di Guglielmo Forges Davanzati
L’attuale architettura istituzionale dell’eurozona e le politiche di austerità messe in atto negli ultimi anni sono assolutamente irrazionali: su questo vi è ormai ampio consenso fra gli economisti. Più in generale, vi è ampio consenso sul fatto che le politiche messe in atto in Europa a seguito della crisi e, in particolare, a partire dalla crisi greca del 2010 sono state totalmente fallimentari, determinando aumento del tasso di disoccupazione, fallimenti di imprese e anche – contrariamente all’obiettivo dichiarato –aumenti del rapporto debito pubblico/Pil, in Italia e non solo. L’effetto è stato più intenso per i Paesi periferici, dove peraltro le politiche di austerità sono state messe in atto con maggiore intensità rispetto ai Paesi del centro. La domanda alla quale occorre, dunque, rispondere, giacché segue logicamente la precedente affermazione è se sia o meno conveniente per un singolo Paese tornare alla propria valuta e, più in generale, se sia effettivamente rilevante il dibattito che si è generato intorno alla domanda se sia o meno conveniente il ritorno alla lira.
I principali argomenti a favore dell’abbandono dell’euro si possono così riassumere.
1) L’abbandono della moneta unica consentirebbe di svalutare la nuova lira, con effetti positivi sulle esportazioni, dunque sulla domanda interna e l’occupazione. Si tratta di un argomento che si presta a una duplice obiezione. In primo luogo, la svalutazione comporta un aumento dei prezzi dei prodotti importati, con conseguente riduzione dei salari reali. A meno di non immaginare un ritorno all’indicizzazione dei salari, ciò produrrebbe un effetto ridistributivo a danno dei lavoratori. In secondo luogo, la svalutazione non ha (come non ha avuto, negli anni nei quali è stata realizzata) effetti uniformi su scala nazionale, dal momento che reca vantaggi alle aree nelle quali sono localizzate le imprese esportatrici, potendo accentuare i divari regionali. E ancora, e soprattutto, la politica delle svalutazioni competitive consente (e ha consentito) alle imprese italiane di competere riducendo i costi, disincentivando, per questa via, le innovazioni e contribuendo a ridurre il tasso di crescita della produttività del lavoro; già il più basso in Italia rispetto alla media dell’Eurozona. A ciò si può aggiungere che, come documentato dalla stessa Commissione Europea, le politiche di deflazione salariale messe in atto in Italia (come politiche sostitutive delle svalutazioni competitive) hanno generato risultati pressoché insignificanti sull’andamento del saldo commerciale. Conta molto, per le esportazioni italiane, la competitività non di prezzo, ovvero la qualità (effettiva o percepita) dei beni venduti all’estero e – per il settore dei beni di lusso – conta molto, a contrario, l’elevato prezzo di vendita (il c.d. effetto Veblen, per il quale le vendite di beni di lusso aumentano all’aumentare del loro prezzo).
2) Per necessità logica, si sostiene, la moneta unica comporta l’adozione di politiche di austerità. Si potrebbe per contro sostenere che il principale (ovviamente non unico) vulnus dell’unificazione monetaria risiede nell’impossibilità di monetizzare il debito. Ma anche in questo caso si è trattato di una scelta propriamente politica, in quanto tale modificabile, con l’ovvia condizione che vi siano rapporti di forza tali da renderne possibile il superamento. Ed è una scelta almeno parzialmente (e temporaneamente) superata dal quantitative easing. Si potrebbe anche aggiungere il vulnus dell’inesistenza sostanziale di una politica fiscale comune. E tuttavia, ritenere che l’Italia fuori dall’Unione Monetaria europea adotti politiche fiscali espansive significa di fatto tacere sulla natura di classe delle scelte di politica economica. Ciò in relazione agli attuali rapporti di forza fra capitale e lavoro, che determineranno se e come eventuali politiche fiscali espansive post-euro si faranno.
Occorre chiarire che il c.d. declino italiano data ben prima dell’ingresso nell’UME ed è sostanzialmente imputabile all’assenza di politiche industriali e, dunque, alla progressiva desertificazione produttiva della nostra economia. La retorica del “piccolo è bello” ha giocato un ruolo rilevante nel preservare il ‘nanismo’ imprenditoriale italiano, che è il primo fattore che spiega la scarsa propensione all’innovazione delle nostre imprese.
3) Il costo della nostra permanenza nell’UME è superiore al costo della nostra fuoriuscita. Si tratta di una tesi tutta da dimostrare, dal momento che, come affermato in premessa, nessuno è in grado di prevedere quali sono i costi che l’economia italiana (e i lavoratori italiani) sosterranno in caso di abbandono dell’euro. Si ritiene, da parte dei sostenitori dell’opportunità di abbandonare l’euro, che solo in questo modo si potrà recuperare sovranità monetaria. Peraltro, una sovranità monetaria alla quale il nostro Paese ha rinunciato dal lontano 1981, anno nel quale si sancì il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia.
4) E’ necessario prepararsi per un’uscita “da sinistra”, attrezzandosi per la messa in discussione del libero scambio all’interno dell’eurozona. Qui si pongono due rilievi critici. In primo luogo, la struttura produttiva italiana è composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco orientate alle esportazioni (soprattutto nel Mezzogiorno), collocate in settori produttivi maturi: agroalimentare, turismo, beni di lusso. In sostanza, pare di capire che questa tesi non tenga conto del fatto che i problemi dell’economia italiana prima ancora di essere problemi di finanza pubblica sono problemi che attengono alla desertificazione industriale della nostra economia, e che derivano, in ultima analisi, da scelte politiche che risalgono a una stagione precedente l’adozione della moneta unica: in primis, la rinuncia all’attuazione di politiche industriali. A ciò si può aggiungere che l’eventuale attuazione di misure protezionistiche indebolirebbe ulteriormente il già fragile settore produttivo italiano, che già stenta a integrarsi nelle “catene del valore” dell’Eurozona. In secondo luogo, il capitale tedesco non ha molto da perdere dall’adozione di misure protezionistiche in una nuova Europa delle piccole patrie, in quanto una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: le esportazioni tedesche intra-UE, infatti, si sono ridotte negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, si può ragionevolmente ritenere che la sopravvivenza dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro. Va richiamata, a riguardo, la ben nota tesi di George Soros, per la quale l’Europa starebbe meglio se la Germania abbandonasse l’euro, e la Germania stessa ne trarrebbe notevoli benefici.
I sostenitori della convenienza dell’uscita dall’euro riconoscono che il ritorno alla lira genererebbe un significativo aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato. A riguardo, si può ricordare che i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico si sono ridotti a seguito dell’adozione della moneta unica. Lo spread fra titoli di stato italiani e tedeschi, a fine anni novanta, era in media intorno ai 500 punti, raggiungendo il massimo storico (575 punti sui titoli a breve scadenza) nel 2012, per poi ridursi costantemente (grazie alla “protezione” della BCE).
In sostanza, affinché l’operazione abbia successo, occorre immaginare il verificarsi dei seguenti eventi: ritorno alla lira con ripristino della scala mobile; con possibilità di monetizzare il debito; con politiche fiscali espansive; con adozione di misure protezionistiche; in assenza di attacchi speculativi.
Anche assumendo che nulla altro accada, quale forza politica gestirà la transizione secondo queste modalità? In tal senso, la teoria economica ha ben poco da dire sui costi e i benefici dell’exit, trattandosi di una questione intrinsecamente politica, che chiama in causa rapporti di classe, conflitti intercapitalistici, debolezza strutturale dell’economia italiana. Come scriveva Gramsci: “Una coscienza culturale europea esiste ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione verrà realizzata la parola nazionalismo avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale municipalismo”.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 30 giugno 2017]