di Giovanni Invitto
Nel 1969 Vinicius De Moraes, Giuseppe Ungaretti e Sergio Endrigo composero un disco dal titolo “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”. Questa formula può sembrare generica ma il termine “arte” invia ad ognuno di noi la responsabilità di scegliere coloro che ci accompagneranno nel nostro percorso di vita e che noi, per converso, accompagneremo per il tragitto che ci sarà dato dagli eventi esistenziali e/o da Qualcuno che li governa. Questa premessa introduce il mio rapporto con due amici di Galatina, cioè il professore Giuseppe – Peppino per gli amici – Virgilio e suo figlio Gianluca, anch’egli docente. Per essendo sposato dal 1973 con Marisa, galatinese, non è stata Galatina a farci conoscere ma, negli anni precedenti, Leuca dove la mia famiglia paterna villeggiava da sempre. Per uno o due anni la mia casa leucana – in fitto – aveva di fronte l’appartamento dove il prof. Virgilio villeggiava. I nostri rapporti erano quelli formali del saluto quando ci si incontrava o quando ci affacciavamo dai rispettivi balconcini-ingresso.
Con il tempo e con il mio insegnamento liceale a Galatina, divenni collega di Virgilio senior, quindi nacque una familiarità più solida e ricca. Lo conobbi non solo come docente ma come studioso soprattutto della storia del meridione italiano. Agli inizi del 1999, mi inviò un suo libro su Galatina e mi invitò alla presentazione dello stesso. Purtroppo non potetti andare e gli anticipai il fatto con questa lettera: «4 gennaio 1999, Caro Giuseppe, purtroppo, come temevo, non mi sarà possibile essere materialmente presente stasera alla presentazione del tuo volume. Le altre presenze e gli altri interventi già da soli sono giusto e qualificato riconoscimento al tuo lavoro. Come ho avuto modo di scriverti appena lessi il tuo volume, ripeto che per la storia di Galatina nel Novecento il tuo studio inaugura una lettura e un metodo storiografico ancora non esercitati su quell’oggetto. La mia competenza scientifica, nell’ambito della storia civile e politica, è assai scarsa, quindi i miei giudizi rischiano di essere provvisori e non pertinenti. Ma non mi manca l’attenzione per i fatti nostri e, soprattutto, per una storia della “società civile” che si affianca e determina la storia delle istituzioni locali e nazionali. La tua opera valorizza tutto questo, anche sulla base di un’antica sensibilità gobettiana (e oggi, forse, bobbiana) che ancora traspare dalle tue pagine. Tu hai inaugurato un modo di fare la storia di Galatina che si affianca e integra le altre storie e cronache, pure importanti, che hanno riguardato personaggi notevoli, singoli eventi, oltre la storiografia della pietà e della coscienza religiosa materializzate in monumenti, pratiche, culti. Quindi ancora grazie per l’invito rivoltomi, ma anche, e soprattutto, per il tuo umile, paziente, nascosto lavoro di custodia e di alto insegnamento di una nostra storia veramente “civile”».
Progressivamente divenni anche amico del figlio Gianluca, oggi non solo uomo di cultura, ma programmatore e stimolatore di eventi pregevoli. Di lui negli ultimi tempi sono apparsi due testi: Così stanno le cose, Edit Santoro, Galatina, luglio 2014, pp. 152, e nel settembre dello stesso anno, un testo in francese, con lo stesso editore, Résonances salentines con introduzione e traduzione dall’italiano a cura di Annie e Walter Gamet, di 274 pagine. Il volume riprende e coordina testi pubblicati su “Il Galatino”.
Mentre leggevo il primo testo, appuntavo con la matita che quel testo mi sembrava una passeggiata a Galatina che permetteva all’autore una lettura diretta e completa della sua città dandoci quasi una sociologia urbana della stessa. Leggiamo nella conclusione del Preambolo: «Sostiamo e raccontiamo senza mitologie, senza querimonie, disarmati, guardando in tutte le direzioni. Non diamo retta a chi ci mette addosso la paura di essere esposti al mondo, al passaggio violento del nemico. È lui il nemico. Sostiamo senza paura, con molta curiosità verso quanto avanza tutt’intorno, lungo la linea lontana dell’orizzonte. Da lì, come sempre, i nostri amici, migranti come uccelli, porteranno le risposte giuste a noi che sostiamo». Un atto di umiltà ma anche un atto di autocoscienza fondata perché l’autore non si presta a finte modestie di maniera. Sa di non essere un monsù Travet, ma un serio e impegnato lavoratore della cultura.
Il libro è un’autonarrazione non per edonismo ma per comunicare uno storia di vita che mentre si scrive, come avviene sempre, indica il senso di quella vita. Come quando a dodici-tredici anni imparò a guidare l’automobile con l’apprensione, comprensibile, di sua madre. Ma Gianluca, in un’autodifesa postuma rispetto agli eventi, aggiunge, a fronte dell’affermazione materna: «Sti vagnuni te moi nascenu mparati», la considerazione che lei non considerava le molte lezioni di scuola guida da lei stessa impartite al figlio. Parimenti l’autore non ha riserve nel ricordare, nella sua narrazione, le letture di suo padre del libri di Guido da Verona, allora considerato autore osceno e peccaminoso e che oggi avrebbe un senso solo per capire il clima sociale e culturale di un’epoca.
Ma in questo autobiografia raccontata e con passaggi lievemente e magistralmente romanzati, abbiamo anche la proiezione nelle nuove generazioni. E un padre del 2014 (anche del 2015) come fa a non preoccuparsi per la vita, le amicizie, i valori dei figli e soprattutto delle figlie, ritenute soggetti più vulnerabili nella loro adolescenza? Nel romanzo autobiografico la dichiarazione del padre-autore è esplicita e onesta: «Le mie figlie ora si sono fatte grandi e hanno preso il volo: chi potrà mai raggiungere queste vite inquiete di adolescenti dai mille segreti, che viaggiano veloci a bordo dei loro scooter e, quando sono in casa, a bordo di milioni di byte, che le mettono in comunicazione con i loro simili, da un computer all’altro, anche a distanza di chilometri».
Così il testo parla del territorio, soprattutto di quello meno ricco, come la campagna che, nel Salento, è ancora territorio non solo di coltivazioni o altro ma continua ad essere spazio di riposo, di sosta, di riflessione sul mondo e su noi che ne siamo i fruitori. Così un capitolo è Una passeggiata in campagna. Il lettore lasci a chi scrive qui di sottolineare un collegamento dotto con con i versi del Petrarca ma con lo spirito di cui ci parla il poeta medievale: «Solo e pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi e lenti, e gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio uman l’area stampi». Gianluca non me ne voglia se ho fatto un accostamento da triplo salto mortale, ma l’ho fatto soprattutto per evidenziare la permanenza nello spirito poetico in tutti i tempi e in tutte le regioni umane.
Nella sezione Nuovi scritti cittadini troviamo un topos della nostra civiltà: la notte e l’insonnia e le «notti bianche» che ora infieriscono in ogni città e per motivi talvolta creati dal nulla. Anche in questo caso è opportuno rifarsi all’autore, per quanto la citazione non sia breve, ma lo merita: «I moderni operatori culturali associano l’arte e la cultura, o meglio la cosiddetta fruizione artistica e letteraria, alla notte, perché così vuole la moda del momento, mentre mia madre mi ha sempre detto che di notte vanno in giro i ladri e gli assassini, Ma oggi, per essere à la page, bisogna uscire di notte, andare in discoteca di notte, seguire la presentazione di un libro di notte, visitare una mostra pittorica di notte, ecc.». La conclusione di Virgilio non può essere che si tratta di roba da matti e, con la sua arguzia e ironia aggiunge: «Speriamo almeno che i ladri e gli assassini non girino di giorno». La percezione complessiva dell’autore è che non ci sia più lo spirito comunitario della città e che tutto sia una recita. Per converso egli nota nella città desolazione, crisi economica delle famiglie, istituzioni centrali come la scuola, sono senza risorse e progressivamente si deteriorano. E così via. Appunto: così stanno le cose… come ci ricorda il titolo del libro. E poi si tocca un’altra peste sociale: l’uso delle droghe sin dalla adolescenza. Poi Virgilio passa a parlare delle condizioni etico-morali-sociali dell’Occidente con l’amara conclusione che le classi sociali esistono, ma, da come dimostra il loro comportamento, senza coscienza di classe.
Un’altra sezione è dedicata ai Frammenti scolastici deve è presente, elaborato con estrema maestria, quella che potremmo chiamare (ma non lo fa l’autore) la recita scolastica: «una volta in classe, il rituale iniziale del reciproco nascondimento, sia che l’insegnante sieda dietro la scrivania sia che rimanga in piedi passeggiando tra i banchi degli studenti, ha termine quando tutti improvvisamente tacciono» (p. 77). E poi c’è il discorso delle firme del docente, degli esami ecc. mai con lessico e finalità para-sindacali ma sempre con il carattere di una benigna narrazione di una realtà poliedrica, limitata istituzionalmente e non per colpa degli attori (docenti e studenti) ma di chi ha sempre pensato che la scuola non sia una istituzione produttiva, perché, a parere di questi Soloni, non produce ricchezza materiale né prodotti di tale genere. Guarda caso, la scuola produce cittadini e civiltà: cose da poco?! E l’autore esplicita un vulnus di questa realtà che nei secoli, e non solo in Italia, non solo nell’Occidente, ha formato cittadini culturalmente attrezzati ad essere soggetti attivi e promotori di una partecipazione democratica alle istituzioni. Molto bello e molto vero questo passaggio dell’Autore: «Mi chiedo perché la scuola debba fare questo effetto, quello d’un luogo di costrizione, d’affanno, di paura, d’inganno. Perché gli insegnanti siano stati messi nelle condizioni di mentire, dichiarandosi ora formatori dei giovani ora custodi della tradizione ora trasmettitori del sapere, mentre sono solo degli adulti a cui la società ha delegato il compito di intrattenere un rapporto con le nuove generazioni. Una delega sempre condizionata dalle continue interferenze del potere ministeriale» (pp. 94-95).
L’ultima sezione è intitolata: «Esercizi di saggezza». Ma la saggezza si può ottenere con esercizi? Nella pagina di apertura della sezione abbiamo una frase del filosofo esistenzialista tedesco Martin Heidegger, presa dal suo testo più importante, cioè Essere e tempo: «Si è ciò di cui ci si prende cura». Naturalmente l’incipit dell’autore è di quella dialettica accattivante e, contemporaneamente, delocalizzante il lettore: «Che cosa sia la saggezza, non lo so con precisione e forse non lo so proprio. “Saggezza” è una di quelle parole che nessuno riesce a definire una volta per tutte» (p. 99). Utilizzando un dizionario etimologico ho letto che quello sarebbe un termine preso dal francese sage che deriverebbe dal latino sapius cioè quello che fu il sapere, cioè il cogliere il sapore delle cose. Ecco chi è il saggio: coglie il senso delle situazioni e degli eventi e agisce di conseguenza.
Poi Gianluca tocca il discorso del Salento correlato a quello degli intellettuali: «L’ego degli intellettuali è gigantesco. Sono dappertutto, in tutte le contrade d’Italia, ma nel Salento-sentina [sic] rifluiscono tutti per una ragione geografica, perché oltre il Salento c’è il mare e oltre non si può andare» (pp. 101-102). Posso fare il prof di filosofia? Ricordo a me stesso e al collega Gianluca la storia di Leibniz, filosofo e vescovo tedesco che 18 giugno 1717 da Napoli scrive all’amico Percival: «Sono appena rientrato da un viaggio per le terre più remote e sconosciute d’Italia. Vostra Signoria conosce perfettamente le città più decantate, ma forse per la prima volta sente dire che la più bella città italiana si trova in un lontano angolo del tacco. Lecce (l’antica Aletium) è, per i suoi ornamenti architettonici, la città più fastosa che abbia mai visto. Gli edifici principali sono costruiti in rustico, con pietra tagliata, e hanno tutte le porte decorate. Gli ornamenti alle finestre sono in stile dorico o corinzio, le balaustre sono in pietra. Non ho visto in nessun’altra parte d’Italia conventi tanto belli. L’errore comune è ritenere che cadano in un eccesso di ornamento. Predomina il corinzio, ordine preferito dai leccesi, soprattutto alle porte della città, eccezionalmente belle. Lecce è situata nell’entroterra e quindi senza traffici; non supera i 16.000 abitanti. È gente veramente signorile; direi che ha ereditato la delicatezza dei Greci, un tempo abitanti di queste parti d’Italia. Lei sa che in moltissime città italiane i palazzi in verità sono belli, ma le normali abitazioni di gusto mediocre. È così anche a Roma. A Lecce invece il buon gusto è diffuso, è finanche delle case più povere». Lo so che Gianluca mi punzecchierà per il mio campanilismo leccese, ma se la prenda con Leibniz, se lo incontra nell’altra vita. Ma va anche detto quello che ho anticipato: il nostro autore ha dedicato al Salento un bel testo in francese. Non posso che concludere la lettura del primo testo con le riserve sul ruolo dei politici che escludono la gente e ci dà non dei comandamenti, per quanto parli del decalogo (con un elemento aggiuntivo) dell’escluso, che è costituito da questi suggerimenti spiegati e commentati: stare in silenzio, stare da soli, stare in pace, stare comodi, stare in ascolto, stare insieme agli altri, stare senza far nulla, stare sul terrazzo a guardare le stelle, stare tra le righe, stare al palo, stare in guardia.
Il testo, che vale la pena leggere personalmente e non per interposta persona, come è chi scrive qui, si conclude con questi capitoli brevi: Ricchi e poveri, Libro e televisione, Esercizio di pazienza, Padri e figli, La prima volta che capii come stanno le cose.., La cura dell’orto e una utilissima nota bibliografica. Allora, prof. Gianluca Virgilio, aspettiamo di leggere altri scritti saggi come questo.
[“Il Titano”, supplemento economico de “Il Galatino” anno XLVIII n. 12 del 26 giugno 2015, pp. 37-38]