di Gianluca Virgilio
Domenica mattina. Esco in moto con Giulia. In città, nei quattro angoli della piazza, i soliti capannelli di gente nei quali si discute delle prossime elezioni amministrative. La città è più sporca che mai. Ci hanno pensato i trecento e passa candidati a disseminarla di cartacce con su impressi i loro volti, che poi la gente, per lo più, calpesta con grande indifferenza. Ad un surplus di lavoro delle tipografie ha corrisposto un surplus di lavoro degli operatori ecologici, che, tuttavia, pare non riescano a tener testa alle schiere dei giovani assoldati per la diffusione della propaganda elettorale: esempio di redistribuzione della ricchezza e di potlatch (rituale di distruzione).
Decidiamo di fare un giro in campagna. Ci lasciamo indietro tutte le beghe delle prossime elezioni, le richieste di voti, la preventiva divisione del potere, le immancabili liti. Nella nostra fuga ci inseguono anche in campagna le cartacce dei candidati, un chilometro, due chilometri, tre chilometri fuori dell’abitato. Poi, man mano che ci si allontana dalle ultime case, le cartacce diminuiscono fino a scomparire del tutto.
Maggio riserva giornate così luminose che non è possibile rimanere all’ombra delle strade cittadine, soprattutto quando l’aria vi sia divenuta irrespirabile a causa delle beghe che precedono le elezioni. Sulla via di Collemeto, a destra, imbocchiamo la strada che porta, come apprendiamo dalla segnaletica, in contrada Vore. La campagna fiorita in primavera è incantevole. Procediamo a velocità alquanto ridotta, per vedere le nuove costruzioni, i giardini ben curati, le coltivazioni di patate, di fagioli, di angurie.
Dopo qualche chilometro, eccoci nei pressi di una vecchia masseria abbandonata, circondata da erbacce alte un metro. Mentre le ruote fendono l’erba, temo che qualche insidia si celi alla vista, una pietra, una buca, un serpente da poco ridestatosi dal letargo invernale. Ci fermiamo nello spiazzo antistante l’entrata della masseria e scendiamo dalla moto. A fatica riesco a vincere la resistenza di Giulia, a cui la solitudine del luogo incute qualche timore, e la convinco a seguirmi dentro il rudere seicentesco per esplorarne gli ambienti.
Siamo nel pian terreno, col grande camino nell’androne centrale, il soffitto percorso da numerosi fili di ferro legati da ganci ben piantati nei muri: sostegno disusato delle filze di tabacco essiccato. Nel cortile retrostante, una sequela di mangiatoie sberciate, abbandonate alle erbacce, il regno della straficula distesa al sole.
Per una stretta scala, saliamo al piano nobile. Vago senso di sgomento nelle stanze dai muri scalcinati e sporchi, dalle alte volte a stella prive di intonaco, dove l’unica suppellettile sono un paio di reti metalliche con i materassi sudici e strappati, il ricovero di qualche errante. Disegni osceni alle pareti, una grande vulva aperta tra due cosce spalancate davanti ad un fallo gigantesco: fantasmagorie talismaniche nella notte di un barbone dormiente. Giulia non sembra accorgersi di codeste figurazioni così iperboliche.
Le dico di camminare dietro di me, rasentando il muro, perché le crepe nel pavimento potrebbero essere più profonde di quanto sia dato vedere e il rischio di un crollo non è del tutto improbabile. Ma possibile che la masseria, dopo essere stata in piedi per tre secoli, decida di crollare proprio mentre ci siamo dentro noi?
La mano di Giulia suda nella mia, mentre saliamo per l’angusta scala. Ha paura che da un momento all’altro qualche topo ci assalga e che, in caso di pericolo, non ci sia dato trovare una via di fuga. Cerco di rassicurarla, dicendole che i topi hanno più paura di noi e che, ancora qualche scalino, e siamo già in cima alla casa. Sul terrazzo, negli interstizi terrosi dell’impiantito, ha messo radici un fico d’India, un fico selvatico e altre erbacce. Sguardo all’intorno: distese di grano a perdita d’occhio, poche macchie più verdi dei parchi nei pressi delle ville sparse nella campagna, e poi sotto l’orizzonte la linea spezzata dei bianchi paesi: Collemeto, Galatina, San Donato, il villaggio dell’aeroporto, Torre Pinta, come inghiottiti nell’oceano verde della primavera lussureggiante. La terra vista dall’alto conserva la sua indifferente bellezza a dispetto di tutte le discussioni e ambizioni degli uomini.
Se il padrone di quell’edificio ci avesse sorpreso lì, nella sua proprietà, che cosa gli avremmo detto? Come avremmo giustificato la nostra presenza in quel luogo? Giulia era inquieta anche per questo.
– Gli diremo che siamo dei giovani esploratori – ho detto, scherzando, e Giulia ha sorriso.
Ma aveva fretta di andarsene, perché quel mondo sconosciuto e inabitato -o abitato saltuariamente da chissà chi- le faceva paura. Anch’io non sapevo dire se vi eravamo giunti per caso oppure condotti da un filo di pensieri incogniti o forse solo per sfuggire all’aria della città divenuta ad un tratto irrespirabile. Anch’io avevo paura e volevo andar via. Così abbiamo disceso la scala, ho messo in moto e un po’ a malincuore siamo ritornati verso la città.
[2006]