Serve la lentezza per cogliere la profondità delle cose

di Antonio Errico

Va lento il traino per la strada di curve che dal paese porta alla marina, a metà mattina di un giorno qualunque di giugno alla fine.

Il cavallo guarda a terra, dondolando la testa. L’uomo sul carro guarda la campagna, le vigne, gli ulivi, dondolando la testa. Il cavallo dondola la testa perché quello è il suo movimento naturale. L’uomo dondola la testa perché la condizione della campagna gli dà preoccupazione.

Va lento il carro per la strada di curve, e dietro il carro si scatena l’impazienza dei clacson. Quelli dietro il traino hanno tutti fretta, ma non possono sorpassare. Oppure non ne hanno ma non riescono a concepire quella lentezza, il guardare la campagna, il movimento preoccupato che l’uomo sul traino fa con la testa. Non comprendono che quello è il passo del cavallo e che un colpo di acceleratore non può aumentarlo.

La dimensione della lentezza è diventata estranea alla nostra condizione e alla nostra concezione. Ma questa estraneità ci ha privati non solo della possibilità di riflessione ma probabilmente anche della capacità di osservazione.

Senza osservazione non si può riflettere. Senza riflettere non si può capire.

Tutto quello con cui abbiamo relazione ci impone una fretta. Andare, tornare, cominciare, finire, leggere, parlare. Vivere. Accade tutto in fretta. Accade tutto senza una riflessione, e probabilmente senza una comprensione profonda dell’accadere, dell’essere, di quello che si dice, di quello che si fa. Diamo fretta al tempo. Vogliamo che scorra più in fretta di quanto scorre. Abbiamo fretta di dare cominciamento ad una cosa diversa da quella che stiamo facendo, di pensare qualcosa di diverso da quello che stiamo pensando.

Quelli nelle auto dietro il traino stanno andando al mare; non hanno tempo per guardare la campagna; non riescono nemmeno a immaginare il motivo per il quale l’uomo dondola la testa. Non osservano la campagna e non si possono preoccupare. Non importa se la siccità sta incenerendo la terra. Se gli alberi sono malazzati non importa. Quello che conta è arrivare in fretta al mare. Poi al mare sarà ancora fretta.

L’esperienza che facciamo è una esasperazione del sentimento del tempo. Un culmine. Una vertigine. Una frenesia. Una smania. Una crisi di senso. Forse è questa condizione che ci porta a fare più cose alla volta, con la conseguenza inevitabile di non poter riflettere su quello che facciamo, di non poter attribuire all’agire e al pensare un significato ed un valore esistenziali. Spesso di quello che pensiamo e che facciamo in un istante, perdiamo la memoria nell’istante successivo, perché non c’è stata riflessione, perché con il pensiero e con il fatto abbiamo avuto un rapporto sfilacciato e superficiale.

Diciamo che non c’è il tempo per fare una cosa alla volta, per pensare una cosa alla volta. Si tratta di una giustificazione che si può accettare oppure no. Certamente è vero che subiamo l’assedio di informazioni, di richieste, di pretese in taluni casi inutili, insensate; però è anche vero che in alcune situazioni non abbiamo la volontà di selezionare, di sottrarci, di rinunciare al superfluo, all’insignificante. Così ci sfugge l’essenziale, che consiste nel comprendere le cause e gli effetti di quello che pensiamo e che facciamo. Allora è come se non l’avessimo mai pensato, mai fatto. Qualcosa che ci è appartenuto evapora, si perde. Si potrebbe anche considerare come una mancanza di rispetto nei confronti di quello che ci riguarda, nei confronti di noi stessi. Spesso la fretta ci costringe a guardare senza vedere, a sentire senza ascoltare, anche a parlare senza dare alla parola un’espressione semanticamente autentica, sostanziale. Così accade frequentemente che quello che vediamo, ascoltiamo, diciamo, non lasci nessuna traccia dentro di noi. Il nostro pensare e agire nella dinamica della fretta comporta la naturale conseguenza della provvisorietà, talvolta anche dell’insignificanza della relazione con gli altri e noi stessi. L’incontro con l’altro si brucia nell’episodicità, si depriva di emozione.

Ci manca il tempo per l’evocazione, per il richiamo, anche per l’invocazione. Ci manca il tempo per il silenzio che scava ed esplora la nostra dimensione interiore, che conforma le nostre percezioni, le nostre sensazioni, che ci mette in corrispondenza con la nostra coscienza e il nostro essere in un luogo, in un tempo, in un modo in cui non potremo essere mai più.

In quel famoso libro di vent’anni fa che s’intitola Il pensiero meridiano, Franco Cassano scriveva che bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, dare i nomi agli angoli, agli alberi, ai pali della luce, portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada; fermarsi su un lungomare, su una spiaggia, su una scogliera inquinata. Andare lenti – scriveva- è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore e pronti ad esplodere. Andare lenti vuol dire ringraziare il mondo, farsene riempire.

Forse si ha bisogno di conquistare una saggia lentezza. Si ha bisogno di apprendere, o riapprendere, a fermarsi un istante per un respiro profondo, a prendersi il tempo che ci vuole per riflettere, meditare sul senso delle cose, sulla loro importanza, sull’incidenza che hanno nel farsi dei nostri destini.

Si ha bisogno di un’intima armonia con i giorni che si attraversano, di una sintonia con le esperienze che ci riguardano; si ha bisogno del dubbio, dell’indugio, della ponderatezza. Soprattutto di un ribadire la consapevolezza che gli attimi ci sono concessi uno alla volta e una volta soltanto.

Il pensiero avverte la necessità della lentezza che permette di approfondire i concetti, di mettere a confronto diversi elementi, di riconoscere una valenza al passato come condizione di una crescita che ci ha formati nel modo in cui siamo, con le nostre identità, con i desideri inappagati o realizzati.

Ad un certo punto finiscono le curve. Finalmente si può sorpassare, si può andare veloci verso il mare. L’uomo e il cavallo si fanno lontani. Appartengono ad un altro tempo: passato. Però forse non aveva torto Manzoni quando nel suo saggio sul romanzo storico diceva che non sempre quello che viene dopo è progresso.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, martedì 4 luglio 2017]

 

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