di Paolo Maria Mariano
Ricorda Jonathan Franzen, accodandosi a Catherine Gallagher e citandola in Più lontano ancora (Einaudi, 2014, p.32), che il Settecento tra le altre cose è il secolo in cui per gli scrittori l’azione di costruzione di un romanzo manifesta la coscienza del suo essere finzione – sebbene, aggiungo, una finzione incardinata sull’autore per come egli/ella è, per la conoscenza, le idiosincrasie, le inclinazioni, le paure, le ambizioni che sono sue proprie, per la sua essenza di persona, insomma, e di persona scrivente, in altri termini una finzione per così dire parziale perché non dimentica la realtà dell’autore – ma al contempo e in contrasto appare lo sforzo per la verosimiglianza, il far di tutto per far sembrare vero, per poter affermare che si colga il vero. E il paradosso è oggi anche rovesciato: in taluni casi si scrive della propria vita di ogni giorno solo con qualche sbuffo inventivo che indica ciò che si vorrebbe essere ma non si riesce a fare, e s’insiste che sia invenzione, quando si sta banalmente (questo il punto) esibendo se stessi.
Questa duplice e paradossale natura dell’inclinazione sul romanzo, emersa nel Settecento, scaturiva, secondo Gallagher, almeno in accordo alla citazione che di lei fa Franzen, dal peso progressivo assunto dallo sviluppo della libertà imprenditoriale, proprio quella che avrebbe consegnato il secolo di là da venire, l’Ottocento, alla borghesia allora nascente. L’imprenditorialità richiedeva un ambiente ove si potessero fare simulazioni senza rischi, una realtà sulla carta, specchio di quella sociale. Per questo il romanzo diventava anche veicolo di critica sociale, oltre che possibile simulazione, soprattutto se non apparente, come si sarebbe visto più tardi già con Dickens.
Non si può dire che il ruolo della fantasia nel “romanzo” o in ciò che sarebbe mutato nella forma che tradizionalmente intendiamo per romanzo non avesse prominenza antica perché già nel Don Chisciotte di essa fa superbo sfoggio Miguel de Cervantes y Saavedra – c’è però da ricordare che Cervantes era un genio che ha anticipato i tempi, non solo quelli della narrativa ma anche, in qualche modo, quelli della psicoanalisi e per la sua eccezionalità merita uno studio singolo a parte. Altresì, il ruolo preminente della narrazione nel senso che oggi attribuiamo al romanzo era di natura didascalica. La favola era un racconto filosofico in fondo. La narrazione serviva a educare. In qualche modo, sostiene Gallagher, e Franzen segue a lei, il Settecento vede l’imporsi del ruolo ludico del romanzo nel senso che si dà all’intrattenimento, quel ruolo che si può anche svilire se chi scrive ha scarsa qualità – gli esempi negativi popolano gli scaffali delle librerie e sono anche quelli di maggiore risultato nelle vendite perché maggiormente promossi ai lettori verso i quali, in tal modo, si manifesta una scarsa stima da parte degli editori e dei librai.
C’è dell’altro: la forma tradizionale del romanzo altera e perde il suo comune intendimento per destrutturarsi nella linea di confine col saggio (Wilfrid Sebald e Jean d’Ormesson sono magnifici esempi in merito) o col monologo (qui la lista aumenta da Thomas Bernardt allo stesso d’Ormesson a Samuel Beckett) per poi ritornare alla struttura classica e da essa di nuovo allontanarsi.
La visione del romanzo come luogo delle possibilità, e quindi ambito di simulazione e di analisi di un’eventuale realizzazione concreta, concentra essenzialmente l’attenzione sulla vicenda romanzesca e l’ambiente in cui essa si sviluppa. Se ci si limita solo a questo, ci si dimentica che scrivere un romanzo non vuol dire solo inventare una storia di qualche articolazione, possibilmente con un qualche personaggio che emerga dalla carta, e poi scriverla senza errori di grammatica, almeno appariscenti. Il problema essenziale è proprio la scrittura. La questione è come si scrive: il ritmo, la tonalità dello svolgersi in sequenza delle parole, il flusso narrativo, la concatenazione delle immagini, sia diretta sia indiretta, quest’ultima quella ascosa ma probabilmente quella più penetrante nella percezione del lettore, con le dovute variazioni dall’uno all’altro. E il ritmo e il suono non sono solo fisici, evidenziati dalla lettura ad alta voce. Essi sono essenzialmente interiori e sono anche il ritmo e il “suono” delle idee. La verità della letteratura non sta tanto nella vicenda narrata, quanto nella profondità delle idee espresse e nell’intima armonia che esse hanno, nel loro riuscire a cogliere aspetti universali del rapporto dell’essere umano con l’ambiente che lo circonda, inclusi i suoi simili, e con se stesso quasi in maniera esterna, per così dire, da sé. Lo scrittore è un investigatore delle cose, del mondo, di se stesso, come lo è uno scienziato. Hanno stilemi diversi, metodi differenti, l’uno di carattere solamente qualitativo e primariamente istintivo – direi anche emozionale –, l’altro qualitativo e quantitativo al contempo, tipologie di risultati diversi, finalità. Eppure sono entrambi sorgenti di sguardi interpretativi sul mondo; nel primo caso (il romanziere) essenzialmente in termini delle relazioni tra gli esseri umani, anche quelle del singolo con se stesso, e di posizione del soggetto nel mondo, nell’altro (lo scienziato) nelle rappresentazioni dei meccanismi dei processi naturali, chimici, fisici, biologici che siano.
Chiunque nel comporre uno scritto può scrivere una frase bella o anche più d’una che abbia contenuto estetico, il problema fondamentale è mantenere il tono, il livello di quella frase cioè, per tutto lo scritto, senza sbavature, senza cadute né esaltazioni, con quella scelta esatta dei termini, perfino della punteggiatura.
Molteplici, sebbene non tanto numerosi quanto si possa volere, sono gli esempi di cosa significhi dire mantenere il tono e mantenerlo alto. Si tratta dei classici, di testi che hanno progressivamente superato il lavacro del tempo e continuano a farlo. Qui mi piace citare un romanzo del 1940 di Sándor Márai, Sindbad torna a casa (Adelphi, 2013), anche perché in esso la trama e quasi inessenziale al contrario della scrittura che lo rende difficilmente dimenticabile. La vicenda è quasi nulla: uno scrittore, soprattutto un gentiluomo, descritto nel declinare delle sue forze, esce dalla sua abitazione nel quartiere di Óbuda, un sobborgo di Budapest con l’intento di procurarsi, scrivendo qualcosa per qualche giornale, il denaro sufficiente a comprare un regalo alla figlia piccola perché quel giorno è il compleanno della bambina. È una mattina di maggio. Sindbad, nome preso in prestito dalle Mille e una notte e usato come soprannome, è il modo che usa Márai per riferirsi al suo protagonista che chiama anche “marinaio” e che è modellato dichiaratamente sul suo amico e “maestro letterario” Gyula Krúdy, scomparso a cinquantaquattro anni dopo aver perso nel tempo la considerazione degli editori. Ecco perché “Sindbad si preparò al suo viaggio con una certa qual gravità e un’intima, recondita angoscia” (p. 19). Il viaggio diventa il periplo di Ulisse, una visita ai ricordi a bordo di una carrozza, noleggiata non potendo permetterselo, tra la redazione di un giornale, uno stabilimento balneare con le insegne pubblicitarie del secolo passato, il London, a pranzare in ritardo, perché al London c’era innanzitutto l’odore, quello della vita di Budapest, non quella città del giorno di maggio ma quella della giovinezza, la Budapest che non si riconosceva più se non in luoghi sopravvissuti al tempo, luoghi della memoria, luoghi della corroborazione. Sindbad continuerà a vagare e con lui Márai perdendosi nella memoria ma con la saggezza dell’oggi, quella giunta con l’imbiancarsi delle tempie. Non succede niente che faccia saltare sulla sedia guardandosi intorno, proprio come nell’elzeviro che Sindbad scrive per un giornale. “Di che cosa scriveva? Di tutto ciò che abbiamo riferito e anche di ciò che non è possibile riferire a parole. Ma il tipografo, quando portò su dal redattore di «Magyar Szabadság» le bozze umidicce dell’elzeviro scritto in occasione della Pentecoste, gli chiese allarmato: «Dobbiamo pubblicare questo elzeviro, signor redattore? … Pensi un po’ che in quattro colonne non accade un bel niente, a parte il fatto che una persona si mangia un pesce!…» (p. 131). Ma da un punto di vista letterario succede tutto nella duplicità interiore ed esteriore di quel viaggio in quella Budapest che va già immalinconendosi sul far della sera. Ed è col buio che Sindbad torna alfine a casa con quella carrozza antica, cremisi e dal cavallo baio, che l’ha portato in giro per tutto il giorno con lo splendore di una volta. La casa è quieta; la gente dorme. Sindbad si distende al letto e legge al lume di candela finché può. “La candela bruciò fino in fondo, e con la sua ultima vampata illuminò il volto di Sindbad. Ora quel volto, con gli occhi chiusi, era saggio, indifferente e severo. Solo in Oriente i gentiluomini sono capaci di avere un aspetto così dignitoso e indifferente, quando qualcosa è finito” (p. 182).