Filosofia come narrazione di sé in Giovanni Invitto

di Gianluca Virgilio

[In occasione della scomparsa di Giovanni Invitto (3 agosto 2023), ripropongo ai lettori di “Iuncturae” questo scritto che gli dedicai dieci anni fa. Valga oggi come ricordo dell’amico e dello studioso.]

Non avrei mai pensato a quell’ora tardo-pomeridiana di un agosto di tanti anni fa, a Leuca, quando, dirimpetto alla casa di via Enea, che i miei genitori prendevano in affitto per le vacanze, dentro il recinto di una verandina, vedevo, seduto comodamente su una sdraio, un giovane uomo in canottiera, che, approfittando del sole in ritirata dietro le colline della serra, a lungo leggeva grossi tomi, di quando in quando levando lo sguardo assorto al passaggio d’un villeggiante diretto al mare. Forse agli occhi del ragazzetto di dieci anni, qual ero io allora, il giovane uomo sarebbe passato inosservato, se non fosse che mio padre lo conosceva bene, per via che quell’uomo era sposato a una nostra concittadina, con la quale trascorreva le vacanze a Leuca, proprio di fronte a casa. Di qui lo scambio di saluti e le informazioni che mi pervenivano sul conto del giovane uomo, un docente universitario che leggeva gli esistenzialisti, Sartre, Merleau-Ponty, ma anche San Tommaso e Felice Balbo, ecc. E che cos’era poi questa fenomenologia di cui sentivo propagarsi il suono? Nomi, puri nomi, che allora non mi dicevano niente, se non che dovevano riguardare scrittori famosi, molto al di sopra d’ogni mia possibilità di lettura (io allora leggevo Zagor).

Non lo rividi più. Ma il tempo disegna lunghe parabole, che ci riportano indietro e riempiono la nostra storia di senso.

Ho appena finito di leggere due libri che Giovanni Invitto (il giovane uomo di quarant’anni fa) ha pubblicato nell’anno 2012 in rapida successione per la medesima casa editrice di Milano, Mimesis Edizioni: La misura di sé tra virtù e malafede, con sottotitolo Lessici e materiali, pp. 158; Il diario e l’amica, con sottotitolo L’esistenza come autonarrazione, pp. 207; rispettivamente numeri 204 e 212 della collana Filosofie.

Ho letto questi due volumetti (11 x 17) uno dopo l’altro, come un unico libro, nel quale si condensa il pensiero maturo di Giovanni Invitto, che il 22 marzo scorso ha compiuto settant’anni proprio mentre il ragazzino leucano, nello stesso giorno, ne compiva cinquanta (i numeri hanno la loro importanza!). Un unico libro, un unico pensiero, un’unica filosofia di vita, nella quale risulta fondamentale la virtù etica della misura di sé, secondo quanto recita il primo titolo. Non c’è misura di sé se non c’è cura di sé, autoconsapevolezza, comprensione del proprio limite, acquisita attraverso un costante ininterrotto dialettico rapporto con l’altro: “La misura di sé diventa solo misura di quello che ognuno di noi ha costruito “come sé”, come identità in questo rapporto dialettico, quasi sempre inconsapevole, con l’Altro e con gli altri” (La misura di sé, p. 57). La misura di sé, dunque, “presuppone la conoscenza di sé” (p. 61), oltre ogni malafede e menzogna, che, seguendo Sartre de L’Être e le Néant, Invitto definisce così: “La malafede è un mentire a se stessi, la menzogna è mentire agli altri” (p. 77). Facile smarrire se stessi, vivendo nella malafede o nella menzogna. Il difficile è dare un senso alla propria vita sulla base di una cosciente autonarrazione. Bisogna raccontarsi e tornare a raccontarsi, più e più volte nel corso della propria vita, non facendo sfoggio del proprio narcisismo, col che si rimarrebbe nella malafede e nella menzogna, ma col fine di ritrovare l’autenticità della propria vita. Un compito, ripeto, assai difficile, ma necessario, che solo la filosofia può adempiere. S’intenda: la filosofia non come pensiero sistematico, quello che alligna spesso nelle università e nelle scuole, ma la “filosofia come atteggiamento e come comprensione di sé. E questo percorso di comprensione può essere un percorso di narrazione” (p. 122).


Il presupposto da cui parte Invitto è che i filosofi non siano una setta di iniziati o un’associazione esoterica, ma siano le persone comuni, sempre che sappiano avere cura di sé: “… noi dovremmo pervenire a un punto in cui il parlare dei filosofi coincide con il parlare di coloro che non sono filosofi. Il che non vuol dire un livellamento delle domande dei filosofi, ma un innalzamento della responsabilità della coscienza comune” (p. 124). Da questo punto di vista la filosofia ha un compito civile da assolvere, poiché la misura di sé, che si può attingere con l’esercizio della filosofia ovvero della narrazione di sé, “libera tutti i singoli e la comunità nel suo complesso” (p. 146). Pertanto è giusta la definizione di pamphlet (p. 152) che Invitto dà del suo lavoro, essendo sottesa sempre alla sua riflessione filosofica la polemica contro la società della menzogna e della malafede.

Ma è la narrazione di sé il nucleo forte del pensiero di Invitto: “Tutto il nostro discorso è unificato nel ruolo della narrazione di sé” (p. 119). Ed infatti il secondo libro, che qui si segnala, Il diario e l’amica, è tutto volto alla descrizione delle possibili narrazioni di sé e costituisce pertanto la naturale continuazione de La misura di sé.

Il titolo allude alla celebre Anna Frank, che scrive: “Ma eccomi al motivo per cui mi è venuta l’idea di tenere un diario: non ho un’amica” (Il diario e l’amica, p. 7). La tredicenne che scrive il suo diario perché non ha un’amica, in realtà narra se stessa, lasciandoci un’immagine di sé che non potrà essere dimenticata. Così accade o dovrebbe accadere ad ognuno di noi, dovremmo narrarci sin dall’infanzia: “… ci si narra a se stessi sin dall’infanzia” (p. 27), scrive Invitto, nella consapevolezza che “la filosofia è narrazione di passaggi dell’esistenza interiore e tutto ciò è un racconto permanente” (p. 63).

Come si comprende, v’è in queste pagine un approfondimento dei temi già esposti nel saggio precedente, qui ripresi con una particolare attenzione alle varie forme della narrazione di sé: il diario, la confessione, il frammento, la narrazione estetica, il cinema, il dialogo, gli epistolari, le memorie, ecc. Invitto procede accompagnato da una coorte di autori antichi e moderni che testimoniano delle sue infinite letture e contribuiscono a convalidare le sue posizioni, mentre egli è sempre attento a chiarire ogni passaggio del discorso con un fraseggio alla portata dell’uomo comune: “Il compito è di evitare che i filosofi si chiudano in un lessico specialistico e che parlino solo tra loro” (p. 76). Esigenza sacrosanta, e che il lettore apprezzerà di sicuro, come apprezzerà il consiglio che implicitamente Invitto gli dà, laddove afferma che l’autonarrazione non deve attendere “conferme o fedeltà da un possibile eventuale lettore o ascoltatore”. Essa può essere accolta “dall’altro, nella sua complessità e puntualità, solo come percorso di consenso…” (pp. 84-85). Il che vuol dire che l’autonarrazione non deve essere mai “assertiva”, ovvero non si deve mai imporre all’altro (“narrazione imposta agli altri” (p. 156) come verità rivelata, dietro cui spesso si nascondono, come già sappiamo, menzogna e malafede, bensì deve scaturire da un percorso di riconoscimento di sé e dell’altro: “… lo scrivere e il comporre sono sempre finalizzati al rapporto tra me e l’altro” (p. 97).

In conclusione, se c’è un insegnamento che possiamo trarre da questi libri è che “la salvezza del soggetto è nel racconto di se stesso…” (p. 133), e questo fino a quando la memoria ci sorregga, e poi fino alla morte, perché solo “con la fine dell’esistenza individuale, finisce la narrazione del soggetto” (p. 193).  Ma fino ad allora, è un bene continuare a coltivare il nostro narrarci. La memoria, conclude Invitto, non è nastriforme, non è “una pellicola cinematografica che riproduce per sempre tutte le immagini impresse una volta. Per questo il raccontarsi si “rimpasta” e lievita sempre e, sulla base di eventi successivi, noi riordiniamo tutto” (p. 199).

Così è lievitato in me il ricordo di quel giovane in canottiera di quarant’anni fa, a Leuca, mentre all’ombra d’una veranda di via Enea andava leggendo grossi tomi. Ed io non avrei mai pensato, allora – mentre sollevavo lo sguardo dal mio fumetto preferito -, che mi sarebbe tornato alla mente in una giornata di fine marzo di quarant’anni dopo, spingendomi a riordinare quell’ora della mia vita.

(2013)

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