Un’idea di città 3. Antonio Errico

di Antonio Errico

Nella sua essenza, nella sua sostanza, un città dovrebbe restare per sempre un paese: perché un paese accomuna destini, sa far crescere i bambini, sa amare i vecchi, si ritrova quando viene il giorno della festa, si ritrova quando viene il giorno del lutto, perché in un paese nessuno è forestiero, perché non ci sono mai porte che rimangono chiuse, perché un paese ha memoria di tutto, perché ha speranza di futuro per tutti.

Perché un paese vuol dire non essere soli, diceva Pavese. Perché sai che in piazza incontri qualcuno con cui riempire la sera di parole, oppure di silenzi quando le parole si sentono superflue. Perché sai di poter contare su chi ti abita vicino. Sai che qualcuno ti guarda la casa.

Una città dovrebbe restare un paese. Essere il luogo che ti appartiene, al quale appartieni. Che riconosci in ogni angolo, ogni via. Che puoi attraversare nottetempo, al buio,  senza guardarti alle spalle, senza che ti sorprenda il batticuore.

La città ti appartiene perché ci vanno a scuola i tuoi figli, perché c’è un luogo dove riposa chi ti ha amato, che – chissà- forse ti ama ancora dalla lontananza di una stella.

Mi chiede un pezzo per “Il Galatino”, Gianluca Virgilio. Dice sul tema di un’idea di città.

A me vengono in mente gli amici che ho. Gli amici che ho avuto. Questa è la città.

(Si cominciò a girare intorno alla piazza ch’era appena tramontato, Aldo Bello e io. Si parlava di altri amici, di giornali, si parlava di scritture, e ogni tanto lui interrompeva il discorso, fermava il suo passo, scagliava lo sguardo indietro, e faceva nomi, e raccontava storie, e diceva qui abitava quello, qui quell’altro, e lì c’era la bottega del calzolaio, lì il maniscalco. Si amareggiava se qualcuno non lo riconosceva.  A mezzanotte ancora si girava.)

Un’idea di città, mi chiede Gianluca, e mi viene da pensare che il Salento sia tutto una città, una sola città, perché le storie s’intrecciano, si rispecchiano, perché una sola è l’identità, una sola la storia da cui proveniamo, uno l’orizzonte verso cui stiamo andando.

Allora ci penso ma un’idea di città non mi viene. Un sentimento sì. (O un sentimento è anche un’idea? O non si distingue fra pensare e sentire?).  Il sentimento d’essere a casa mia da Lecce in giù.

Ho fatto un giro a Galatina, qualche giorno addietro. Per cercare un’idea della città.

Come altre volte – molte altre volte – mi sono rifugiato a Santa Caterina. Il solito sbalordimento dentro il vortice delle immagini. Ma nessuna idea ordinata, coerente, coesa, complessiva, compiuta.

Ci sono luoghi che non sono sintesi, ma sovrabbondanza di metafora, moltiplicazione di senso.

Santa Caterina è un luogo di quelli.

A tarda sera, ho tirato giù dagli scaffali Segni nostri,  un libro di poesie di Donato Moro. Cercando un’idea di città anche tra quei versi. Ma ho trovato fisionomie interiori, paesaggi galleggianti, creature, trasfigurazioni della memoria, senza peso, leggere, un ritmo di cantilene nelle riverberanze dell’aria.

Nessuna idea, neppure qui.

Ho deluso Gianluca e gli amici del “Galatino”. Mi dispiace, davvero. Ma la fascinazione di questa città sovrasta l’idea.

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