Scritture morali e cadenze mercantili. Un’escursione  introduttiva

di Antonio Prete

Lungo l’edificazione di un’unità nazionale, alcune scritture morali e civili hanno via via contribuito a una conoscenza viva e non oleografica del Paese, e hanno mostrato allo stesso tempo la necessità di un’altra Italia, e di altri italiani. Un annuncio di questa necessaria altra morale, non adagiata sullo “spirito del tempo”, è in Leopardi. Nella canzone All’Italia, scritta nell’autunno del 1818, la memoria dell’antico  – bellezza e tragicità congiunti – fa da soglia critica per lo sguardo sulle rovine e sull’asservimento in cui è imprigionata l’immagine dell’Italia delineata dalla tradizione poetica a partire da Dante: il mito della grecità è l’orizzonte,  ancora romantico, entro il quale leggere lo stato di miseria politica e la conseguente necessità di rinascita. Il Discorso sopra lo stato presente del costume degl’Italiani, del 1824, disegna invece  un’antropologia del demos e  dei rapporti, e  descrive caratteri peculiari di alcune nazioni europee paragonati ai caratteri degli italiani. La mancanza, in Italia,  di “società”, di “opinione pubblica”, mette allo scoperto il cinismo, il  “pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e di azioni”.

Cinismo, e indifferenza: la quale è “perfetta, radicatissima, costantissima”. Da qui, l’assenza di  quell’ ambizione di ciascuno al riconoscimento da parte dell’altro che altrove diventa fondativa di una qualche pur pallida morale:  una morale di superficie, certo, tuttavia produttiva di azione, e di immaginazione,  e sostitutiva delle perdute “passioni nobili e forti”, passioni davvero cadute dopo il dispiegarsi del “vero”, dopo la “strage delle illusioni”, operata dai lumi. Ma nelle pagine estreme, napoletane, dei 111 Pensieri, come anche nei Paralipomeni e negli ultimi Canti lo  sguardo “civile” ha come campo d’osservazione la trama di una società già tutta consegnata al dominio dell’apparire, al sottile gioco di relazioni di potere, al prevalere di un’assuefazione nei confronti di modelli e comportamenti che soffocano l’interiorità del singolo. Mentre la cura del poeta è rivolta proprio verso questa interiorità, verso il teatro di una singolarità dolente, la quale è in costante confronto con la finitudine che la costituisce, e con l’ oltre – il desiderio d’ infinito- che è sostanza stessa del pensare, e del desiderare.  Di fronte a una società contenta delle sue maschere, del suo spettacolo, che ha reso centrale il “danaro”,  e ritiene  illuminanti la “sapienza economica” del secolo e le “gazzette”,  il poeta  lascia intravedere il disegno di una  morale disutile, inappropriata all’epoca, fragile, propria solo di quelli che potremmo chiamare “quasi creature d’altra specie”. Del resto da sempre Leopardi dinanzi alla condizione umana ha cercato punti di  osservazione decentrati,  luoghi  di lontananza estrema da cui muovere lo sguardo: di volta in volta l’antico, il fanciullo, l’animale, l’elemento lunare o stellare. E’ l’inquieta costruzione di un altro discorso, di un’altra morale ­–una “morale poetica” avrebbe detto Vico declinando la sua Sapienza poetica – che trascorre in tutta la scrittura leopardiana e in particolare nelle Operette appunto morali e nello Zibaldone.

Anche se al Leopardi risorgimentale della canzone All’Italia guarderanno con giovanile emozione sia la generazione di De Sanctis sia quella di Carducci, è il Leopardi di quell’ altra, poetica e fragile morale, che oggi continua a  interrogarci. Una morale la cui premessa è la critica della civiltà, di una civiltà che si mostra come progressiva “spiritualizzazione”, come astrazione dal corpo vivente e senziente del singolo.

E tuttavia, il solco, aperto da Leopardi, di una tensione critica e corrosiva, in grado di non adagiarsi su immagini artificiali del Paese, in grado di unire forma e conoscenza, attraversa la letteratura postunitaria, erede anche  del cristianesimo “civile” manzoniano.

Se Verga inaugura con i Malavoglia e con alcune novelle una rappresentazione del Sud che rompe ogni tentativo di normale assimilazione nel processo unitario, De Sanctis, con una forte tensione etico-politica,  ricostruisce un’idea di letteratura nazionale e di letteratura tout-court nella quale la “lavorazione della materia” trova nella forma il suo compimento, e la “situazione”, raccolta nella lingua, nel suo ritmo, permette un “realismo” non inerte, ma aperto, vitale, interrogativo. E’ dal Sud che giunge, con l’insegnamento desanctisiano, un’idea mossa, ed europea, della nuova letteratura necessaria all’Italia unita. Da quello stesso Sud che con Croce, e la sua lunga egemonia, tenterà modelli di organizzazione della cultura e dei saperi in grado di resistere alla forzata acculturazione  fascista, anche se col limite di un’incomprensione della vera modernità letteraria europea e delle sue risonanze italiane.  Accanto alle rielaborazioni mitografiche del Risorgimento è certamente in atto, sul finire dell’Ottocento, un’ europeizzazione della cultura italiana: si tratta di un processo che, sul piano della critica, sconta eccessivi indugi intorno a fascinazioni positiviste, da filologia storica e documentaria, e sul piano della scrittura narrativa e poetica, mostra frettolose adeguazioni a poetiche naturaliste, o simboliste (si pensi, per questo, soltanto a com’è riduttiva, parziale ed esteriore la ricezione delle Fleurs du mal presso gli scapigliati e i carducciani e presso lo stesso D’Annunzio).

Nel Novecento, il frequente proclamato “ritorno a De Sanctis”,  e  l’opposizione, ad una linea De Sanctis-Croce,  di una linea  De Sanctis-Gramsci, attestata su un’idea di storicismo aperto, dialogico, antropologicamente attento alle culture popolari, testimonieranno di una necessità: quella di non separare la funzione intellettuale dalla tensione politica, la responsabilità verso la società dalla responsabilità verso le forme.

Deflagrato il bellicismo e lo sperimentalismo delle avanguardie,  attenuatasi l’influenza delle morbide cadenze dannunziane, saranno le forme brevi –frammento narrativo,  racconto fantastico e morale- e sarà soprattutto la poesia  ad attraversare la notte del fascismo con una fedeltà all’invenzione, all’energia della lingua, insomma con una preservazione del nesso conoscenza-immaginazione. Tra le due guerre, e oltre, sarà proprio la poesia a portare nella parola le vibrazioni dell’accadere, il nascosto della storia, e della condizione umana. Con vigore di concentrazione sulla parola e sull’interiorità, insieme, e con un lavoro estremo sul linguaggio e le sue forme, la poesia di Ungaretti e di Montale terrà aperta la via di un’interrogazione del tempo, e della storia, non declinata sull’onda apparente dell’avvenimento e della cronaca.

Ma è nel cuore del tragico spalancatosi con la seconda guerra mondiale che la letteratura ritrova la necessità di “nuovi doveri”, avvia una nuova lettura dell’Italia e del carattere degli italiani, e questo in un orizzonte privo ormai di tensioni nazionalistiche, in sintonia col respiro di altre culture, capace di narrare le trasformazioni in atto, gli effetti dell’industrializzazione, delle migrazioni al Nord, dei passaggi di costume, ma capace anche di denunciare i nessi dei vecchi e nuovi poteri, le loro convivenze con mafie e occulte strategie. E, allo stesso tempo, in grado di perseguire forme inventive nella scrittura.  Già prima, nel 1937, Vittorini, con Conversazione in Sicilia, proprio raccontando un Sud di figure dolenti, chiuse nel silenzio dell’estraneità alla retorica fascista, e in attesa di una viva rigenerazione, in attesa di un nuova condizione  davvero umana, aveva mostrato come forma del dire e ethos politico potevano essere congiunti. E dal Sud, che  ha conosciuto l’unità nazionale soprattutto attraverso le vite  innumerevoli di giovani consegnate all’orrore di guerre coloniali o mondiali, dal Sud delle infinite crudeli partenze per un lavoro lontano, e per terre ignote, muoverà una letteratura che darà del Paese un’immagine prismatica e insieme non convenzionale, e darà del carattere degli italiani non una catalogazione di maniera, ma un affresco privo di ogni compiacenza. Non “letteratura meridionalistica”, ma incontro tra descrizione e invenzione, tra scrittura morale e rappresentazione di una terra, delle sue contraddizioni, e passioni: da De Roberto a Pirandello, da Alvaro a Brancati,  da Scotellaro a Sciascia, soprattutto, e a Rea, fino a Consolo e La Capria,  per dire solo di alcuni, il Sud non è solo il non detto o non saputo dell’Italia ma è anche un orizzonte metafisico, un paesaggio di ferite, di privazioni, sostanza di una letteratura morale. Anche coloro che, nati altrove, per ragioni diverse nel Sud dimoreranno per qualche tempo, e in epoche diverse –da Carlo Levi ad Anna Maria Ortese – saranno toccati, nel respiro stesso della loro scrittura, dal dolore di quelle terre.

Ma anche nell’altra Italia, nel secondo dopoguerra, l’urgenza di una scrittura in cui l’elemento poietico, inventivo, di stile, fosse non separato dalla passione civile, ma sua anima, e la forma non fosse altro dalla tensione morale, prenderà campo  con  alcune decisive esperienze:  come con Pasolini, con la sua polimorfa e vitalissima tensione conoscitiva, mai disgiunta da un esercizio dello stile, e con le sue incursioni e invenzioni e passioni (fino al cinema di poesia),  e con Volponi, col suo narrare sempre teso ad affidare a forme nuove del dire e linguisticamente rigogliose lo sguardo sulle trasformazioni del Paese, e sulle figure esemplari di questi passaggi d’epoca. Per altro verso, proprio  per la persistente presenza novecentesca delle leopardiane Operette morali ,   il racconto morale, anzi direi poetico-morale, tra Landolfi e Manganelli e Calvino, ha una sua rinnovata vitalità. Né va trascurato, sull’aprirsi degli anni Sessanta, proprio sul “Menabò”, ancora tra Vittorini, Calvino, Ottieri, Sereni ed altri, il dibattito intorno al rapporto tra letteratura e industria, che poneva la questione del come dire la nuova condizione di fabbrica, l’immigrazione dal Sud nell’industria del Nord, del come raccontare le nuove periferie metropolitane, e il sopravvenuto spaesamento dinanzi alle mutazioni di costume, e di consumi. Qui è il cinema che ha, nelle sue grandi esperienze, un rapporto stretto, dialogico, con la scrittura letteraria. E il Gruppo 63 servirà almeno da diaframma contro “realismi” di maniera e scritture ingessate nella convenzione.

Ma è soprattutto l’ esperienza della poesia che, di stagione in stagione, da Caproni a Sereni, da Luzi a Zanzotto, da Bertolucci a Sanguineti, da Fortini ad Amelia Rosselli, per tutto l’ultimo Novecento, ha saputo preservare questa unità di conoscenza e forma, di passione civile e invenzione, di tensione morale e stile.

Eppure, nel frattempo, sul piano della narrazione e più in generale delle varie  forme di scrittura, accade, a partire dagli anni Ottanta, come una caduta della tensione poetico-politica, di quella  tensione che unisce indignazione e forma, critica e invenzione.

Ma con l’affermarsi di una cultura dell’immagine mediatica, e di uno stile mercantile, e con l’assedio di una sovraproduzione narrativa, un parallelo processo si afferma:  per un verso, le forme letterarie ripiegano prevalentemente su una passiva adeguazione ai generi, in un dialogo con l’editoria di consumo, con un “romanzesco” assimilabile a quello veicolato dalla comunicazione televisiva, sempre più invadente, abbandonando così la singolarità ed energia dell’invenzione linguistica; per un altro verso, la scrittura stessa si svuota del suo ethos politico e della sua funzione formativa, e critica, di un’epoca. In questo processo è forse la poesia, cioè la scrittura che fa della lingua la sua stessa sostanza e la sua vita, a preservare –per un altro tempo?- quel nesso tra conoscenza e forma, tra sapere e invenzione, tra senso del tragico e disegno di un’alterità che è sempre appartenuto alla grande letteratura.

La poesia fa della lingua, davvero, il suo corpo, e forse per questo riesce più facilmente a sottrarsi alle riduzioni mercantili, alle operazioni di marketing, al facile consumo. Della lingua, dunque, bisognerebbe dire. Per concludere questa veloce escursione. La lingua è il paese –di suoni, di memorie- col quale si edifica un altro fisico e geografico Paese, con i suoi confini mobili, in dialogo con altre culture. Pluralità di accenti, di inflessioni, di modi espressivi, di intonazioni, di etimi e forme del dire –dalla Sicilia al Friuli- che la poesia e la prosa, l’invenzione narrativa e la descrizione scientifica accolgono, ricompongono, sospingono verso una riconoscibilità : unità che mostra, in trasparenza, le venature, cioè le differenze, che la costituiscono e che l’hanno formata. A partire dal dantesco De Vulgari eloquentia, della lingua si mostra la tensione che la abita, insieme plurale e unitaria. Radicata in una disseminata geografia, la lingua è allo stesso tempo situabile in un luogo e fuggitiva: davvero dantesca pantera profumata che permea del suo odore versi e narrazioni.  Nella lingua che diciamo italiana permangono rizomaticamente le molteplici radici, comprese quelle greco-latine e arabe, mediterranee, e tutti gli apporti e imprestiti giunti dai popoli, anche nordici, che hanno abitato e attraversato e governato la penisola e le isole. Risuonare di voci e di forme  che soprattutto la scrittura ha convogliato, tra accese posizioni teoriche e vitali concrezioni  d’opere, verso uno spazio unitario, riconoscibile,  e   condotto verso una pubblica definizione. Lingua che il lavoro dei poeti e degli scrittori preserva, dilata, arricchisce, rinnova (anche accogliendo nella misura del verso le voci che salgono dalla polifonia tumultuante e fortemente inventiva dei dialetti, e dei corpi e dei gesti che nei dialetti si rappresentano).

L’unità linguistica ha certo i segni delle grandi esperienze letterarie che l’hanno costruita, da Dante in poi. Come l’unità statuale del Paese ha i segni dei passaggi storici, dolorosi, tragici, e dei personaggi e delle idee che l’hanno perseguita, fino alla Repubblica nata dalla tragedia della guerra. Nell’un caso e nell’altro si tratta di preservare una storia, che è storia di corpi, di voci, di saperi, di ferite : al tesoro della lingua corrisponde la trasparente ricchezza –unitaria e plurale anch’essa- della Costituzione repubblicana. E come sul piano della lingua è necessario oggi contrastare l’impoverimento che il chiacchiericcio televisivo e  gli stili mercantili di molte scritture promuovono, così sul piano dell’altra espressione d’unità politica che è la Carta costituzionale occorre arginare i frequenti assalti scompositivi, riduttivi, e persino derisori.

La difesa della lingua, della sua energia inventiva, e della poesia che fa della lingua il suo vero paese, è il primo movimento di una resistenza al vortice della cultura mediatica e mercantile che tutto contamina e assorbe e svilisce. Come la difesa della Costituzione repubblicana è il primo movimento per l’edificazione di un’altra Italia, e di altri italiani.

[Relazione letta il 26 maggio 2011 nel Convegno organizzato nell’ambito delle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia su Capitalismo e unità nazionale, promosso dall’Associazione per la storia e le memorie della Repubblica (Biblioteca della Camera, via del Seminario, Roma, 25-27 maggio 2011).]

 

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