismo fine a se stesso. Invece, la sua disincantata denuncia dei mali della nostra società (dall’incoerenza al conformismo, dal consumismo alla corruzione dilagante, dalla barbarie di certe trasmissioni televisive al culto dell’apparenza) fanno emergere chiaramente la presenza di un nucleo di valori che l’autore cerca invano di celare nel suo proclamato disimpegno. D’altra parte, la satira non sarebbe tale se non nascesse  sempre da una  reazione di sdegno e di profonda indignazione. Per questo, c’è bisogno di osservatori lucidi e irriverenti che ce lo ricordino.

 

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