di Gianluca Virgilio
Alba
Ieri sera, di ritorno da Leuca, ero molto stanco per mettermi a scrivere, ma stamane mi sono svegliato presto con l’intenzione di raccontare la mia gita a Leuca in compagnia di Sofia. Ornella, durante la notte, a causa del gran caldo, aveva lasciato la finestra aperta per far entrare dal giardino un po’ di aria fresca, e così, all’alba, gli uccelli che dormono negli alberi e la luce del sole (sebbene la nostra stanza da letto volga a ponente) mi hanno svegliato qualche ora prima del solito. Sono rimasto disteso ancora per mezz’ora, ripassando nelle mente le immagini che avevo riportato con me, poi mi sono alzato pensando a quel detto famoso, il mattino ha l’oro in bocca, col desiderio di scrivere, per leggere poi a Ornella, Giulia e Sofia, al loro risveglio, il resoconto della nostra passeggiata a Leuca. Ho fatto colazione, ho dato da mangiare un po’ di granturco a Colombina, una colomba che da tempo si è stanziata qui da noi e già all’alba si mette a tubare e richiede del cibo, e alle due tartarughe, Ugo e Uga (così le chiamano le mie figlie), che rumoreggiavano muovendosi nella loro vasca, ed ora, mentre tutti dormono, sono qui che scrivo.
All’avventura
Ieri pomeriggio, dunque, verso le cinque, poco prima che uscissi di casa, Giulia mi ha chiesto dove stessi andando. Le ho risposto che andavo a fare un giro in moto, ma non sapevo dove, andavo così, “all’avventura”, senza una meta precisa – in realtà avevo in mente di andare a Leuca -. Le ho proposto di venire con me, ma lei mi ha risposto che se non le dicevo dove di preciso avevo intenzione di andare, non sarebbe venuta. Nel corso dell’estate, Giulia, che ha undici anni, ha preso la brutta abitudine, ogniqualvolta esco di casa, di farmi questa domanda: – Dove stai andando? -, che sarebbe del tutto legittima, se non la facesse contemporaneamente a me, ad Ornella, poi ancora a zia Milena, ed infine a nonna Giovanna, riservandosi il diritto di scegliere a chi aggregarsi unicamente in base all’appetibilità della metà che le si propone. Giulia va con chi le offre un piacere, o meglio, un’aspettativa di piacere maggiore; ragion per cui, per mostrarle il mio disappunto, io ho deciso di non dirle la meta cui ero diretto. Dal momento che nonna Giovanna aveva preso accordi con Ornella per andare a Lecce a fare un giro dei negozi – siamo in tempo di saldi -, sapevo già che Giulia avrebbe rifiutato il mio invito. Invece, Sofia, che ha otto anni, ha accettato di venire con me “all’avventura”, e così, dopo aver messo nella borsa una bottiglia d’acqua gelata, che nelle ore seguenti si sarebbe sciolta divenendo bevibile, un cambio di robe e un telo da bagno, siamo partiti per Leuca, senza dir nulla a Ornella, che altrimenti si sarebbe preoccupata sapendo che avevo scelto una meta così lontana da Galatina. Le avrei telefonato una volta giunti a destinazione.
Quando già eravamo in moto, ho detto a Sofia che pensavo di andare a Leuca, dove avrei voluto trascorrere con lei l’intero pomeriggio, fino a sera. Lei subito si è dichiarata entusiasta, perché a Leuca, essendo piuttosto distante da Galatina (circa sessanta chilometri), non ci si va ogni giorno, ma una volta ogni tanto, e questo aumenta il piacere della gita al mare. Poi, l’idea di rimanere fino a sera fuori di casa l’ha fatta andare in visibilio.
Strade e superstrade
Da Galatina ci si può recare a Leuca percorrendo due strade: la prima, più breve, immettendosi a Soleto o a Corigliano d’Otranto sulla Lecce-Maglie-Leuca; la seconda, di qualche chilometro più lunga rispetto alla prima, prendendo dopo Galatone la Lecce-Gallipoli-Leuca: due superstrade a scorrimento veloce, che ti portano a Leuca in meno di un’ora. Questa volta, però, ho scelto di fare una strada diversa, perché non avevo nessuna fretta di arrivare subito a Leuca, ma intendevo godermi il viaggio in moto, percorrendo vie secondarie, meno battute dalla massa dei vacanzieri. Ho imboccato, dunque, la strada per Sogliano Cavour, tirando dritto, senza prendere la circonvallazione, e passando per il centro del paese fino a Cutrofiano.
Fino a Cutrofiano non mio sento affatto in un territorio diverso da quello nel quale vivo. Cutrofiano, con tutte le campagne che gli fanno da contorno, per me è un prolungamento del territorio di Galatina, insieme a Sogliano, Soleto ed Aradeo – il che, se non mi dà certo la sensazione di vivere in una grande città, perché in realtà ogni paese conserva la sua identità e ne è geloso, almeno mi permette di effettuare i miei spostamenti da un campanile all’altro con un senso di familiarità che, in altri luoghi del Salento, cioè già pochi chilometri più in là rispetto ai paesi che ho nominato, non avverto.
Uscendo da Sogliano subito vedi il campanile di Cutrofiano, che funziona come punto di riferimento fisso per coloro che si dirigono in quella direzione, sia che provengano da Galatina, sia che provengano da Supersano, da Aradeo o da Maglie, cioè dai quattro punti cardinali. A Cutrofiano, che abbiamo attraversato da nord a sud, eludendo tutta la segnaletica che ci consigliava di fare un giro più largo, abbiamo preso la strada per Supersano e poi per Ruffano. La Galatina-Ruffano, prosecuzione verso sud della statale Lecce-Galatina, ha suppergiù un secolo e mezzo di vita. I Galatinesi della seconda metà dell’Ottocento, ai tempi della vignetazione, riuniti in consorzio con altri comuni della zona, vi profusero non pochi denari per aprirla, e avevano ragione di farlo, perché quella strada porta nel cuore del Capo di Leuca, i cui paesi, grazie ad essa, venivano ad essere collegati direttamente alla città di Galatina e al capoluogo di provincia. Ed invece i nostri progenitori hanno lavorato invano, perché questa strada appare pressoché deserta nelle diverse stagioni dell’anno. Di tanto in tanto incontri un’auto proveniente da Supersano o da Ruffano, ma si tratta di un traffico interpaesano, poiché il traffico veloce e di lunga distanza, quello proveniente dai paesi del Capo che quella strada avrebbe dovuto convogliare verso Galatina, è assorbito dalle due arterie maggiori, le superstrade Lecce-Maglie-Leuca e Lecce-Gallipoli-Leuca.
In cuor mio non la smetterò mai di notare la solitudine di questa strada, il suo aristocratico distacco da ogni funzione utilitaristica, un utile a cui già da molto tempo sembra aver rinunciato. Attraversi un oliveto ininterrotto fino a pochi chilometri dai paesi, dove lascia il posto alla vigna, che il paesano ama tenere sempre vicino a casa, e pensi che, se al posto della strada di asfalto ci fosse un tratturo di campagna, pochi se ne lamenterebbero, e il danno per l’economia del territorio sarebbe irrilevante. Questa strada sembra davvero sprecata per i rari camion che trasportano le olive o l’uva nel tempo della raccolta. Ma tant’è, la strada è stata aperta, e ora è un piacere percorrerla a quell’ora del pomeriggio. E’ un lungo rettilineo – da questo deduci che la strada è il frutto della modernità ottocentesca, come un rettifilo che abbia sventrato non una città, ma un oliveto; viceversa una strada piena di curve, rispettosa dei vincoli agrari, è una strada medievale -, che si percorre all’ombra di alti e frondosi olivi grazie ai quali i raggi del sole, fisso alla tua destra, sono resi inoffensivi, tra un continuo frinire di cicale invisibili a occhio nudo, che sembrano passarsi il testimone del loro canto e inseguire a ruota il viaggiatore, anche il più veloce. Nelle vicinanze dei paesi gli uomini hanno costruito le loro casette, dove d’estate trascorrono la villeggiatura, che è un modo non ozioso di star dietro ai lavori della campagna. Poi, dopo qualche chilometro, l’oliveto ritorna padrone del paesaggio. Non c’è mai nessuno in questi boschi di ulivi, se non nel tempo della raccolta e della rimonda, pochi giorni all’anno. Per il resto gli alberi fanno tutto da sé, senza richiedere l’aiuto dell’uomo. E’ vero, c’è qualcuno che innaffia l’oliveto, come si deduce dai tubi legati ai tronchi, ma potrebbe anche non farlo, come accadeva non molti anni fa, quando nessuno lo innaffiava, tanto l’olivo trova ugualmente la forza di sopravvivere e di produrre il suo frutto.
Questo lungo rettilineo semideserto incrocia solo un paio di strade, la Gallipoli-Maglie prima e, dopo qualche chilometro, all’altezza di Supersano, la Casarano-Nociglia, che innervano il territorio da ovest a est, superando la dorsale delle Serre increspanti da nord a sud il basso Salento fino a Leuca. Si incontra, infine, prima di arrivare a Supersano, una svolta per Scorrano, ma l’incrocio passa inosservato, poiché sembra l’imbocco di una strada interpoderale più che una via di comunicazione tra paesi diversi.
A Ruffano
A Ruffano abbiamo parcheggiato la moto in piazza, davanti ad un palazzo monumentale del settecento. Sofia lo ha guardato distrattamente, non so cosa abbia pensato, forse non ha pensato nulla, ma credo che abbia avuto – o forse io le ho attribuito – una sensazione sgradevole, come di un fanciullo al cospetto di una vecchia signora un po’ sfatta dal tempo alla quale non sappia cosa dire. Di queste costruzioni superbe, che un tempo dovevano attestare il potere di una casta assai ristretta di dominatori, discendenti dagli spagnoli o imparentati con essi, costruzioni presenti in ogni paese, talvolta neglette dagli amministratori locali, talaltra restaurate e trasformate in dimore di prestigio del Comune o di qualche danaroso professionista o industrialotto della zona; di questi palazzotti alla don Rodrigo mi colpisce l’ostentazione artistica di forme e volumi, che non ha nulla di gratuito e disinteressato, ed anzi rivela il fasto del potere sopra la massa dei paesani – quei contadini che raccolsero olive, le premettero, cavarono l’olio, lo vendettero altrove, e in cambio ricevettero da fuori le forme rinascimentali o barocche delle dimore signorili, simboli di un potere distante, eppure a loro molto familiare, se è vero che non esitarono ad esibire altrettali forme nei portali delle loro modeste case a corte che sorgono ancora tutt’intorno, qua e là, separate da abitazioni costruite in tempi più recenti; sicché il palazzo signorile appare come un generale in pensione, un veterano pieno di onorificenze, che l’amministratore di turno presenta all’ospite di passaggio come una vecchia gloria di famiglia, di cui ci si può sempre vantare e che conservi almeno una parte del suo antico esercito, mescolato e disperso in mezzo ad uno nuovo: sono le costruzioni minori spuntate come funghi negli ultimi cinquant’anni, le case dei figli dei contadini tornati dalla Svizzera o dalla Germania negli anni sessanta e settanta, costruite sulle macerie di quelle dei padri o affiancate ad esse, in cui ora abitano coi loro figli e nipoti.
Ho detto queste cose a Sofia, e lei mi ha risposto che la gente da qualche parte deve pur abitare e che lei avrebbe preferito abitare in quel palazzo, previa ristrutturazione, s’intende. Poi ha aggiunto: – Papà, non dovevamo andare a Leuca?
– Certo, mia cara, ripartiamo subito.
E così ci siamo rimessi in moto e abbiamo imboccato la strada per Specchia; poi, seguendo una strada pressoché deserta, siamo arrivati ad Alessano, dove abbiamo preso la superstrada Lecce-Maglie-Leuca.
Verso Leuca
Qualche chilometro dopo Maglie, questa superstrada a quattro corsie si riduce a due, una per ogni senso di marcia, e penetra nei paesi che si incontrano lungo il tragitto per Leuca: Lucugnano, Alessano, Montesardo, infine Gagliano, prima di scendere verso il santuario di Santa Maria di Leuca. Da anni gli abitanti del Capo invocano il completamento della superstrada, che farebbe risparmiare molto tempo agli automobilisti. Tuttavia a me questa strada non dispiace, un po’ perché mi richiama alla memoria i viaggi a Leuca della mia infanzia, un po’ perché, imponendomi una velocità ridotta, mi consente di osservare il paesaggio della campagna che, man mano ci si avvicina a Leuca, diventa sempre più ridente, almeno lungo la strada maestra. Qui, infatti, molte famiglie dei paesi vicini, Miggiano, Tiggiano, Ruggiano, Giuliano, Castrignano, eccetera, hanno costruito la propria seconda casa, che utilizzano non solo per curare la campagna, ma anche per godere della vicinanza del mare. Ogni casa dispone di un pozzo artesiano, che compensa l’aridità del clima e consente l’irrigazione di una terra che, senza le acque del sottosuolo, di cui il Salento abbonda, d’estate apparirebbe desertica e bruciata dal sole. Lungo la strada, nei giardini ben chiusi da muri o siepi di pino, si vedono numerosi alberi di bella vista, tra cui, forse in modo eccessivo, negli ultimi anni si è piantata la palma, la canariensis in particolare, ma anche le altre varietà – non è un caso che, guidando per le strade del Salento, spesso si incontrino vivai di palme, il cui commercio, anche di importazione, pare sia molto florido e renda molto bene -. Il perché di questa predilezione credo che consista non tanto nell’adattabilità di quest’albero al clima salentino, quanto nel valore sacro che l’uomo gli attribuisce. Avere una palma nel giardino della propria casa è come possedere un talismano vegetale, un portafortuna che ci pone al riparo dalle insidie del mondo, una protezione divina per noi, la nostra famiglia e la nostra casa, come attaccare alla testiera del letto, con un pezzetto di nastro adesivo, un ramoscello di palma dipinto d’oro o d’argento e consacrato dal sacerdote, di ritorno dalla messa la domenica delle palme.
Non saprei dire, mentre andavo pensando queste cose, quali fossero i pensieri di Sofia, seduta dietro di me. Il viaggio in moto è sempre il viaggio di un solitario, anche quando si è in due. Il rombo del motore, la chiusura del casco, la velocità, il vento, l’attenzione alla guida, impediscono la comunicazione tra i due motociclisti seduti sulla stessa sella. Per questo ho concordato con Giulia e Sofia, quando si va in moto, due segnali, pollice verso e pollice recto, con i quali possono indicarmi rispettivamente se hanno bisogno di fermarsi oppure se si può procedere senza problemi. Percorrendo la discesa verso Leuca, dopo Gagliano, quando il mare era già ben visibile all’orizzonte, Sofia avrà pensato che la fatica di arrivare fin lì – di cui anch’io avvertivo un segno preciso nel dolore ai glutei – stava per terminare e presto sarebbe stata ricompensata da un lungo bagno rinfrescante.
Cartolina leucana
Ma l’avrei presto delusa, almeno per pochi minuti, perché avevo intenzione di fermarmi sul piazzale antistante il santuario, da cui già godevo al pensiero di mostrare a Sofia “la cartolina leucana” disegnata all’ombra dei pini. Senza dirle nulla, dunque, all’incrocio che a destra porta a Leuca e a sinistra sulla litoranea adriatica, ho tirato dritto e ho fermato la moto proprio davanti al muretto che si affaccia su Leuca. Mentre ci sgranchivamo le gambe, ho mostrato a Sofia il panorama. Alle sei e trenta di sera, sebbene il sole di luglio fosse già basso sopra la collina, il mare scintillava ancora come fosse intessuto di innumerevoli lamine d’argento. Ma la memoria che conservo di quella medesima “cartolina” vista trentacinque anni fa con gli occhi di un bambino dell’età di Sofia non poteva che farmi notare la differenza rispetto alla realtà del tempo presente: il porto ha invaso la baia e se ne era appropriato quasi per metà della sua estensione, sottraendo le onde del mare al loro naturale riflusso; i bagnanti sono ricacciati più lontano dalla immensa diga costruita dagli uomini per ospitare le imbarcazioni da diporto, e gli stessi scogli rimangono sepolti sotto una larga colata di cemento sopra la quale è sorta un’area attrezzata con tutti i servizi portuali. Ho detto a Sofia com’era diverso il profilo di Leuca quando io avevo la sua età, come il porto fosse solo un piccolo riparo per le paranze e, d’estate, per qualche raro diportista, mentre ora vogliono addirittura costruire uno scalo per idrovolanti nel cuore di quella insenatura. Probabilmente, dicendole queste cose, avrò usato il tono del nostalgico, ma lei non ci ha fatto molto caso. Mi ha risposto che Leuca appariva bella così come lei la vedeva, che di mare ce n’era fin troppo per fare il bagno, che le sarebbe piaciuto vedere gli idrovolanti ammarare fino a riva e avrebbe avuto piacere anche a fare un bel volo sul mare. Mi ha preso per mano, distogliendomi dalla mia doppia visione – del passato e del presente, che riuscivo a conciliare solo pensando alle parole di Sofia, nelle quali, se il passato non esisteva, rimaneva invece saldo il piacere che nel presente poteva derivare dalla frequentazione di quel luogo -, e mi ha detto: – Dai, papà, andiamo a fare il bagno, sono tutta sudata!
A Leuca e ritorno
Così, abbiamo ripreso la moto e siamo discesi a Leuca. L’ho parcheggiata nei pressi del lungomare, dove un tempo sorgevano Le terrazzeed ora, dopo che sono state abbattute, c’è un cantiere aperto nel quale pare abbiano trovato qualche reperto archeologico. Il cantiere rimane lì da anni, chiuso da una recinzione, e non se ne fa più nulla. Abbiamo telefonato ad Ornella, per dirle dove eravamo e rassicurarla – ma a questo punto lei sarebbe stata in pena per il viaggio di ritorno –, abbiamo preso l’asciugamano dal bauletto della moto, qualche sorso d’acqua, e ci siamo diretti verso il pontile, da qualche tempo detto, come da cartello, Molo degli Inglesi.
– Che necessità c’era di dargli questo nome storico così nobilitante, Molo degli Inglesi, se poi dovevano distruggerlo per far luogo allo scalo per idrovolanti? Almeno potevano lasciare che si continuasse a chiamare pontile, come l’abbiamo sempre chiamato quando eravamo ragazzi!
Sofia mi ha guardato un po’ stranita e mi ha detto: – Andiamo a fare il bagno al pontile, che ci importa di come lo chiamano!
Il pontile rimane nelle stesse condizioni di qualche anno fa, quando un sollevamento popolare ha impedito che si completasse la sua distruzione. Le persone continuano a frequentarlo per fare il bagno, anzi ora il pontile, nel mezzo del quale, spaccato il cemento dal punteruolo della scavatrice, si è creata come una specie di piscina comunicante col mare, è divenuto meta di famiglie con bambini piccoli, che lì fanno il bagno di scoglio in tutta sicurezza, come in una bagnarola di quelle che tanto tempo fa i padroni delle ville facevano aprire a forza di piccone negli scogli davanti al mare; un esempio di come l’uomo si adatti presto – e riesca a trarne giovamento, facendo di necessità virtù – anche alle situazioni più disastrate. Chissà, forse qualche fanciullo, abituatosi a bagnarsi in quel luogo, divenuto adulto, se nel frattempo dovessero restaurare il vecchio pontile o abbatterlo del tutto per far posto agli idrovolanti, rimpiangerà la bagnarola del Molo degli Inglesi sventrato dalla ruspa! Abbiamo fatto anche noi il bagno al pontile, davanti a yacht, catamarani, motoscafi e barche d’ogni sorta. Ho immaginato la vista di Leuca dal mare, da una di quelle barche, i pensieri del diportista davanti allo spettacolo del lungomare leucano, su cui si affacciano le ville monumentali che l’aristocrazia del basso Salento fece costruire tra otto e novecento, di cui le bagnarole intagliate negli scogli e le cabine in pietra, un tempo propaggini architettoniche costruite per la comodità dei villeggianti, sono reperti trascurati di archeologia balneare: d’essere in una terra opulenta – in futuro, allora, meglio arrivarci a bordo di un idrovolante! -, in cui alcuni signori dominano su uomini e cose, dove gli agi e gli ozi della villeggiatura si coniugano con la saldezza del potere economico e politico, sotto la protezione di Santa Maria de finibus terrae.
Dopo il bagno, siamo andati a passeggiare sul lungomare, alle sette e mezzo di sera semideserto. I villeggianti a quell’ora tornano a casa per la cena e si preparano poi ad uscire non prima delle nove e mezzo per il passeggio serale, affollando il lungomare con uno struscio che dura fino a tarda notte.
Ho raccontato a Sofia delle molte estati trascorse a Leuca, quando ero ragazzo. Mi è venuta in mente una giornata d’agosto della metà degli anni settanta, quando si diffuse la voce che in alto mare erano state avvistate molte carcasse di vacche, di cui qualche trafficante si era disfatto al sopraggiungere della Guardia di Finanza, gettandole in acqua. Dicevano che fossero gonfie come otri, puzzolenti, mostruose, e volevano impedirci di fare il bagno per evitare possibili contagi. Cercavano di spaventarci con storie di squali che si erano avvicinati alla costa richiamati da quelle carcasse, ma nessuno riusciva a vedere né queste né quelli. E così ci buttammo lo stesso in acqua, anzi con gusto maggiore.
– Eravate dei pazzi! – ha detto Sofia; e forse non aveva tutti i torti.
Poi ci siamo fermati davanti a un grande cartello, col quale il Comune di Castrignano del Capo pubblicizza il progetto di prossima attuazione del nuovo lungomare di Leuca. Un abile disegnatore ha tracciato le linee del percorso che fra non molto seguirà la gente a passeggio su e giù per il lungomare, nelle lunghe sere d’estate, tra palme – non potevano mancare! – svettanti cinque metri previste come addobbo floreale della nuova opera. Ho detto a Sofia che il lungomare su cui noi stavamo passeggiando aveva non più di trent’anni: – E’ vecchissimo! – ha esclamato, secondo la stessa concezione del tempo per la quale il telefonino che io possiedo da appena cinque anni – e funziona benissimo! – è un reperto archeologico degno di stare nella teca di un museo di telefonia mobile.
– Papà, andiamo a mangiare?
Ci siamo seduti ad una tavolino delle scalette, dove una ragazza ci ha servito la pizza, coca-cola per Sofia e birra per me. Nel frattempo si è fatto buio, il faro ha ripreso a girare i suoi fasci di luce come avviso ai naviganti, mentre il lungomare cominciava ad affollarsi. Mamma Ornella di sicuro a quell’ora stava in pensiero per noi. Così siamo ritornati sui nostri passi fino alle Terrazze e, rimessici in moto, stanchissimi, siamo rientrati a Galatina per la via più breve.
Ora non vedo l’ora che Ornella, Giulia e Sofia si sveglino – sono già le nove -, per leggere loro il resoconto della nostra gita a Leuca.
[2006]