di Antonio Errico
John Keating, insegnante di letteratura al collegio Welton, durante una lezione sale sulla cattedra e dice: “Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a veder voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva”.
Ecco. Un’altra prospettiva. Molte altre prospettive. Probabilmente si può conoscere soltanto in questo modo, cambiando le angolazioni da cui si guardano le cose, gli accadimenti, le vicende, integrando le prospettive. Più sono complesse le storie e più diventa urgente assumere una pluralità di prospettive.
Come in tutte le cose che riguardano l’umano, è la condizione del tempo che decide. Il tempo che attraversiamo, si sa, è impastato con la condizione della complessità, dei codici multipli, delle molteplicità di elementi che a volte convergono ed a volte divergono, che non di rado diventano anche conflittuali. Le relazioni tra civiltà si fanno più intense e di conseguenza si caricano di problematicità. Un solo punto di vista non può consentire di comprendere il pensare dell’altro, il suo agire, i suoi bisogni, i suoi sogni, le sue speranze e le sue disperazioni. Un solo punto di vista non consente di comprendere neanche noi stessi, soggetti a continui mutamenti determinati dalla natura e dalle situazioni della cultura.
Ha ragione il professor Keating: quando si cambia il punto di vista, il mondo appare diverso. Ci si accorge, spesso con stupore, che il mondo non è come noi lo pensiamo, che non sono come le pensiamo le genti che lo abitano, che i racconti che il mondo fa di se stesso possono avere innumerevoli trame e innumerevoli intrecci e infinite interpretazioni. Quando si cambia il punto di vista ci si può anche accorgere, all’improvviso, che quello che ci sembrava molto lontano è invece molto vicino e quello che ci sembrava vicino diventa molto lontano, estraneo anche, indifferente.
Allora cambiare il punto di vista significa rendersi conto dell’assoluta relatività delle nostre concezioni, delle nostre culture. Anche delle nostre bandiere. Anche delle nostre passioni. Significa comprendere che nella conoscenza nulla è mai definitivo, che è sempre tutto provvisorio, tutto sottoposto a costante mutazione, perché così è la vita, ed esistere e conoscere sono una cosa sola.
Probabilmente, in questo tempo, più che in qualsiasi altro tempo, si avverte in modo prepotente la necessità di guardare la realtà da diversi punti di vista, da molte prospettive, di superare i confini culturali, di sfondare le barriere ideologiche e valoriali dalle quali – anche comprensibilmente – ci sentiamo protetti ma che in sostanza ci impediscono di entrare in una dimensione di confronto, di incontro con tutto quello che pensiamo altro da noi, oltre di noi.
Non possiamo neppure rifiutarci di lavorare ad una sistematica revisione del significato di altro e di altrove.
Qualche tempo fa, ritrovandomi davanti un libro che il risvolto di copertina catalogava fra le storie dell’estremo Oriente, consideravo che si trattasse di una catalogazione impropria, fuorviante, perché assumeva un punto di vista in base al quale una condizione geografica e culturale veniva collocata in una posizione estrema, al limite.
Era fuorviante per almeno due ragioni. La prima consiste nel fatto che un lettore che noi consideriamo dell’estremo Oriente non potrebbe riconoscersi in quella collocazione. La seconda consiste nel condizionamento che quella catalogazione inevitabilmente determina in qualsiasi lettore.
Ancora. Noi diciamo Finibusterrae. Un’altra estremità. Un altro luogo del limite. Un altro confine. Diciamo che la terra finisce a quel punto, che oltre c’è l’esperienza dell’incognita del mare.
Ma colui che dal mare viene verso la riva, di Finibusterrae dice l’esatto contrario. Dice che la terra comincia a quel punto, che a quel punto si conclude l’esperienza del mare.
Sì, ha ragione il professor Keating: quando si cambia il punto di vista, il mondo appare diverso. Anzi, si potrebbe dire che è soltanto quando si guarda da diversi punti di vista che si può avere una percezione della complessità del mondo e delle sue rappresentazioni e, di conseguenza, si può avere percezione dell’errore pericoloso che si commette quando lo si guarda da un’angolazione e basta.
Tutte le volte che ho visto l’Attimo fuggente, il film con il grande Robin Williams, ambientato nel 1959, mi è venuto di pensare che nella scena che citavo all’inizio, John Keating avrebbe potuto fare un riferimento alla metafora che Henry James elabora nella prefazione al “Ritratto di signora”, pubblicato a puntate tra il 1880 e il 1881. Sarebbe stato facile per lui trovare una relazione fra “la casa della narrativa” e le innumerevoli prospettive da cui si può e si deve guardare il mondo.
La casa della narrativa di cui dice James, non ha una finestra sola ma un milione, un numero quasi incalcolabile di possibili finestre, ognuna delle quali è stata aperta o è ancora da aprire, in relazione alla necessità o alla volontà della visione.
Queste aperture, di forma e misura dissimili, danno tutte sulle scena umana. Sono finestre oppure meri fori di un muro morto, sconnessi, collocati in alto; non sono porte coi cardini che si aprono direttamente sulla vita. Ma hanno questa caratteristica, che ad ognuna di esse c’è una figura con un paio d’occhi, o almeno con un binocolo, che costituisce uno strumento unico di osservazione e che assicura a chi ne fa uso un’impressione distinta da ogni altra. Lui e i suoi vicini osservano lo stesso spettacolo, ma uno vede di più là dove un altro vede di meno, uno vede nero là dove un altro vede bianco, uno vede grande là dove un altro vede piccolo, uno vede rozzo là dove un altro vede delicato.
Lo spettacolo del mondo cambia a seconda del punto da cui lo si guarda. Se si resta fermi a guardare le proprie scarpe mentre si avvicendano le albe e i tramonti, mentre passano le stagioni e cambia tutto quello che c’è intorno, senza mai alzare gli occhi ad osservare quello che accade, senza accorgersi che davanti ti passa gente che non conosci, che parla una lingua diversa, che crede in un altro Signore del cielo e della terra, si perde tutta la bellezza dello spettacolo del mondo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, martedì 27 giugno 2017]