di Paolo Maria Mariano
Nel partecipare a una raccolta di saggi in memoria di Alexander Grothendieck, scomparso il 13 novembre 2014 nell’ospedale francese di Saint-Girons, lui che era nato il 28 marzo 1928 a Berlino da padre ebreo russo, Alexander Shapiro, anarchico anti-leninista, e da madre tedesca, Hanka Grothendieck, amburghese, anch’essa impegnata nei moti anarchici, e poi aveva indicato nuovi punti di vista nella geometria algebrica soprattutto dal 1955 al 1977, con pervicacia e indubbia profondità, dopo aver avuto risultati essenziali in analisi matematica, ho sostenuto che Grothendieck può essere considerato con proprietà un artista in aggiunta al fatto più specifico che egli era un matematico, anzi anche per questo (lo scritto a cui mi riferisco è Un artista tra gli alberi di Bures-sur-Yvette, in Matematica Ribelle – le due vite di Alexander Grothendieck, a cura di A. Carioti, Corriere della Sera, 2014, pp. 81-102). E così, per fare qualche esempio naturale tra coloro che più non si affannano tra le cose della terra, Leonhard Euler, Carl Friedrich Gauss, Niels Henrik Abel, Augustin Louis Cauchy, Bernhard Riemann, David Hilbert, Srinivasa Ramanujan, Ennio De Giorgi sono stati pienamente artisti a gradi diversi, ciascuno con sfumature e peculiarità proprie, molto di più di chi viene dipinto come tale dalle relazioni d’interesse che muovono la macchina pubblicitaria. Per questo intendo la questione che sollevavo nel caso specifico di Grothendieck come un fatto generale connesso al fare matematica, a estenderne il dominio proponendo nuove strutture e collegamenti tra esse e con quelle preesistenti, al farla quindi in maniera creativa. Non intendo qui sollevare il problema se i risultati della matematica siano scoperte o creazioni. Qualunque sia la soluzione ontologicamente corretta, per chi fa matematica non in maniera burocratica, per così dire, ma cercando di introdurre concetti, scoprirne le relazioni, dimostrare nuovi teoremi quindi, la questione non ha molto interesse perché, nei modi in cui si manifesta, quel fare è un atto creativo. Nessuno si chiede se l’Inno alla Gioia sia una scoperta, e così tutta la Nona Sinfonia, o se lo siano le Variazioni Goldberg, o le Suites per violoncello solo, o la sinfonia Juppiter, per fare qualche esempio, eppure sono implicati dalla definizione delle note. La loro composizione è un atto creativo e quelle composizioni musicali sono arte, anzi implicitamente quasi ne indicano la natura costitutiva: com’è la materia a definire lo spazio fisico, percepito dall’essere umano intorno a sé, così le opere sono quelle che indicano – sebbene non evitando ambiguità nella definizione – la natura dell’esperienza estetica.
Intendere la creatività in matematica – e ripeto, si tratta di questo per chi la fa – come il luogo di una possibile esperienza artistica implica che si abbia un’idea di cosa sia arte e di ciò che voglia dire costruire strutture matematiche, piuttosto che di esse farne uso a vari gradi di complessità. Questi due aspetti hanno differente chiarezza per chi non sia in essi coinvolto con attività propria e anche a chi lo è, in realtà. Un osservatore esterno che non sia un matematico creativo, ma abbia il tempo e la volontà di scorrere le note che talvolta scrive a margine del suo lavoro chi ha lasciato tracce permanenti nella disciplina – i ricordi, le riflessioni sul senso del ricercare –, può rendersi conto in maniera piuttosto agevole di cosa sia il processo di estensione del dominio della matematica. Con estensione del dominio, intendo l’ampliarsi delle conoscenze per addizione, non tanto un progresso che renda stantio quanto è stato fatto in precedenza – e questa interpretazione prescinde dal fatto che esista un territorio di matematica potenziale che venga di volta in volta disvelato o, al contrario, che si tratti di una costruzione di chi opera, come ho già ricordato peraltro. Per l’ampliamento del dominio si tratta di porsi domande che riguardino la possibilità di estendere la validità di concetti e/o di costrutti ad ambiti più generali di quelli in cui essi sono conosciuti; se altresì alcuni problemi ammettano soluzione, anche se non si è in grado di esprimerla in maniera esplicita, e poi quali siano le proprietà di regolarità delle soluzioni stesse. Si può anche chiedere se e in che senso campi diversi della matematica siano tra loro correlati, secondo certi aspetti della loro intima struttura – questa è l’essenza del programma di Langlands, ad esempio – e se l’individuazione di tali relazioni possa (e in che modo) aprire nuove prospettive concettuali. Di enorme complessità è invece dire cosa s’intenda per arte. Tentativi in merito accompagnano la storia del pensiero speculativo umano. Le varie interpretazioni di ciò che possa essere detto arte non riescono a essere decisive in toto ma contribuiscono tutte a mostrare un ambito. Si può quindi agire per comparazione di aspetti differenti di ciò che possiamo intendere come esperienza estetica e il fare creativo in matematica.
Prima di procedere, si potrebbe anche convenire, con Luigi Pareyson, che vi è la possibilità “artisticità” nell’intera operosità umana nel senso della “formatività”, nella capacità cioè di formare un’opera “in modo singolarissimo e personalissimo, inconfondibile eppure onniriconoscibile, inimitabile eppure esemplare, irripetibile eppure paradigmatico, e dove si può parlare di stile si deve parlare di arte” (Pareyson, Estetica, Bompiani, 1988, p. 65). La questione in matematica come nelle altre attività umane è quindi relativa al livello del contenuto estetico, alla densità dello stesso in un’opera e alla permanenza di quest’ultima nel tempo. Non si tratta meramente di fare a regola d’arte, quindi solo di applicare in maniera rigorosa e inappuntabile tecniche note, semmai si tratta di adottare alcune tecniche o di inventarne di nuove per creare qualcosa che sia inimitabile perché unico e imitabile perché esemplare.
P.S.: Una versione largamente ampliata di questo testo è apparsa nel numero di marzo 2015 della rivista Prometeo, Mondadori.