di Antonio Errico
Nell’epilogo de L’artefice, Jorge Luis Borges racconta di un uomo che si propone il compito di disegnare il mondo. “Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
Così a un certo punto paesaggio e uomo diventano una cosa sola.
Allora la pena di esistere ha lo stesso colore della luce di una luna; ha la stessa possanza dei tronchi di ulivo e la stessa tenerezza delle sue foglie; ha la stessa fosforescenza che è data dalla combinazione della luce e della polvere. E’ una pena che a volte esplode, a volte si ripiega, che si trasforma in amore o in paura, in sentimento atterrito dell’irreversibile, dell’incolmabile, dell’ormai impossibile.
I luoghi sono passioni a volte raccontate con parole o con linee o con grumi di colore. Si racconta il passo di avvicinamento ad essi, la ricerca di una possibile prossimità, gli enigmi che custodiscono, i disincanti che rivelano, la materia da cui hanno origine e che ne raccoglie la fine.
Un luogo è apparizione e scomparsa, in un solo tempo. E’ l’epifania e l’occultamento dello stesso senso di esistenza e di appartenenza. E’ coincidenza di forma e di sostanza, voce, eco, bellezza e somiglianza, il corpo e l’ombra, memoria e smemoranza. E’ risonanza di un sentimento o di una percezione di finitudine e d’infinito che non si sviluppano in contrasto ma coesistono in una dimensione del visibile che si fa espressione anche dell’invisibile o dell’irrappresentabile.
E’ l’ambivalenza, il chiaroscuro, la trasparenza, l’opacità, l’affermazione, la negazione, il pieno e il vuoto, il sinonimo e il contrario, il tutto e il niente, il falso e il vero, il verosimile, l’incomparabile, l’inenarrabile che chiede e pretende il racconto senza conclusione.
Raccontare un luogo significa andare al di là della figura, fino al punto in cui si sprigiona l’energia di un abbaglio, dove monta un’onda, dove l’eterno e il transeunte si ritrovano e si confondono.
Il racconto di un luogo è sospensione del tempo, riverbero della memoria o fantasticheria, figurazione che combina reale e immaginario, sguardo e ricordo.
Allora un luogo si fa ritmo, movimento, pulsazione, parola, silenzio, respiro – comunque linguaggio-.
Nessuna costruzione di pietra, nessun altare al tempo riesce a custodire e a tramandare memoria più delle parole. Perché la parola è l’unica cosa che un uomo può portarsi dietro, può portarsi dentro, può confondere con la propria sensibilità, con le proprie emozioni, i riflessi dell’esistenza, le storie di ogni giorno, illusioni e delusioni, occasioni prese e perse, dolcezze, amarezze, stupori, furori.
Si vive in un luogo e si guarda il paesaggio; si incontrano volti che scompaiono; si ascoltano voci che si perdono. Il tempo a volte trasforma, a volte deforma, altre volte cancella; a volte lo fa gradualmente, a volte in un modo improvviso, come fa un vento che sparpaglia i cumuli di foglie risecchite.
Restano le parole che hanno parlato di questo, se una volta ne hanno parlato: quelle parole che sono l’espressione più inconsistente, che hanno la leggerezza di un fiato, di un vapore, durano più di ogni altra cosa, oltre ogni vita di creatura. Perché passano da voce a voce, da memoria a memoria, anche quando si perde il timbro della voce, il filo della memoria originaria, anche quando non s’intravede il profilo di chi sarà memoria futura e non si conosce il tono della voce che racconterà.
Il racconto di un luogo è sempre una mediazione tra quello che si incontra e quello che si vorrebbe incontrare, tra una condizione di realtà e una di attesa, tra una risposta che viene dalle immagini e quella che si vorrebbe scoprire oltre le immagini, dentro di esse.
Ecco, allora: andare oltre le immagini, dentro di esse; scavare, disarticolare, scomporre per cercare quelle risposte che sono oltre, che sono dentro, e poi riarticolare, ricomporre, ricoprire lo scavo, perché si è trovato il senso di quel luogo, di quella terra: che è il solito senso che si ripresenta sotto forme diverse, con sembianze cangianti. Un senso semplice. Semplicemente essenziale. L’essenzialità dell’ambivalenza: armonia e disarmonia, il contrario e l’uguale, il niente e il tutto, il buio e la luce, il vero e il falso, la vanità e la sapienza.
La vita e la morte.
C’è sempre una differenza – lo scarto di un ricordo, la nostalgia per una distanza , una condizione di separazione, la sfumatura per il tempo che passa, l’offuscamento dell’orizzonte – tra la realtà di un luogo e la nostra idea di quel luogo, tra la sua sostanza concreta e la nostra memoria fluttuante, tra il nostro desiderio di consegnarlo ad una figurazione immutabile e il suo trasformarsi continuo, la sua mutazione incessante.
Un luogo si presenta a noi come una creatura: sempre, anche se impercettibilmente. Si presenta con quella fisionomia che per noi costituisce la sua identità; pretende di essere quello che in realtà è: configurazione di uno spazio. Non paesaggio interiore, elaborazione del sentimento, proiezione dell’emozione. Ma pietra, bosco, caverna, grattacielo, vicolo, autostrada. Nient’altro.
Ancora: un luogo dice che c’era prima che noi ci fossimo e che ci sarà anche quando noi non ci saremo più. Cambierà. Diventerà un altro luogo rispetto a quello che è.
Allora tra un uomo e un luogo comincia la sfida: tra le parole e un tramonto, tra il colore e un intrico di rovi, tra la screpolatura di un muro e lo sguardo di una fotografia.
Noi non ci rassegniamo che possa essere soltanto quello che è; vogliamo – pretendiamo – che sia fatto a nostra immagine e somiglianza.
Un luogo si consegna a noi con tutto il suo tempo, con le sue stratificazioni e gli intrecci di relazioni, con la sua appartenenza plurale, il suo essere di tutti. Un luogo ci guarda passare. Impassibile. Siamo comunque forestieri e sconosciuti. Siamo come chiunque altro che sia passato da lì, per caso, o che vi abbia abitato una vita, in un passato prossimo o remoto. Siamo come chiunque altro che vi passerà, che lo abiterà, in un futuro immediato o lontano.
Noi invece vorremmo che fosse nostro soltanto. Lo vorremmo per appartenenza esclusiva, essenziale. Vorremmo che solo a noi ci fossero concessi i suoi colori, il suo orizzonte, la sua polvere, la luce, il buiore. Che solo per noi fosse possibile afferrare l’irripetibilità di quell’istante.
Vorremmo poter essere soltanto noi a ricordare, a dialogare con le ombre, ad ascoltare i silenzi, a interrogare le pietre, ad insinuarci nelle sue storie per prenderne il senso, il lievito, la sostanza.
Vorremmo essere solo noi ad avere nostalgia.
Di un luogo siamo gelosi come lo siamo di chi amiamo.
Così tentiamo di farci dare in dono l’anima. Oppure di rubargliela. Ma chiediamo in dono, o rubiamo, quella condizione che non sappiamo bene cosa sia, che, come dice James Hillman ne L’anima dei luoghi sfugge a ogni definizione: “ le sue definizioni, come i tentativi di trovarla, non hanno mai avuto successo”.
A volte l’anima di un luogo è costretta a darsi alla fuga, o a morire. L’anima scappa “ dal chiasso, dalla sfacciataggine, dalla violenza, dalla mancanza di misura, dall’enormità, dalla purezza, dal minimalismo”.
L’anima muore quando non ci sono più parole per raccontare il desiderio ansioso di cercarla o la sapiente pazienza di aspettarla.
L’anima appartiene alla storia: l’anima è la storia. Anima muta che si manifesta, rappresenta la propria esistenza, la propria essenza per mezzo del passato che risorge costantemente, prepotentemente, sommergendo ogni elemento e motivo di presente, vietando ogni senso di futuro, quale che sia: ipotesi, speranza, desiderio di un altro sentimento, di un’emozione nuova, l’abbozzo del disegno di un tempo che rinnovi l’evento della vita. Perché tutto quello che potrebbe accadere è già accaduto, i racconti sono già stati narrati, sono venuti e passati i temporali, le stagioni ripetono se stesse.
Oltre la storia e i suoi simboli di pietra e di memoria non c’è niente, non può esserci niente. Ogni cosa viene dal passato; anche il vento viene dal passato, trascina con sé il passato. L’esistente è testimonianza della presenza di un’anima che giace nelle tombe affioranti che ribadiscono un vincolo come privilegio e condanna al tempo stesso, che urlano la loro ansia, la loro pretesa di essere dissepolte, disoccultate, riportate alla luce, riconsegnate al divenire del mondo, all’avvicendarsi del mattino e della sera, a riconferma perpetua dell’origine, della cifra primordiale, dell’archetipo ineludibile, irreversibile.
La terra viene prima delle creature; durerà oltre le creature. Quando si dissolveranno i corpi, e le memorie dei fatti, quando non resterà nulla dei sogni, né delle parole di una poesia, quando non si sentirà più sul petto il peso della terra,e tutto diventerà leggero come un pulviscolo, e sembrerà misterioso come un singulto di civetta, allora l’ulivo saraceno sarà ancora una silenziosa e significante traccia dell’anima del tempo di un luogo. Lo saranno le tombe di antenati sconosciuti e visceralmente venerati, i tramonti che non mutano colore; lo saranno gli occhi di coloro che verranno, vuoti come sono gli occhi di quelli che ci sono.
“Qui s’era fatto il mio volto”, scrive Vittorio Bodini.
Qui: “dove ogni casa, ogni attimo del passato/ somiglia a quei terribili polsi di morti/ che ogni volta rispuntano dalle zolle”.
Un volto che si fa è una condizione della crescita, della maturazione, del confronto con l’ altro che abita un luogo, con i suoi innumerevoli volti, con la loro freschezza di gioventù, poi con le rughe che segnano le stagioni che vengono e che vanno. Il volto si fa con i segni del sole sulla pelle, con le venature della tristezza, con le occhiaie scavate dall’insonnia, con i pensieri che lasciano un alone incancellabile di malinconia, con quelle parole – in qualche caso poche – che costituiscono il lessico interiore, con la bellezza generata dall’amore.
Così il volto è la combinazione, spesso indecifrabile, di affettività e di storia, l’esito di una reciprocità a volte inconscia; è un radicamento nella materia antropologica, una mappa dell’esistenza.
Allora chi scrive di un luogo che gli appartiene si confronta con questo sentimento dell’appartenenza, anche se il fatto della scrittura avviene in una situazione di lontananza. Forse anche di più, quando è nella lontananza. Perché la lontananza attiva un processo di distacco dalla spazio fisico per una espansione dello spazio memoriale. La memoria essenzializza: individua quelle immagini che hanno una più consistente stratificazione di senso, circoscrive i tempi – a volte istanti – che rappresentano i nodi dell’esistere, definisce nel pensiero quelle figure del reale e dell’immaginario che hanno fatto l’essere com’è alla sua età e che ne condizioneranno il passaggio verso età ulteriori.
Colui che scrive una terra, spesso deve scavare, anche se si ritrova a dover scavare in un’ellisse d’aria, come diceva Vittorio Pagano.
Talvolta deve anche disseppellire. Perché spesso il suo volto rassomiglia a quello dei morti: a quello degli antenati che gli hanno lasciato in eredità nient’altro che una fiaba da raccontare, da ripetere all’infinito a qualcuno che può essere anche solo il proprio sé davanti allo specchio del presente, a qualcosa che può essere la propria nostalgia o la propria coscienza. Quando è così il tempo della terra ha tutta la pesantezza della Storia oppure la leggerezza di una parola di poesia.
Quando è così, colui che scrive una terra avverte l’attrazione provocata dalla seduzione dell’origine e il turbamento per la scoperta di quel lievito antropologico che il passaggio e il mutamento dell’età a volte hanno rimosso oppure hanno occultato.
Ancora Vittorio Pagano: “ai grassi fichidindia, ai magri fichi/ la campagna dà un cuore per concime/ – ed è il mio cuore”.
Ricercare quel cuore, ritrovarlo, in qualche caso forse ricomporlo, restituirgli forma e pulsazione: forse chi scrive una terra ha questa cosciente o incosciente ambizione: riappropriarsi di quello che ha dato ad essa per poi consegnarglielo di nuovo, dopo aver riconosciuto che non c’è stata cancellazione, dopo essersi accertato di vivere ancora in quella terra, come una zolla qualsiasi, una pianta qualsiasi, forse anche una pietra.
Chi scrive una terra deve riconoscersi: riconoscere il sé che si è conformato nel passaggio delle stagioni, identificarsi in un paese originario che ha, ad un tempo, la fascinazione di un dove e di un altrove, che genera, quasi simultaneamente, un movimento di fuga e uno di ritorno che molto spesso costituiscono il motivo o il movente del racconto.
Per scrivere una terra occorre muovere costantemente lo sguardo dal proprio esistere fisico, storico, emozionale, a quello del luogo reale o immaginato, alla sua storia, alle sue leggende, alle sue espressioni visibili e a quelle che appartengono alla lontananza, all’anteriorità, alla sua physis e alla sua poesia, alle sue figure e alle ombre che da queste si staccano, si slargano, si spandono.
Bisogna tener conto dei vivi e dei morti, delle bestemmie e delle preghiere che l’hanno attraversata e l’attraversano, dei bordelli e dei luoghi di pena, delle sue miserie e dei suoi riscatti, degli angeli che la proteggono e dei demoni che la insidiano.
Bisogna tener conto dei suoi miti, sontuosi o poveri che siano, perché in modo esplicito o implicito, elaborano le forme del pensiero.
La scrittura di una terra si fonda – frequentemente – sul senso determinato dai contrasti: un sentimento o una condizione di prossimità e di lontananza; il rifiuto del presente e l’attrazione del passato; il confronto con la concretezza e il desiderio di indeterminato, di irrazionale, di magico.
C’è sempre una malinconia nella scoperta della rassomiglianza tra il proprio volto e quello della terra, che a volte è impercettibile, che a volte invece affiora prepotentemente dalle profondità dell’antropologia, oppure viene portata alla riva della coscienza dalle onde di un immaginario senza tempo, da una mescolanza secolare di ragioni e di passioni.
Il volto di Antonio Galateo disegnato da Antonio Verri nel suo Fabbricante di armonia, ha tutti i tratti di una malinconia leggera, triste, pacata, così tenera e saggia da trasformarsi in distacco da sé, in trasognata alterità: “ in questo posto, io posso guardarmi quasi come fossi un altro”.
Nell’altro che gli appare come una figura proveniente dalla lontananza, Antonio Galateo trova la propria autentica identità, una precisa fisionomia esistenziale, una appartenenza che sente sulla pelle, un “ improvviso fremito” che gli riempie il sangue.
Poi tutto il tempo della terra gli cola addosso come la luce di un tramonto: l’abitudine della vita che si srotola lenta, il respiro della gente, le malattie immaginarie, i racconti, i sogni, le dicerie sui fantasmi, i folletti, i furori, la tiritera delle giornate.
L’idea dell’infinito sembra prendere forma concreta, farsi cosa visibile nell’aria, come una nuvola, un lampo, il volo dei gabbiani, si manifesta nell’andatura del mare che diventa misura perfetta del ciclo della vita.
La scoperta di questa compenetrazione con la terra è una sensazione che “sventra”, “svuota”, fa girare il sangue nella testa. Il processo di riconoscimento e di rispecchiamento trova la sua condizione in uno sbalordimento, in un abbandono totale; la comprensione del proprio essere nel mondo e per il mondo che coincide esattamente con il luogo dell’origine, della provenienza, può avvenire solo per amore. Non con l’arte, la ragione, la medicina. Solo per amore.
Scrivere un luogo. Scrivere un sé. Un luogo rispetto all’umano di cui il sé è pulviscolo inconsistente. Un sé rispetto all’universo di cui il luogo è sintesi e sineddoche. Scrivere un luogo come può farlo chi lo ha abitato ininterrottamente, oppure come un forestiero disorientato, sperduto.
Scrivere la relazione tra il luogo e l’esistenza, allora. Nella loro continuità o nella loro frattura, nel loro generarsi, dispiegarsi, evolversi, intrecciarsi, risolversi. Scriverlo nelle sue forme vive e in quelle morte; scrivere il radicamento e lo spaesamento – se accade, quando accade -, l’esperienza del tempo, del linguaggio, della presenza e dell’assenza, della superfluità e dell’essenza. Scrivere quel volto che è maturato con il divenire degli anni, quel senso del destino custodito forse tra le pietre di un muretto a secco, scrivere l’allontanamento e il ritorno che hanno avuto la stessa sobria malinconia.
Scrivere il luogo cercando il senso e la passione che annodano un’esistenza. Perché, come diceva Fernando Manno nelle ultime commosse righe di Secoli fra gli ulivi, forse non siamo altro che amanuensi “di quanto nei secoli è nostro per transito umano, da prima che nascessimo e nelle generazioni dei figli, nostro da sempre e per un attimo nel tempo fra gli ulivi dal quale venimmo. Al quale, ammaliati di vita, morendo ci riconsegneremo”.
Allora il senso estremo, assoluto, probabilmente sta chiuso – custodito – nel rispecchiamento del sentimento che si prova nei confronti della propria vita con quello che si prova nei confronti della propria terra. Il senso sta nel sentire dentro una condizione di continuità con il passato e di proiezione nel futuro. Sta nella scrittura che cerca, parola per parola, di rassomigliare ad un tronco macerato da un fulmine, oppure ad una nuvola che nasconde la luna, o ad un rivolo di pioggia che scorre lungo il marciapiede, ad una fiaba, una rabbia per la storia, un riscatto dalla marginalità della geografia, alla malinconia per tutto quello che sarebbe potuto essere e non è stato, all’attesa che quello che non è stato possa ancora essere, un giorno o l’altro, prossimo o lontano.
(2012)