Il trilinguismo delle lettere “italiane” e altri studi d’italianistica

di Marco Leone

La genesi spirituale e autobiografica di questo libro è chiarita molto bene dal suo autore nella Notizia bibliografica e dimostra che esso è qualcosa di più di una semplice raccolta di saggi. È, piuttosto, l’ennesima attestazione di un amore viscerale per la letteratura che, nonostante l’età tanto avanzata, Mario Marti continua a coltivare con passione e dedizione. Più volte, nel corso di questi ultimi anni, Marti ha pubblicato alcuni suoi lavori sigillandoli con l’intenzione di chiudere definitivamente la sua lunghissima carriera di studioso: a partire dagli ormai lontani Ultimi contributi dal certo al vero (1995), per arrivare sino ai più recenti Salento quarto tempo (2007) e al suo volume più recente, Su Dante e il suo tempo con altri scritti di italianistica (2009). Questa sua intenzione è stata però, finora, sempre smentita dalla tenace volontà di approfondire ulteriormente alcuni territori della nostra tradizione letteraria a lui già molto cari (Dante, i Giocosi, gli Stilnovisti, in genere tutta la letteratura dei primi secoli), ma anche di scandagliarne di nuovi: una felix culpa, se così si può definire, che ci ha permesso di godere in modo opportuno di altri pregevoli frutti del suo impegno.

Ecco, se davvero si dovesse cogliere la cifra più autentica di questo libro, la si potrebbe individuare proprio in un’etica del lavoro assoluta e straordinaria e in una lezione di metodo storicistico rigorosa e coerente, che si sono sempre più affinate e consolidate nel corso degli anni; e in una fedeltà al “mestiere” di professore, di critico, di lettore, che Marti continua a esercitare sempre con grande responsabilità e senso del dovere, oltre che con ammirevole lucidità. Ma la si potrebbe ugualmente individuare anche nel criterio di una disposizione interna dei saggi, oramai usuale per lui (la coesistenza di studi dedicati ad autori maggiori e minori, in vitale e fruttuoso connubio, lungo un arco temporale che inizia da Dante e che giunge sino alla contemporaneità). Oppure, ancora, nella capacità di intersecare abilmente da parte sua, soprattutto in alcuni saggi del volume, la nota memorialistica e personale con la trattazione dell’argomento critico: una dinamica e gradevole combinazione, che ravviva e rafforza spesso l’oggetto dell’indagine, e che costituisce uno dei tratti peculiari della sua scrittura.


Sebbene il libro non sia articolato in sezioni, al suo interno è possibile ugualmente riconoscere un percorso cronologicamente scandito. La prima parte raccoglie, infatti, in forma compatta, interventi d’argomento dantesco e di letteratura antica e moderna, di recente pubblicazione o di prossima uscita, alcuni dei quali presentati in occasione di convegni o incontri di studio oppure composti per sollecitazioni stimolate dall’esame di importanti novità editoriali (è, questa, un’altra prova della continua e aggiornata militanza di Marti nell’ambito degli studi d’italianistica, significativamente esplicata anche nella sua ancor attiva collaborazione al «Giornale Storico»). La seconda parte contiene, invece, studi d’argomento novecentesco, con speciale riferimento alla poesia in lingua e in dialetto, insieme con commosse rievocazioni e puntuali ritratti di sodali e colleghi, che si sono distinti nella critica e nella cultura letteraria del XX secolo. Tutti questi interventi sono aperti dal saggio eponimo del volume, Il trilinguismo delle lettere “italiane”, che per spessore critico, per ampiezza di sguardo panoramico, per ricchezza documentaria, per innovazione metodologica è tra i più significativi dell’intero libro (e non a caso è collocato come abbrivio della rassegna di studi). Alla luce del contenuto di questo primo saggio (la dimostrazione dell’origine neolatina del trilinguismo e dell’esistenza di un triplice filone di letteratura italiana in volgare, in dialetto e in latino, parallelo e concorrente lungo il corso dei secoli, dentro una cornice unitaria), anche i successivi, infatti, paiono assumere un valore diverso, trovandosi inseriti in una peculiare visione storiografica: sia i primi, quelli dedicati a tematiche dantesche e ad autori di letteratura antica e moderna, sia gli ultimi, incentrati invece sulla contemporaneità.

Dante, la Commedia, la Vita Nova sono vecchi cavalli di battaglia di Mario Marti, che qui ne mette in rilievo, però, caratteristiche nuove e interessanti. Lo scritto sull’edizione della Vita Nova di Guglielmo Gorni è un notevole esempio di recensione-saggio o recensione-contributo, con la sua disamina dettagliata, meticolosa, e a tratti acuminata, di una procedura ecdotica che stimola il critico e il filologo a intervenire su taluni elementi del prosimetro dantesco, come la capitolatura o la grafia dei manoscritti, e ad apportare per questa via, per l’appunto, contributi inediti. Nella scia della riflessione “vitanovista”, lo studio sull’incipit del Convivio ricollega in modo sapiente e calibrato l’analisi del “cominciamento” del trattato all’intera sua struttura e al sistema complessivo delle opere dantesche, evidenziandone gli esatti confini, la rilevante portata programmatica e la serrata struttura logico-argomentativa di tipo scolastico. Ancora, nei due saggi sul Cocito e su Casella e Catone si propongono interpretazioni originali di due canti dell’Inferno e del Purgatorio, che puntano a illuminare aspetti solitamente trascurati dalla critica. Rispettivamente: il carattere non monografico del XXXII dell’Inferno, che, oltre la sua tradizionale fisionomia ugolino-centrica, è qui invece presentato come «pannello centrale» (p. 31), impregnato di urgenti spinte legate all’autobiografia e all’attualità storica, di un trittico che comprende anche i canti XXXI e XXXIII; e la sottolineatura dell’essenza drammatica, più che idillica e trasognata, del II del Purgatorio, che si invera nella figura di Catone e che è rivelatrice dell’autentica ispirazione del celebre canto, incardinato con evidenza su un duplice registro (patetico-affettivo e polemico-ammonitorio), ma precipuamente connotato, secondo la lettura profonda che ne fa Marti, da un senso di austera concezione morale, nonostante l’apertura lirica dell’incontro con Casella.

Un’altra zona di questa prima parte del libro riguarda, invece, la letteratura moderna, con affondi sul Leopardi di Saponaro e sulla poesia patriottica del Risorgimento, ma anche con una raffinata riflessione in forma epistolare sul valore sentimentale che si può attribuire alle scelte del critico. Anche in questo caso si tratta perlopiù di scritti ideati e realizzati per occasioni contingenti (seminari o incontri di studio), e qui riproposti in un diverso contesto. Ad esempio, il saggio sulla poesia patriottica problematizza, con il consueto rigore, alcuni snodi della dimenticata produzione lirica risorgimentale (concetto di unità nazionale, rapporti identità/unità, ecc.), attraverso una ricca esemplificazione di documenti in poesia e in prosa. Sempre lo stesso saggio si caratterizza, inoltre, per una compartecipe rivendicazione della spinta etica e pedagogica che la letteratura del Risorgimento seppe dare al processo di unificazione italiana, offrendo così, indirettamente, una generale prospettiva di significato anche agli attuali e sempre ricorrenti interrogativi sul ruolo e sulla funzione della letteratura di ogni tempo e sui suoi vitali intrecci con la storia. Gli altri due saggi si segnalano invece per una rilevante componente memorialistica nel racconto dell’esame critico. La datata biografia di Leopardi dello scrittore salentino Michele Saponaro è esaminata con gusto e con competenza da Marti. Egli, da esperto leopardista, ne coglie il tono affabulatorio e divulgativo, ma anche i costitutivi limiti dovuti all’epoca in cui fu scritta, e la proporziona a un preciso momento della storiografia leopardiana novecentesca, quello, di derivazione crociana, contraddistinto da un esclusivo interesse per il poeta degli idilli e dalla connessa sottovalutazione dell’ultima, non meno importante, stagione creativa di Leopardi. Ma tale riflessione critica parte proprio da un ricordo personale, l’acquisto di una copia dell’allora recente Leopardi di Saponaro, a Salerno, nel 1941, dove Marti si trovava per svolgere il servizio militare come Ufficiale Istruttore. Un andamento memorialistico e autobiografico si riscontra con accenti ancora più evidenti nella lettera all’amico Maurizio Nocera, in cui la risposta epistolare diviene pretesto d’avvio per private considerazioni sulle scelte professionali di una pluridecennale attività critico-filologica. La dichiarazione d’“amore” letterario qui contenuta per due specifici autori, come il maggiore Ariosto (l’Ariosto delle Satire) e il minore d’area salentina Rogeri de Pacienza, posti in correlazione per la loro peculiare visione della vita, chiama in causa non solo motivazioni ideologiche, ma anche ragioni quasi più domestiche e feriali, d’impronta psicologico-sentimentale. In più, la lettera ribadisce il vantaggio di uno studio letterario inteso non come arida e astratta applicazione, ma come appassionato e vitale, per quanto mai corrivo ed estemporaneo, arricchimento spirituale.

In qualche modo, la nota affettiva e umana punteggia pure i restanti saggi di tema novecentesco della seconda parte del libro, mai apparendo disgiunta, tuttavia, da un rigore ermeneutico di fondo. Nel saggio dedicato all’ultima raccolta poetica di Bodini (Metamor) ritorna, ad esempio, il consueto interesse di Marti per la cultura letteraria d’area salentina, teso questa volta a costruire un articolato percorso della poetica bodiniana, di cui la silloge surrealistica di Metamor è presentata come la tappa finale e forse meno riuscita. Inoltre, i due contributi sull’edizione del poeta Pietro Gatti, oltre a testimoniare l’amicizia di Marti con Gatti e a costituire un dittico complementare e integrativo, rappresentano, ancora una volta nella forma della recensione-saggio, un puntuale e consapevole inquadramento della produzione lirica in dialetto cegliese di questo autore e ne segnalano le fasi artisticamente più significative, con particolare attenzione a un settore di poesie inedite, magistralmente esaminate sotto l’aspetto metrico-linguistico (Gli inediti di Pietro Gatti e la sua arte versificatoria).

Tutti spostati sul piano della reminiscenza e della notazione autobiografica sono invece gli ultimi due saggi, prima dell’Appendice. I ricordi di un maestro, divenuto poi amico e collega (Spongano), e di un «compagno d’arme» degli studi d’italianistica (Bigi) ritraggono uno spaccato di umanità e di scienza e si intrecciano inevitabilmente con essenziali passaggi autobiografici, come gli anni pisani trascorsi alla «Normale», il contributo dato alla fondazione dell’Università di Lecce e l’esperienza, ancora perdurante, di condirettore del «Giornale Storico». Il vincolo della colleganza e della solidarietà amicale con Spongano e con Bigi non offusca mai, però, la limpidezza della ricostruzione storica; e così, attraverso il filtro del racconto di Marti, si delineano compiutamente le figure di due esponenti di spicco della critica letteraria del Novecento, rievocati con vividezza e compartecipazione, senza, però, mai scadere nella convenzionale retorica della celebrazione necrologica o del freddo omaggio accademico. Questo affabile tono prosegue nell’ultimo studio dell’Appendice, un po’ eccentrico rispetto a questioni strettamente letterarie, perché concepito come arguta postfazione a una raccolta in più tomi di annunci e cronache di matrimoni salentini della Belle Époque (e perciò relegato nel libro in una sua propria autonoma sede). Ma esso è comunque riconducibile all’insieme dei restanti saggi per una duplice ragione, di contenuto e di stile: l’attenzione alla cultura e alla storia dell’amato Salento, che percorre buona parte del volume e che è qui investigata in una sua singolare declinazione (di carattere sociale-antropologico); e il ricorso ancora una volta alla scrittura epistolare, utilizzata quale strumento di comunicazione scientifica snello ed estremamente immediato, insieme con l’utilizzo di una prosa sempre cordiale e avvolgente, intessuta spesso anche di espressioni idiomatiche o proverbiali («Se bella vuoi apparire, un poco devi soffrire», p. 94) e di appelli diretti al lettore («O mi sbaglio?», p. 96), spesso corroborata dall’inserto del ricordo personale (quello del matrimonio dei genitori di Marti, assai povero al confronto dello sfarzo degli sposalizi nobiliari descritti nei volumi presi in esame; o della sua frequentazione, durante la prima giovinezza, di alcune agiate famiglie di Soleto, lì ricordate).

Resta da dire, in conclusione, che questo libro, stampato con professionalità e disponibilità per i tipi dell’editore Congedo di Galatina, ha preso forma e vita in numerosi colloqui a casa Marti, sempre per me piacevolissimi e proficui, grazie all’inesauribile entusiasmo e alla sempre fervida e pulsante tensione progettuale del suo autore, che ha voluto a lui associarmi per la cura redazionale dei testi e per la necessaria supervisione dei criteri editoriali. Del che lo ringrazio molto, perché ha consentito così che anche il mio nome si inscrivesse in questa sua altra impresa, dono certamente utile per l’intera comunità degli studiosi e preziosa testimonianza di una mai interrotta e ancora fertile consuetudine con gli studi letterari.

Lecce, settembre 2011

[Introduzione a Mario Marti, Il trilinguismo delle lettere “italiane” e altri studi d’italianistica, cura di Marco Leone, Galatina, Congedo Editore, 2012, pp. V-XI]

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