di Livio Romano
L’amicizia, si sa, è un filo robusto. A volte è ben teso e crea una comunione fra due persone che ha i tratti del miracoloso, all’interno dell’infinita gamma dei rapporti umani. Certe altre è lasco, infiacchito dalle vicende della vita, sfibrato eppure ancora robusto: basta un incontro perché fra quelle due persone si riaccenda la vecchia concordia, come se il tempo in cui il filo è sembrato inflaccidito non sia passato mai.
È curioso riflettere su queste tautologie esattamente in un periodo della mia vita in cui, come cantava Venditti, “ci vorrebbe un amico”. Sto parlando di un amico vero, strettissimo, un compare di avventure, un sodale di disgrazie e fortune. E, da maschio, sto parlando di un amico propriamente maschio esso stesso. Ché ho tante amiche femmine, e direi che tendo a farmene di assai complici e intime, ma io credo poco all’amicizia con le donne, tranne che fra i due non corra una sincera e solida antipatia fisica. E a una donna, salvo il caso di una mia antica amica, non racconterei taluni particolari di una qual mia ventura, o perlomeno li racconterei in maniera piuttosto finzionale, eufemistica, perifrastica. Insomma è una fase, questa, di fili allentati, forse definitivamente tagliati. E con gli amici non è come con le donne. Provi, fai esperienza, prima o poi trovi quella giusta di cui ti innamori. No, con gli amici è intesa a prima vista. Talvolta inaspettata, insospettabile, risultante dall’incontro di due personalità che apparentemente più distanti non puoi immaginare – per formazione culturale, estrazione sociale, abitudini, interessi.
Se escludo gli amici dell’infanzia e dell’adolescenza (con alcuni dei quali continuo a intrattenere gioviali rapporti di forte simpatia reciproca), ho avuto quattro amici nella mia vita, e mi suona molto triste, ripeto, esser costretto a usare un tempo, il passato prossimo, che stride con l’idea stessa di amicizia dal momento che, com’è noto, un amico vero è per sempre.
Con – userò nomi di fantasia – Giacomo non poteva continuare. Abbiamo cominciato a frequentarci e a stare insieme tutto il giorno fra i 25 e i 40 anni, con fasi di allentamento del famigerato filo. Parlavamo di politica, perlopiù. Lui marxista puro, io socialista liberale. E di donne, di cultura, di film, di libri, di filosofia. Non possiamo esser più diversi da molti punti di vista. Lui, timidissimo con le ragazze, dotato di quest’approccio ottocentesco che mai gli ha fatto combinare granché. E rigido e insicuro nei confronti del mondo, aspetto che abbiamo in comune, ma che in Giacomo assume il carattere della patologia mentale – non scherzo. Ha rifiutato carriere importanti perché non si sentiva adeguato, lui coltissimo e davvero capace. Ha finito per fare l’operaio e per odiare ogni santo giorno quella sveglia alle 4.00. Se n’è andato a vivere in una stanza ammobiliata del Nord Italia. Ci vediamo poco.
Le mie figlie lo chiamano zio perché le ha coccolate che erano in fasce, ha cantato loro le nenie e ha cambiato i loro pannetti. Io non riesco più a raccontargli dei miei modesti successi nella vita, dei miei cambiamenti. Giacomo non è cambiato insieme a me. È rimasto il ragazzo dalle certezze granitiche che era. Il suo rancore nei confronti di un mondo che considera sempre più brutto e sordido lo ha fatto man mano chiudere sempre più in se stesso, laddove io ho sviluppato un lato cinico di me che a vent’anni non avrei mai sospettato mi albergasse dentro. Continuo a pensare che, se ne avesse bisogno, io correrei ad aiutarlo. Ma il dato di fatto è che Giacomo non sente il bisogno di nessuno. Che quando è nei guai non accetta appoggi e consigli.
È finita così, allo stesso modo in cui è finita con Alessandro. Saremmo stati una grande coppia, una macchina da guerra al pari di Stanlio e Olio o Freccero e Lucentini o i fratelli Grimm. Ma Alessandro rappresentava la parte folle di me alla quale io non son mai riuscito a lasciarmi andare, pur nutrendo nei suoi confronti – della stravaganza estrema, dico – un’attrazione ammaliatrice. Un giorno la geniale bizzarria di Alessandro ha fatto sì che quest’amico mio mancasse di rispetto a una serie di persone a me care e lì fu l’inizio della fine di un’amicizia sulla quale ci siamo entrambi accaniti terapeuticamente senza capire che stavamo praticando un’eutanasia.
Con Rino ci conosciamo da sempre. Siamo molto diversi e abbiamo estrazioni socioculturali direi antitetiche. Anche qui, lui marxista e io moderato: litigi a non finire fino a notte fonda. Ma ci accomunava una caratteristica che non ho mai riscontrato in nessuno: una prodigalità, un altruismo, un amore sconsiderato per il prossimo ai limiti del masochismo, della dissipazione. Continuo a usare un tempo passato e mi viene da piangere, ma così è, alla fine. Abitiamo in città molto lontane una dall’altra. Sì: quando stiamo insieme non c’è bisogno di discorsi lunghi e basta ancora un’occhiata, uno grugno per intenderci. Ma l’amicizia si nutre di quotidianità, di bottiglie di vino, di discorsi. E con Rino beviamo alla vita e parliamo sempre più raramente e arriverà il giorno in cui non lo faremo più: la strada è segnata.
Infine la “rottura” che più mi ha fatto male. Con Dario per sei o sette anni abbiamo condiviso tutto, dai pasti ai cinema alle passeggiate ai libri. Facevamo insieme le risate più gustose che io ricordi e abbiamo viaggiato e siamo andati per locali e per feste. Ci siamo tenuti in contatto, poi, quando lui è andato a vivere all’estero. Lunghissime lettere piene di complicità e ragionamenti complicati e bellissimi. Dieci anni fa è tornato a trovarmi. Abbiamo ricreato per una settimana la magia che era stata tanto tempo prima. Era diventato ricco e posato: quello che aveva sempre voluto – io, povero e scapestrato, destino e attitudine pure questi. Mi ha lasciato dicendomi: “Dimagrisci qualche chilo e non fumare”. Poi, non l’ho mai più sentito. Ho provato a cercarlo, ma niente. Poche parole in email stitiche, nessun cenno alla sua vita, il sentore che, oltre che benestante, sia diventato anche scimunito.
[in “Almanacco 2016” di Giovanni Invitto, Panico, Galatina, dicembre 2015, pp. 38-39]