La malinconia degli artisti

di Augusto Benemeglio

1. Torquato Tasso

Nel 1621 Richard Burton scrisse una monumentale Anatomia della melancolia, che è stata riscoperta recentemente dopo secoli di oscurità. In estrema sintesi, l’autore inglese sostiene che gli scrittori e, più in generale, gli artisti ne sono un po’ le vittime designate. Il concetto di melancolia è legato alla storia della medicina (da Ippocrate a Galeno) e indica depressione, tristezza, a volte ipocondria, ma sono le Muse stesse a soffrire di melancolia, per cui gli artisti, i poeti, gli scrittori, i pittori, gli scultori, i musicisti sono costantemente inseguiti, assediati, accerchiati, dalla malinconia e divengono prigionieri del proprio talento e della propria disperazione come Tasso nell’ospedale di Sant’Anna, ritratto nel quadro di Delacroix e celebrato da Baudelaire ne I fiori del male:

Il poeta nella cella, sciatto, malaticcio,
sotto il piede convulso pestando un manoscritto,
misura con uno sguardo che il terrore infiamma
la scala di vertigine dove sprofonda la sua anima.
Le risate snervanti di cui s’empie la prigione
allo strano e all’assurdo chiamano la sua ragione;
il Dubbio lo circonda e la Paura multiforme,
ridicola, schifosa, li circola d’attorno.
Questo genio rinchiuso in un buco malsano,
quelle smorfie, quelle grida, quei fantasmi il cui
sciame gli turbina dietro gli orecchi ammutinato,
questo sognatore che l’orrore del luogo ha svegliato,
ecco il tuo emblema, Anima dai sogni oscuri,
che il Reale soffoca entro i suoi quattro muri!


2. Da Petrarca a Montale

E prima di lui Francesco Petrarca con il suo Canzoniere, tutto velato di una grandissima malinconia, frutto di una visione mesta e disillusa della realtà (“quanto piace al mondo è breve sogno”), quella malinconia che troviamo anche in Vittorio Alfieri nel suo autoritratto, “per lo più mesto, e talor lieto assai,/or stimandomi Achille ed or Tersite:/uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.” E nei sonetti di echi petrarcheschi, “Solo, fra i mesti miei pensieri […] mi empiva il cuor d’alta malinconia“; “Misera vita strascino ed errante.” Per non parlare di Leopardi, il poeta di Recanati che incarna la malinconia, che scorge essere alla radice del dramma esistenziale dell’uomo. E Giovanni Pascoli, segnato dalla vertigine di fronte al buio della morte e alla tragedia dell’esistenza, che hanno straziato la sua infanzia con l’uccisione del padre. E tutto il senso angosciante del vivere è appunto fatto di malinconia. Potremmo aggiungervi l’Ungaretti dell’uomo di pena e della morte si sconta vivendo che fa il paio con il Montale degli Ossi di Seppia (“com’è tutta la vita e il suo travaglio/in questo seguitare una muraglia/che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Ma potremmo continuare con Saba, Pavese, Pirandello, Sartre, Camus, e tantissimi altri, non solo poeti; pensiamo a Rossini, Chopin, Schumann, Mahler, Cezanne, Van Gogh, Modigliani, Utrillo, Monet, Munch, Viani etc).

3. Da Van Gogh a Hopper

Il Pantheon degli scrittori, dei musicisti, degli artisti è come una prigione di uomini e donne assaliti da quella che Byron definì “la piaga delle mente nel suo umore più selvaggio”, lo “spleen” (“Quando, come un coperchio, il cielo pesa greve / Sull’anima gemente in preda a lunghi affanni, /E in un unico cerchio stringendo l’orizzonte / Riversa un giorno nero più triste delle notti…), reso celebre da Baudelaire, non è un’affettazione dandy , ma un male devastante, come nel caso di Gioachino Rossini, “quel povero uomo di genio”, che fu costretto a ritirarsi a soli 37 anni, devastato dalla depressione, obeso, impotente, con la seconda moglie trasformata in infermiera, o di Vincent Van Gogh che scrive lettere al fratello Theo in cui il tema è il senso di deserto e solitudine del pittore in preda alle sue frequenti crisi di malinconia ( “Fu allora che sentii un senso insopprimibile di melancolia dentro di me, tanto intenso da non poter neppure descriverlo. So che pensai, come mi capita spesso di fare, alle parole di padre Millet: – Mi è parso che il suicidio fosse l’atto degli uomini disonesti. Il senso di vuoto, la tristezza indicibile dentro di me mi fecero pensare che sì, potevo capire le persone che decidono di affogarsi, di farla finita”). Ed è in quasi tutti i suoi quadri quel senso disperato di vuoto, tristezza e morte come nel “Campo di grano con volo di corvi”; quella malinconia della luce contorta e scura che troviamo anche in alcuni quadri di Turner e, soprattutto, in Goya, una luce che annuncia l’avvento della modernità e che «illumina il disordine e non l’ordine dell’esistenza». C’è la malinconia silenziosa muta e arabesca dei ritratti di Modigliani, con tutta l’ansietà dei rossi, radice ed estasi dell’anima, e quella geometrica, desertica, eremitica di Edward Hopper, pur con tutti i distributori di benzina, caffè, drugstore, negozi con vetrine e camere d’albergo piene di solitudine.

C’è anche la pittura malinconica «tutto raso e fulgore oscuro » di Stevens e Vuillard, e degli oggetti caduti a terra, – scrive Elisabetta Rasy – che , in tanti quadri, come nella realtà quotidiana «scandiscono dolcemente la vita che passa», la sua precarietà. E’ la malinconia della materia disertata dall’uomo.

4. Flaubert

La vita, diceva Gustave Flaubert, per me fu sempre “malinconia”, un ‘invenzione abominevole, un disastro”. Si sentiva sfinito, svuotato, sconfitto, vecchio: “sono incrinato dalla malinconia”. Non poteva uscire dallo studio, passeggiare sul terrazzo, o nei boschi, tra le foglie che ingiallivano, perché la malinconia lo assaliva di colpo con una violenza così dolorosa che doveva tornare al tavolo di lavoro con gli occhi pieni di lacrime, e scrivere, scrivere, divorato dai ricordi. Ricordava d’essere stato sempre assalito dalla malinconia fin dall’infanzia. Scriveva, negli ultimi anni della sua vita, che gli imbecilli sono gli unici esenti dalla malinconia, e che la stupidità umana la si trovava ovunque, nella vita politica, letteraria, nella religione nella filosofia, nelle parole ascoltate per strada, nel profilo borghese. “ Gli imbecilli – ahimè – coprono tutto il mondo”. La malinconia era diventata una vera malattia, una grandiosa ossessione, una folle mania di persecuzione, che cresceva, si dilatava, si allargava, si ampliava, e finiva per nascondergli l’universo. E tutto ciò finì in un libro che uscì postumo e incompleto: “Bouvard e Pècuchet” , un libro dall’umorismo nero, sigillato da un nichilismo ironico e definitivo del romanzo.” L’esistenza è caos, e qualsiasi ordine, anche quello della scrittura, non può che essere vano e ridicolo”, parola di Gustave Flaubert.

5. Da Proust a Virginia Woolf

Ma ci sono diversi tipi di malinconia, meno feroci. Ad esempio quella del paesaggio pascoliano ( la piuma che esita o che palpita prima di cadere a terra), o quella ironica di Cardarelli ( io annego nel tempo), quella profonda e dolorosa dello zio Vania di Cechov, la malinconia torpida e limacciosa di Edda Ciano, la malinconia di non aver niente da fare e da dire, la malinconia del deserto ungarettiano che ti frana addosso come un tramonto improvviso. La malinconia delicata di Proust che sostiene che tutte le cose più belle ci sono arrivate dai nevrotici… “loro e soltanto loro hanno creato religioni e le grandi opere d’arte… noi possiamo apprezzare la bella musica, i bei quadri, migliaia di splendide cose senza però sapere quanto sono costate in termini d’insonnia, lacrime, risate spasmodiche, eczemi, asma, epilessia e un terrore della morte ben peggiore di ogni altra cosa”.

E poi c’è la malinconia tutta freudiana di Virginia Woolf che si chiede nei suoi diari se la tristezza non faccia addirittura parte integrante dello «sguardo moderno» sulla realtà. Woolf che sapeva bene quanto la depressione fosse sempre in agguato nella sua vita, aveva scritto in Orlando che «la linea di separazione tra la felicità e la malinconia non è più spessa della lama di un coltello».

6. Samuel Beckett

Proprio il Novecento, grazie alla psicoanalisi e al progresso scientifico – soprattutto della chimica – non ha soltanto cambiato il nome alla melancolia ribattezzandola depressione ma ha anche cercato di trovare una spiegazione al suo frequente legame con la creatività. Lo psichiatra Arnold Ludwig studiò le biografie e le lettere di un campione di mille artisti e concluse che il 77 per cento dei poeti, il 54 per cento dei romanzieri, il 50 per cento dei pittori/scultori e il 46 per cento dei compositori ha sofferto nel corso della sua vita di almeno un significativo episodio depressivo. Un altro studio, dello psichiatra della Sorbona, Philippe Brenot, colloca al 70 per cento la quota di artisti che soffrono nel corso della vita di una qualche forma di depressione… E il massimo esempio lo troviamo in Samuel Beckett, che ha influenzato tutto il teatro moderno, specie con “Aspettando Godot”, dove ci dice che forse tutta l’esistenza umana non è altro che una grande beffa, giocata da una divinità, che sta “ fuori del tempo e dello spazio il quale dall’alto della sua divina afasia ci vuol tanto bene salvo le debite eccezioni non si sa perché ma prima o poi verrà fuori”. Scrive Alvarez che lo scrittore irlandese ha iniziato depresso ed è stato fedele alla sua depressione. Gli ci è voluta una tenacia e un coraggio insoliti, e anche un gran talento, per seguire questa logica del rifiuto sino alla conclusione desolata: “Fallor, ergo sum” Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova
ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”.

Essere artisti, in buona sostanza, dice lo stesso Beckett, significa “depressione” ma anche “fallimento”, fallire come nessun altro osa fallire.

Roma, 21 giugno 2015

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