Zibaldoni e altre meraviglie. Una rivista per l’avvenire: Walter Nardon, Sette canestri

a cura di Enrico De Vivo

Sette canestri

di Walter Nardon

Il mezzo che aveva a disposizione per il compimento dell’impresa era una bici senza freni, viola, bilanciata, compagna fidatissima. A voler essere precisi, il manubrio era privo ormai anche delle leve dei freni, e il telaio si snodava senza alcuna dotazione delle guaine entro le quali un tempo erano scorsi i cordini che si fissavano agli archi sopra le ruote. Era, ovviamente, priva di cambio. Eppure l’insieme insufficiente e magnifico bastava a farlo forte, a renderlo pronto a partire, lontano dallo scoramento che ogni tanto provava in quelle giornate, dalla condanna all’inazione in cui anni dopo sarebbe clamorosamente caduto di fronte al suo primo fallimento. Guidare senza l’ausilio delle mani, su un mezzo messo in quel modo, comportava un equilibrio ben sperimentato ma era ancora un gesto dimostrativo, privo di un’ipotesi sulla quale mettere in gioco il senso della sua realtà quotidiana, quella che a dodici anni poteva ancora considerare misera, ma innocua, e che la sua coscienza aveva elaborato come un’estensione supplementare delle province dell’America del nord.

Sdraiato sul suo letto, con indosso una maglietta verde stinto sopra i pantaloni corti blu, guardava verso il tavolo dei libri. In cucina sua madre parlava con Romana, una vicina obesa che coltivava gerani e che ambiva a diversi riconoscimenti della floricoltura dilettantistica:

“Sicuro che glielo devi dire: non sono mica pochi soldi. Poi ci vai tutti i giorni, ci mancherebbe anche che non capisse. Un conto sbagliato può capitare anche a lui. E poi tu hai lo scontrino.”

“Il fatto è che anche la spesa oggi è diventata una guerra.”

Il caffè gorgogliava quando sua madre venne a sollevarlo dai suoi pensieri:

“Vai a prendermi le uova, trenta, come al solito. E va’ a piedi, lascia a casa la bici.”

Una vera investitura.

Per capire la portata dell’impresa è indispensabile conoscere le dimensioni del contenitore per trenta uova, un vassoio stampato rettangolare di carta sagomata che preso in mano dal lato più lungo alloggiava cinque file da sei uova ciascuna, privo di coperchio e costituente un’unità che dopo essere stata riempita veniva impilata per comporre cataste di centinaia e centinaia di uova da stipare in magazzino del centro di produzione, visibili attraverso una porta anche dallo spaccio aperto al pubblico.
Sceso in strada, la luce era quasi accecante. C’era confusione sul piazzale. Con la motosega, Sergio, un muratore amico di suo padre, si era messo a tagliare i rami di un faggio abbattuto da poco con l’aiuto del fratello. Arturo spostava i rami imprecando per gli errori di Sergio e dopo alcune mosse sbagliate del fratello – che era arrivato ad incastrare la catena nel tronco – gli aveva tolto la motosega. Erano partiti alcuni insulti.

Il figlio di Arturo, che radunava le frasche cadute a terra, gli fece un cenno di saluto.

In strada non c’era quasi nessuno. Bene o male era proprio quello che ci voleva, non avrebbe chiesto altro. Mentre saliva in sella qualcuno chiamò il suo nome: era sua zia Claudia.

“Sempre in giro, tu, vero? Non è che potresti passare a prendermi una scatola di detersivo?”

Viveva sola. Non poteva dirle di essere impegnato, perché sembrava proprio diretta verso casa sua, dove certo avrebbe spifferato tutto a sua madre. Fece cenno di sì genericamente, non gettò – come ogni tanto faceva – un’occhiata nella scollatura, mise in tasca i soldi e la salutò cercando di fare il possibile per tornare al suo progetto. Lei lo fermò con la mano, mostrandogli un libro appena tirato fuori dalla borsa: “Dove corri?” Conservava in casa alcuni volumi che aveva ereditato e che amava per la rilegatura, per la copertina. Non era una grande lettrice, si riconosceva solo una certa inclinazione per l’arte (detestava invece i libri di storia, che a suo dire erano graditi solo dalle persone serie).

“Quando mi porti il detersivo te lo mostro”, gli disse.

Due anni prima aveva perso un figlio, di cui non aveva voluto rivelare il padre.

Ci aveva pensato ogni tanto, mentre tornava a casa; e l’ultima volta che era dovuto andare a comprare le uova camminando quaranta minuti sotto il sole a picco se lo era ripromesso. Era un bel gesto in fin dei conti, una scintilla d’invenzione, qualcosa che valeva meravigliosamente la pena.

Prese la strada che usciva dal quartiere, con le mani sul manubrio. I campi incolti in periferia si distendevano per una vasta superficie irregolare: in attesa di diventare terreni fabbricabili erano stati invasi dall’erba alta fino a diventare un’oasi spontanea, popolata da una stratificatissima società di insetti e microorganismi che non attraeva. Meglio andare lungo le file dei meli. In lontananza, il calore delle lamiere mezzo arrugginite, che coprivano alcuni vecchi pneumatici in mezzo al campo, sembrava muovere l’aria. Dai margini della sua coscienza gli era nata la convinzione che una perfetta libertà d’azione qualche volta potesse spettare anche a lui, che un gesto calibrato, di solito così lontano dalla sua esperienza, potesse diventare infallibile grazie alla forza di un’intuizione. In quei momenti la realtà stessa che si mostrava nel paesaggio, le poche case sparse – una delle quali completamente circondata da una siepe alta due metri – acquistavano una diversa consistenza, e così perfino la sua condizione, in una sorta di reciproca e imperfetta appartenenza nella quale non c’era più posto per i litigi familiari. Per qualche breve istante pensava che avrebbe avuto un futuro simile a quello dei romanzi di avventura, o a quello di qualche protagonista della Rivoluzione francese.

I tre capannoni dello stabilimento di produzione uova, lunghi, privi di intonaco, costruiti e lasciati ancora al grezzo, sorgevano in mezzo a una grande area non coltivata a circa un paio di chilometri da casa sua, poco oltre un capitello e una stele commemorativa che ricordava l’enorme afflusso di fedeli radunatisi per seguire la celebrazione officiata da un arcivescovo il 16 ottobre 1864, nel corso della sua visita pastorale. Un raduno che aveva fatto epoca. Poco più avanti, lungo il marciapiede, due donne tornavano a casa. La prima era una vecchia contadina di cui si diceva che rubasse nei campi, l’altra era sua nipote, che aveva da poco finito le medie e che portava due scatole di uova e un insignificante bassotto al guinzaglio. La contadina aveva sulle spalle una grossa borsa di pezza, tutta sformata dal peso del contenuto. Quando vide la bici arrivargli vicino, il bassotto fu colto da un’improvvisa eccitazione che lo fece dare in escandescenza e pensare di abbaiare fino strozzarsi, ma che in effetti diede luogo ad un accesso di aggressività che si spense subito, in modo tipicamente bassottile. Passandogli a meno di un metro fu contento di osservare quella reazione: l’espressione più autentica della giornata, molto più concreta di quella delle sue accompagnatrici. C’era, infatti, un filo di disagio nell’aria, mentre sbrigava queste mansioni cui non poteva rassegnarsi a credere che la vita dei suoi fosse irrimediabilmente legata. Non c’era proprio nessuno in giro, nessuno con cui avrebbe voluto parlare.

Arrivato nel piazzale del primo capannone, girò a sinistra e andò ad appoggiare la bici sul  lato più lungo della costruzione, vicino alla porta d’ingresso. Entrò. Nell’anticamera dello spaccio, una sala grezza e scura con in alto una serie piccole finestre verticali (qualcuna senza vetro), si sentiva un forte rumore di fondo che proveniva attutito dalla porta del primo camerone. Un cartello faceva espresso divieto di avvicinarsi. A volte aveva pensato di darci un’occhiata, ma per varie ragioni non l’aveva fatto. In questa occasione, però, la pesante porta di metallo era solo accostata e la aprì quel tanto da mettersi dentro, a fianco dello stipite, riaccostandola di nuovo. In un primo momento, le dimensioni dello scenario lo stordirono.

Il chiasso infernale proveniva da tre batterie di gabbie, disposte una sopra l’altra, lunghe fino al fondo del capannone. Con quelle degli altri due stabili collegati dovevano contenere più di sette, ottocento galline in continuo movimento, dove il chiocciare era sopraffatto da schiamazzi più forti, l’esito dei tentativi di farsi largo in uno spazio tanto esiguo. L’aria mancava non tanto per l’odore, ma per qualcosa – forse la stessa sopravvivenza delle galline – che la toglieva lasciando in gola una strana polvere sottile, una patina che si depositava sulla trachea seccandola ancora prima che uno potesse essere indotto a tossire. Rimase in piedi, appoggiato al muro. Nello spazio davanti alle gabbie volteggiavano rare piume che poi andavano a depositarsi con poche altre in terra, oltre i canali di scolo. Lo spettacolo impressionava. Nelle gabbie, qua e là, si distingueva una gallina accovacciata, che le altre tentavano di scansare, finché a forza di urtarla e di calpestarla non si rimetteva in piedi. Qualche altra, la cui sopportazione aveva oltrepassato la misura, rimaneva ferma comunque. In mezzo a tutto questo, però, ciò che più lo colpiva non era tanto la condizione degli animali. Due ragazze di tre, quattro anni più di lui, con un fazzoletto in testa e con indosso dei camici celesti e sporchi si muovevano in silenzio avanti e indietro lungo le batterie, raccogliendo le uova dalle gabbie. Dunque l’aria si poteva respirare, era solo questione di abitudine. E qualcuno ci passava anche le giornate. Una di loro lo guardò per un istante, prima di tornare al lavoro. Lui esitò, ma scivolò subito nel limbo chiaroscurale dell’anticamera.

Se nello spaccio non c’era nessuno, un cartello pregava di suonare premendo il pulsante bianco: quasi istantaneamente un trillo ad alto volume richiamava dai cameroni l’addetta alle vendite. Rimase qualche minuto in attesa, restituito alla norma, ma ancora scosso, con la gola secca e l’odore fitto nel naso. I muri della sala dove era stato altre volte erano coperti più che dallo sporco, da una densa e graffiata patina di usura che nella parte inferiore li rendeva simili a delle pareti istoriate. L’arredo era limitato all’essenziale: un tavolo di legno, una sedia, un registratore di cassa e più in un angolo, su un altro tavolo, una macchina rettangolare che calibrava da sola la dimensione delle uova facendole scorrere a seconda del peso nel giusto canale, fino ad accumularsi sul fondo. Aveva già parlato altre volte con Carla, l’addetta alle vendite, una donna di cinquant’anni, alta, rossa in viso, di corporatura robusta e un poco claudicante, che fungeva anche da caposquadra delle ragazze nei cameroni. Abitava vicino alla casa di un fabbro. Entrando nello spaccio si scostò dalla fronte la frangia unta e passò dietro il tavolo. Gli chiese cosa volesse con un tono franco e cordiale, poi aprì la porta del magazzino, prese il contenitore posto più in alto sulla pila e glielo consegnò. Lui pagò con l’importo esatto che gli aveva dato sua madre (nella tasca sinistra teneva invece i soldi della zia) e dopo aver risposto in modo vago a una domanda di circostanza sui suoi, in breve fu di nuovo fuori, rincuorato alla vista della bici. Faceva molto caldo. Il disagio del sole si sommava a quello provato per il lavoro dei cameroni. Forse aveva sbagliato a sparire dalla loro vista così in fretta. Certo la libertà prendeva varie forme.

Con il vassoio di uova fra le mani il momento più difficile era quello di inforcare la bici. Le uova, ciascuna nella propria sede, restavano ferme, immobili, ma bisognava tenere una mano sotto il vassoio, come un cameriere, per prendere il manubrio con l’altra e staccare la bici dal muro. Vi salì sopra, fece tre, quattro pedalate sempre tenendo il vassoio con una mano, poi lasciò il manubrio libero e prese saldamente la confezione anche con l’altra. Il gesto dava davvero un senso di sollievo, di benessere, come se avesse esteso la superficie della realtà e l’avesse resa un po’ più piena. E la bici filava calibratissima, controllata col peso del corpo. Superò le prime curve e tornò sulla strada principale, peraltro poco trafficata. Il proprietario della casa circondata dalle siepi, che stava bagnando la strada con l’annaffiatoio perché non vi si sollevasse troppa polvere, si fermò d’un tratto a osservarlo con un’espressione inequivocabile: “Guarda che deficiente”. Poi, scuotendo la testa, tornò alla sua occupazione.

Sulla lunga curva a gomito, a destra, smettere di pedalare per controllare meglio la traiettoria non era un problema, premendo con un piede sopra l’arco del freno sulla ruota posteriore: il problema era riprendere il ritmo; ma ce la fece con discreta disinvoltura. Giocare a calcio, suonare la chitarra, leggere libri, incontrare gli amici, tutta la libertà era nel fare; e il lavoro, cui suo padre di tanto in tanto lo aveva chiamato, portava questo fare in un’altra dimensione, più chiusa e grave, ai suoi occhi non sempre beneficiata dal corrispettivo economico. Cosa si doveva essere arrivati a pensare, prima di entrare a lavorare nei cameroni? Si disse che in fondo quella era la loro condizione e che, in fin dei conti, sarebbe stata anche la sua. Raggiunse e superò di nuovo le due donne col bassotto, che nemmeno se ne accorsero.

Tutto ciò che lo circondava, in quella singolare tratta, non sembrava più composto da una cospirazione di particolari ostili o al più ininfluenti, ma come un insieme ordinato, quasi un pubblico composto – per lo più di natura vegetale – che seguiva lo svolgersi della sua impresa. Che bastardo era stato Robert a non fidarsi di lui, cambiando il nascondiglio in cui avevano riposto l’inserto di una rivista proibita che lui aveva rubato a suo padre (lungo il muro mezzo caduto in fondo al campo). E a non volerlo poi nel suo gruppo nelle esercitazioni di musica d’insieme del secondo quadrimestre. Era finito con due cugine grasse che ancora non avevano imparato a suonare il flauto, a dover fare tutto da solo: l’esibizione finale era andata come era andata. Anche qui si trattava, in diversa misura, dello stesso strazio. Ma sentiva che forse si sarebbe rifatto.

Arrivato a casa, evitò di passare per il piazzale occupato dalla legna ed entrò dalla strada sul retro, cercando di fare in modo che nessuno lo vedesse. Dopo aver frenato un po’, si avvicinò lentamente al muro, mise un piede a terra, poi anche l’altro e infine, per non dover ripetere la manovra del cameriere, lasciò cadere lentamente la bici sotto di sé, che finì per appoggiarsi al muro in malo modo, col manubrio girato al contrario. Si fermò ad osservarla per un momento: aveva garantito un risultato eccellente.

La madre e la zia erano sedute in cucina, sull’angolo della tavola. Parlavano sottovoce. La zia aveva pianto. Le ragioni erano facilmente intuibili. Uno dei suoi amici, un autista che beveva e con cui aveva vissuto per un po’ di tempo, sei mesi prima le aveva chiesto dei soldi in prestito che ora si rifiutava di restituire: le aveva detto che si sbagliava sugli importi e che lei qualcosa nel corso degli ultimi mesi aveva comunque già ricevuto. Dal modo in cui parlavano, che implicava la conclusione di una discussione violenta, capì che la madre aveva largamente esaurito la fase di rimprovero e che ora stava cercando di consolare la sorella. Sentì d’un tratto riaffiorare la fatica di quelle giornate, il senso di un ciclo familiare opprimente, le ragazze nei cameroni. Appoggiò il vassoio con le uova sul piano accanto al fornello del gas e cercò di andarsene alla svelta. Prima che sua madre finisse di dire “Ah, bravo” fu già sulle scale.

Qual era la necessità che le costringeva sempre dentro la catena di quei discorsi? Possibile che dovesse assistere ogni due giorni alla stessa scena?

Dal pianerottolo in fondo riprese il pallone da basket e se lo mise sotto la maglia. Poi partì di nuovo alla volta dell’area sportiva, con una nuova forma di raccoglimento in corpo e in mente più di una nuova impresa. Il paesaggio che aveva appena lasciato prendeva ora, nel percorso inverso, un’immagine mutata e veloce, incalzata dal ritmo dei pedali. Doveva ritrovare uno spazio in cui muoversi con agio, in cui riflettere e badare a se stesso, visto che doveva pensarci da solo.

Sull’asfalto del campo da basket, troppo caldo in quelle giornate, non c’era nessuno. Si mise alla lunetta con grande disciplina, facendo rimbalzare il pallone lentamente. Guardava il vecchio tabellone bianco con l’angolo scrostato. Sulle prime era nervoso, poi entrò lentamente in partita: tirava, poi riprendeva il pallone e si rimetteva a palleggiare, prima di tirare di nuovo. Se sbagliava un tiro, ripartiva da capo, con una concentrazione che assorbiva ogni risorsa, tesa verso il risultato. Era una giornata speciale, e così arrivò a metterne dentro sette di fila, che costituivano incontrovertibilmente il suo record e che per la sua vita rappresentarono una svolta significativa. O quasi.

 

[Questo racconto è opera di fantasia. Ogni riferimento a persone e cose è da ritenersi puramente casuale. W. N.]

 

Tratto da WWW.ZIBALDONI.IT del 26.01.2013

 

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