Antonio  Prete, Il cielo nascosto. Il teatro degli affetti che vive dentro di noi

di Antonio Errico

Come l’universo, anche il testo, per Antonio Prete, è infinito. Nel testo convergono e si riuniscono e si addensano storie, memorie, concetti, parole, suggestioni, emozioni, sentimenti, letture, interpretazioni, linguaggi, trasalimenti, fantasticherie, sguardi, perplessità, riflessi di colori, analisi approfondite, lucidissime, scandagli delle profondità di un verso, di una prosa, di un’immagine dell’infanzia, l’eco di una voce che canta nel meriggio fra le foglie di tabacco.  Ogni elemento rimanda ad altri elementi uguali o diversi, ogni cosa rassomiglia ad un’altra o se ne distacca nettamente. Ancora una volta Antonio Prete si muove sui confini fra il saggio e la narrazione; al saggio appartiene l’argomentare, mentre il passo, la forma, lo stile, appartengono alla narrazione. Ancora una volta tesse con sapienza, con leggerezza, con accuratezza, con un gesto amoroso una parte della sua lunga conversazione con i testi. L’ultimo libro è una parte di questa conversazione: Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, edito da Bollati Boringhieri. Non è necessaria una lettura che proceda dal principio alla fine. Si può aprire una pagina a caso e ci si ritrova sprofondati nell’ermeneutica delle figure e delle parole che dicono, raccontano, i significati di dentro; si assiste alla scena di un corpo a corpo delicatissimo ma impietoso  anche con quelli che sono i sensi dell’interiore che si sottraggono non solo alla definizione, ma anche alla dicibilità.

Ma il percorso critico di Prete ha sempre avuto un movimento trasversale, obliquo, interdisciplinare; è stato sempre attratto dall’andare lungo gli argini. Il suo insegnamento universitario di letterature comparate è stato la perfetta coincidenza tra definizione giuridica e connotazione metodologica. Ogni sua interpretazione è sempre un viaggio che orienta lo sguardo ora sul paesaggio ora su un particolare del paesaggio; lo sguardo osserva, scruta, indaga, discerne, individua l’elemento che di quel paesaggio si costituisce come condizione unica, irripetibile, essenziale. Parte da lì, da quella irripetibilità,  e tesse riferimenti provenienti da sfere diverse del sapere, raduna testi e autori, li chiama a testimoni delle sue rappresentazioni del pensiero. Come in questo libro, che si confronta con una materia più profonda di ogni abisso, con i misteri dell’anima. Come in questo viaggio, nel quale chiama per compagni Agostino e Calvino, Montaigne e Joyce e Proust, e tanti altri,  e poi i compagni di sempre, quelli con i quali ha attraversato tutta la vita: Leopardi e Baudelaire. Si apre  una pagina a caso, dunque, e ci si ritrova coinvolti nelle riflessioni sulle relazioni fra poesia e cosmologia, per esempio, sul legame fra il sentire umano e la sua rappresentazione linguistica, sul rapporto profondo fra il sentire e il mondo, fra lo spazio dell’interiorità e gli spazi stellari. Si apre una pagina a caso e  si fa esperienza mediata della parola silenziosa nella sua significanza di meditazione, di indagine sul sé, di interrogazione intorno agli accadimenti della coscienza. Una parola interiore. La parola della scrittura è parola interiore, dice Prete: perché lo è stata prima di salire verso la luce e la fissità della lettera e perché continua ad esserlo quando il lettore l’ascolta nel silenzio, e la protegge, sentendola come propria. E’ proprio attraverso  la parola silenziosa della lettura che si stabilisce prima una condizione di prossimità e poi una relazione di intimità con il testo: con l’universo di sensi che il testo spalanca.

I libri di Antonio Prete credo – spero-  di averli letti tutti, e ho sempre pensato che il punto più profondo dell’analisi, l’armonia dell’espressione, li avesse raggiunti con il Trattato della lontananza. Più di questo non può fare, mi dicevo.  L’ho pensato fino a quando non sono arrivato alla pag 106 del Cielo nascosto, dove cominciano le cosmografie interiori. Ha potuto fare di più. In questo luogo del libro, Prete espone – indirettamente- il suo concetto di teoria, come spesso ha fatto in altri saggi, riferendosi alla scrittura critica, al metodo. Dice a un certo punto che la teoria è, nella sua origine, un vedere che si dispiega in sapere, un osservare nella luce che si svolge come conoscenza. E’ stata questa, infatti, la teoria di Antonio Prete: una visione tradotta in parola, un’osservazione che ha portato conoscenza resa in espressione, una curiositas verso le storie d’ogni genere, quelle della vita e quelle della letteratura,  che poi sono esattamente l’identica cosa. Ecco: Antonio Prete ha dimostrato questo: che le storie della vita e quelle della letteratura sono esattamente l’identica cosa.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 18 settembre 2016]

 

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