di Antonio Lucio Giannone
Quello di Francesco Politi è un nome ben noto agli studiosi salentini e non, oltre che ai lettori di “Presenza” alla quale ha collaborato per quasi vent’anni. Nato a Taurisano nel 1907, Politi è stato un apprezzato germanista, traduttore, docente universitario, poeta in lingua e in dialetto, operatore culturale e conferenziere. In occasione del decimo anniversario della sua scomparsa, avvenuta a Roma nel 2002, è stato pubblicato il volume Pirandello narratore e altri studi di italianistica, a cura di Gigi Montonato (Taurisano, Edizioni di Presenza, 2013, pp. 64), che permette di scoprire un altro aspetto della sua multiforme attività, quello di italianista e mediatore culturale. Ciò non deve sorprendere più di tanto perché, come ci informa Montonato nella sua introduzione, Politi si laureò presso l’Università di Firenze proprio in Letteratura italiana ed esordì pubblicando vari saggi sui nostri classici.
Il libro contiene sei scritti, alcuni dei quali composti in tedesco e tradotti per la prima volta in italiano. Quattro di essi sono dedicati a narratori e poeti italiani del Novecento, e precisamente Luigi Pirandello, Giuseppe Ungaretti, Aldo Palazzeschi e Salvatore Quasimodo, mentre gli altri due affrontano questioni linguistiche. Per comprendere fino in fondo la natura di questi scritti, bisogna tenere conto innanzitutto del periodo in cui furono composti (gli anni che vanno dal 1950 al 1963, quando l’autore viveva ancora in Germania), e poi del pubblico al quale erano rivolti. Il pubblico era quello tedesco e l’intento principale era quello di far conoscere alcuni dei principali scrittori italiani contemporanei in quella nazione. Date queste premesse, si capisce che essi non siano né possano essere completamente originali, ma risentano dell’interpretazione che la critica italiana di quegli anni aveva dato degli autori presi in esame. Nonostante questo, però, bisogna riconoscere che Politi risulta sempre informato, documentato ed equilibrato nei giudizi.
Il saggio su Pirandello (Umanità e arte nella narrativa pirandelliana) è quello più impegnato e deriva da una serie di conferenze che l’autore tenne in Germania tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Esso risente forse più degli altri del periodo in cui venne composto, il periodo della cosiddetta “guerra fredda” e del conseguente rischio nucleare. Per questo Politi sente Pirandello un po’ lontano dai suoi tempi, perché – come scrive – se egli può dare agli uomini l’altissima lezione morale “di considerare coraggiosamente la propria miseria… non sa dar loro la fiducia e la forza per evaderne e per consolarsene”. Ciononostante, però, egli conduce un’analisi accurata dello scrittore siciliano che considera “l’ultimo autentico classico della letteratura italiana” e parte proprio dalla sua formazione filosofica avvenuta in Germania, che gli consente di superare il naturalismo degli esordi e lo porta a considerare la realtà una “creazione del soggetto pensante … pura rappresentazione della coscienza”, e l’io non più “uno” ma tanti “io” diversi, giungendo alla sua disgregazione.
Dopo aver esposto alcuni concetti pirandelliani fondamentali, come il contrasto forma-vita e l’umorismo, Politi si sofferma in particolare sulle novelle, dove, a suo avviso, è meno sensibile il “processo disquisitivo”, cioè quella tendenza all’analisi, alla riflessione talora eccessiva e insistita, che è invece presente massicciamente nelle opere teatrali. E qui si sente, in fondo, l’influenza di Croce che condannò proprio “l’inconcludente e convulso filosofare” dello scrittore. Anche per il critico salentino il vero, grande Pirandello si ritrova più nelle novelle e in certi romanzi (Il fu Mattia Pascal e Uno nessuno e centomila) che nei drammi.
E, come si è detto, passa in rassegna alcuni racconti rinvenendone i temi centrali: la memoria, l’evasione dalla realtà, la fede, la morale. Verso la fine afferma che “lezione più alta dell’arte pirandelliana” sta proprio “in quest’ansia indomabile e bruciante di rivelare agli uomini la vanità delle apparenze, di indurli a essere più coscienti della vita e del mistero”.
Il secondo breve intervento riguarda la traduzione in tedesco della famosa lirica di Ungaretti, I fiumi, nella quale nota “imprecisioni e approssimazioni” da parte del traduttore, Politzer. E qui Politi dimostra tutta la sua competenza, oltre che la sua sensibilità linguistica, tanto più necessarie, l’una e l’altra, trattandosi di un poeta come Ungaretti che mise al centro del suo lavoro poetico la “parola”, caricandola di connotazioni che le davano una rinnovata forza espressiva. Alla fine chiede quasi scusa di queste sue osservazioni, ma poi aggiunge che “diventa giusto avere certe esigenze quando esse mirano a tutelare i valori linguistici e poetici della letteratura italiana e anche la tradizione della più rigorosa precisione propria dei tedeschi in tutte le loro applicazioni”
Il terzo scritto costituisce l’introduzione alla traduzione in tedesco della raccolta di novelle di Aldo Palazzeschi, Stampe dell’800, apparsa in Italia nel 1932. Anche in questo caso Politi ripercorre rapidamente, e correttamente, le varie fasi della produzione letteraria di Palazzeschi, da quella crepuscolare, che – sostiene giustamente – “contiene in sé tutte le premesse per un superamento della tendenza”, a quella futurista, che è dettata “da una comune volontà di rottura delle forme chiuse”, per poi accennare alle opere principale, dal Codice di Perelà alle Sorelle Materassi. Per quanto riguarda Stampe dell’800, lo definisce “libro di memorie originalissimo con cui Palazzeschi guarda al passato con tenerezza, con gli occhi e col cuore del bambino che lo ha vissuto”.
Il quarto saggio è la presentazione di un recital di poesie di Quasimodo che si tenne a Monaco di Baviera nel 1961, allorché il poeta siciliano era all’apice della fama, essendo stato insignito due anni prima del Premio Nobel per la letteratura. Qui Politi intende offrire un ritratto essenziale ma completo di Quasimodo al pubblico tedesco, partendo dal primo periodo in cui egli è legato a d’Annunzio dall’amore per la parola e a Pascoli “per certi tratti e atmosfere”. Poi c’è la fase ermetica, in cui emerge il tema della nostalgia per un paradiso perduto rappresentato dalla propria terra e dal periodo dell’infanzia. La traduzione dei Lirici greci segna una svolta verso una lingua più comunicativa che sarà caratteristica delle raccolte del secondo dopoguerra, in cui il poeta passa dal “soggettivismo lirico” alla poesia “epico-sociale”. Resta anche ora, nota però Politi, “l’insistita tendenza all’oratoria” che prende il posto della “vecchia introspezione lirico-ermetica”. E anche in questo caso l’autore del saggio fa delle affermazioni precise, confermate sostanzialmente dalla critica più recente che proprio a causa di questa tendenza retorica ha ridimensionato l’esperienza poetica di Quasimodo.
Gli ultimi due interventi sono di carattere linguistico, a ulteriore conferma delle varietà d’interessi di Politi. Nel primo, A proposito del’italiano in Germania, fa, per così dire, le pulci alla traduzione in tedesco della nota canzone di Giacomino Pugliese, La dolze ciera piagente, ad opera di Theodor Frings, con le consuete, puntuali osservazioni che dimostrano le sue conoscenze storico-culturali, oltre che puramente linguistiche, ma anche, come s’è detto, la particolare sensibilità creativa di cui era dotato. All’inizio ribatte l’affermazione che la letteratura italiana sia poco conosciuta in Germania, anche se ammette “la crisi della nostra lingua nell’Europa odierna”, proprio come succede anche al giorno d’oggi. Subito dopo però sostiene che i tedeschi continuano a occuparsi di letteratura, cinema e teatro italiano, di classici e di contemporanei.
L’ultimo articolo, pubblicato nel 1953 sulla rivista “Lingua nostra”, A proposito di neologismi, è uno dei più godibili del libro, per la verve che dimostra Politi, il suo gusto per le battute, l’ironia profusa nelle sue osservazioni. Qui egli contesta la posizione di Eugenio Treves che nel suo libro Si dice? (1951), aveva rifiutato e riteneva ingiustificati molti neologismi da lui elencati e sostiene invece che bisogna combattere l’uso incauto, l’assoluta superfluità del neologismo che “ ha un suo valore e una sua funzione quando serva a cogliere ed esprimere certe particolari sfumature, intenzioni, relazioni che il vocabolario preesistente non suggeriva in modo immediato ed univoco”. Ebbene, bisogna dare atto a Politi, che pure non era un linguista, di aver colto nel segno in questo specifico caso, perché dei venti neologismi che Treves rifiutava come inaccettabili, quasi tutti sono entrati da tempo nell’uso comune, ad eccezione di uno (o due), rigettati con gli anni.
Ed egli conclude questo suo scritto appunto con una battuta, basata su un gioco di parole relativa al nome dello studioso preso in esame: “Eugenio Treves, nelle sue proposte per l’ ‘eugenetica’ della lingua, deve ricordare qualche volta che altro è la ‘eugenetica’, altro la ‘sterilizzazione’. Non è vero?”.
[Pubblicato col titolo Francesco Politi italianista. Pirandello narratore e altri saggi, in “Presenza Taurisanese – Brogliaccio salentino”, a. XXXII, n. 3, marzo 2014, pp. 6-7.]