La voglia di disimpegno ci allontana dalla lettura

di Antonio Errico

In un articolo sul “Corriere della Sera”, lo scrittore Mauro Covacich dice che una volta, quando si trovava in treno, guardava che cosa leggeva la gente. Adesso guarda quanti hanno un libro in mano.

Sono pochi. Quelli che prendono un libro in mano sono sempre di meno. Forse, purtroppo, non soltanto in treno. Probabilmente si legge in altro modo, ma coloro che leggono i libri di carta sono sempre di meno. Si avverte. Si vede. Lo dicono le statistiche. Fino ad un certo punto, con l’alfabetizzazione, con la scuola di tutti e per tutti, il numero dei lettori è andato crescendo. Fino ad un certo punto si è pensato che leggere servisse molto e a molte cose. Si è pensato che qualche volta servisse anche a passare il tempo. Si leggeva mentre da qualche parte si aspettava qualcosa, qualcuno, mentre appunto si viaggiava in treno. Adesso nella carrozza di un treno, il rapporto fra chi legge e chi fa i giochi al cellulare è di uno a nove. Allora qualcosa è accaduto; qualcosa sta accadendo. Qualcosa di irreversibile. Per decenni si sono fatte analisi nei diversi settori, si è indagato il fenomeno, si sono cercate risposte. In molti casi è stata individuata la causa nelle tecnologie. E’ abbastanza probabile che le tecnologie abbiano svolto e svolgano un ruolo determinante. Ma forse esiste un’altra causa che è più profonda o più leggera, a seconda della prospettiva. Forse esiste una causa che rappresenta una maglia nel tessuto generale della nostra esistenza, del nostro modo di confrontarci con le cose e con le storie che ci riguardano a livello collettivo e personale. Forse individuare il motivo del progressivo abbassamento degli indici di lettura è più facile di quanto possa sembrare.

Si tratta solo di un’impressione, però potrebbe essere giusto non tacerla.

Prima di proporla vorrei fare un riferimento ad un dato costante che emerge dai diversi rapporti sulla lettura: gli adolescenti leggono più degli adulti; in particolare la fascia d’età che va dagli undici ai diciannove anni è l’unica della popolazione italiana in cui i lettori sono più del 52,3 per cento. In particolare la fascia di età in cui si legge di più è quella che va dai diciassette ai diciannove anni.

Allora viene da chiedersi che cosa succeda dopo quell’età, quale mutazione si verifichi, quali condizioni si sviluppino o regrediscano.

Se si interpretassero in un certo modo questi dati, dovrebbe venir meno la motivazione secondo la quale sono gli strumenti digitali ad allontanare dalla lettura, per il fatto che coloro che hanno quell’età sono proprio i nativi digitali. Di conseguenza si potrebbe ipotizzare che non è il digitale ad allontanare dalla carta, che con molta probabilità esiste una ragione più leggera o più profonda, come si diceva.

Così l’impressione è che la ragione sia costituita dal disimpegno: dalla voglia o dal bisogno, più o meno consapevole, del disimpegno. Se una volta la lettura rispondeva anche ad un bisogno di evasione dall’universo del reale, dalle situazioni contingenti, dalle faccende stringenti, ora quel bisogno cerca e trova un altro passaggio attraverso il quale uscire all’aria aperta: un modo che richieda meno impegno, meno concentrazione, meno pensiero, analisi, riflessione.

Nel tempo dell’attesa, nel tempo del viaggio, in quello della distensione, della sosta, del riposo, vogliamo qualcosa che ci distragga, che ci distolga, ci disimpegni, che non ci costringa o ci sospinga alla meditazione, al ragionamento. Che ci permetta di non pensare.

Non si può giudicare se questo sia bene o sia male. Certo, così, d’impatto, verrebbe da dire che se non è male, di certo non è nemmeno bene. Ma ciascuno cerca di sottrarsi all’assedio del tempo che vive come può. Qualcuno lo fa abbandonandosi allo zapping. Qualcuno lo fa lasciandosi impigliare dalla rete. Ogni tanto abbiamo bisogno di scansare qualcosa di tutto quello che ogni giorno ci precipita addosso, di allontanarci dai luoghi che ci stringono, di scordare per un poco le scadenze, le faccende da sbrigare. Per un poco vogliamo smettere di farci domande. Invece un libro ci fa pensare, moltiplica le domande. Inevitabilmente implica, coinvolge, impone una partecipazione, invoca la memoria, non ha significati predeterminati, ma pretende un lavoro di costruzione dei significati, e poi di comprensione, e poi di interpretazione, di comparazione.

Quando si legge, di tanto in tanto si alza la testa e si guarda lontano: verso un punto che può essere reale o immaginario. Si pensa con i propri pensieri e con quelli che affiorano dal libro, che si compongono in forme sconosciute con le quali ci si ritrova a dialogare. Quando si alza la testa e si guarda lontano, ci si sta portando verso un orizzonte in compagnia di quelle forme che da sconosciute sono diventate conviventi.

Quando si affondano gli occhi dentro uno schermo, quando ci si separa dal mondo con gli auricolari, non si solleva lo sguardo. Il mondo è tutto dentro il perimetro di quello schermo; nel posto davanti a noi, accanto a noi, non c’è nessuno. Il disimpegno è questo separarsi da tutti, da tutto. Non ritrovarsi neppure con se stessi. Dimenticare, dimenticarsi. Non pensare da quale stazione si è partiti, a quale stazione si deve arrivare, che cosa si è fatto prima di partire, che cosa si dovrà fare quando si sarà arrivati.

Ognuno sfugge all’assedio come può. Non si può giudicare se sia bene o sia male. Però forse ci si potrebbe soffermare un istante a riflettere sugli esiti della fuga. Domandarsi se è la maniera migliore.

In un film – forse famoso, di cui però non ricordo il titolo – un uomo condannato al carcere a vita, immagina e progetta la fuga. A lungo, con accuratezza, con pazienza, studia i tempi, i percorsi, i particolari. Non lascia nulla al caso; non può. Dalla riuscita di quella fuga dipendono i giorni che verranno, il suo destino. Poi arriva il giusto tempo. Per una notte intera attraversa cunicoli allagati di melma, un regno dominato dai topi. Ad un certo punto intravede la luce dell’alba. Si ferma un istante. Affonda lo sguardo in quella luce d’alba. Sente sul corpo insozzato una carezza di vita. Procede verso quella luce. Alla luce lo aspettano le guardie con i mitra spianati e un ghigno di beffa.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, martedì 11 luglio 2017]

 

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