Vie traverse 7. La via della Latronica

di Gianluca Virgilio

Nuova uscita in scooter

Dovevo aspettarmelo. Avendo saputo che l’ex-macello lungo la via del “Villaggio azzurro” non era che un’appendice del canile comunale, prima o poi dovevo aspettarmi la richiesta di Sofia di visitare il nuovo canile. Del resto, glielo avevo promesso. E infatti la sua richiesta è giunta puntuale, qualche giorno dopo l’ultima nostra passeggiata. Ci eravamo informati bene e avevamo appreso che il canile comunale, quello vero, era stato costruito già da qualche anno –ma dove viviamo noi, che non ne sapevamo niente?– lontano dal centro abitato, in fondo alla via della Latronica. E così ieri pomeriggio Sofia ha proposto una nuova passeggiata in scooter. Quando si tratta di fare un giro in scooter io non rifiuto mai, soprattutto se posso farlo con una delle mie figlie. So che fra qualche anno, per legge di natura, prenderanno il volo, e quindi ne approfitto per stare insieme a loro ora che sono piccole. Stavolta, quando io e Sofia abbiamo deciso di uscire, in casa c’era pure Giulia, che, sapendo dove eravamo diretti, per nulla al mondo avrebbe acconsentito a farci partire senza di lei. Essendo in tre, avrei dovuto prendere la macchina, giusto? Ma allora ci saremmo persi la passeggiata in scooter, che è essenziale non solo per vedere le cose, ma per esserne parte. In effetti, finché si è in macchina, si rimane nello stato dello spettatore televisivo, protetti in questo prolungamento della nostra casa che è l’automobile. Mentre in scooter è tutt’un’altra cosa. Allora, dal momento che abitiamo molto vicino all’imbocco della via che conduce alla Latronica e che in una strada di campagna di sicuro non avremmo incontrato alcun vigile, ed essendo il sellone del mio scooter assai lungo e comodo anche per tre, calzati i caschi, superato infine l’ultimo ostacolo delle querimonie di mia moglie Ornella – ma come, in tre sullo scooter, ma siete pazzi? -, ci siamo diretti alla volta del canile comunale.

Il casello ferroviario

La via della Latronica si imbocca all’altezza dell’Ospedale, dove la strada si divide a forma di Y, proprio come il lago di Como. Da una parte si va verso la contrada Tabelle, dall’altra si va verso la Latronica, che è il nome di una delle masserie più lontane dal centro abitato.

Nel primo tratto, si percorre una strada stretta cui fanno ombra molti alberi fronzuti, alberi di bella vista, piantati entro alti muri di cinta che chiudono le ultime ville suburbane e impediscono la visione del paesaggio; così fin quasi al casello incustodito della ferrovia che da Galatina porta verso Galatone. E’ lì che ci siamo fermati, facendo la prima tappa. Avevo alcune cose da raccontare a Giulia e Sofia. Ho detto loro che il casello costituiva per noi ragazzini di dieci, dodici anni, l’ultima meta delle nostre escursioni extraurbane in bicicletta. La casa del ferroviere, una costruzione a due piani, con i locali di sotto adatti al servizio e quelli di sopra per la famiglia, trent’anni fa era già disabitata – evidentemente sin da allora si era proceduto alla cosiddetta razionalizzazione delle risorse umane, cioè ai licenziamenti dei lavoratori -, ed era tutta a nostra disposizione. Non c’è nulla di più bello per un ragazzino che intrufolarsi in una casa disabitata, dove ci può essere di tutto, salvo poi accorgersi che non c’è proprio niente, se non scritte oscene, resti organici e strani palloncini trasparenti e sgonfi lì dimenticati dai ragazzi più grandi. Però, sapersi in compagnia dei propri coetanei in un luogo che l’adulto ha dismesso e abbandonato, sentirsi tra quelle mura come lontani dal mondo, incogniti e soli, invisibili agli altri, padroni del mondo, è una sensazione che solo a quell’età può essere provata. Ho rivisto nella mia mente con qualche tremore due ragazzini, nascosti dietro una finestra senza vetri, in attesa della littorina, pronti a provare l’effetto delle ruote d’acciaio al cozzare di due pietre poste sulle rotaie. Ora l’ingresso della casa ferroviaria è murato e dunque nessun ragazzino, e tanto meno i più grandi, potrebbe penetrare in quell’edificio misterioso. A destra ricordavo una stradicciola sterrata che lambiva una masseria e portava ad un boschetto di lecci, di pini e di eucalipti, anche questo meta delle nostre passeggiate, ma solo quando siamo diventati più grandicelli, a tredici, quattordici anni, essendo quel boschetto un po’ lontano dalle ultime case del paese. Ora la stradicciola non c’è più, la terra è arata, c’è un recente impianto di vigna, e si intravede appena una gran villa immersa negli alberi, lontana e inaccessibile.


Oliveto

Abbiamo proseguito per la via della Latronica. Il paesaggio, dopo il casello, cambia rapidamente. Il frazionamento del latifondo ha mutato solo in parte l’antico assetto del territorio, sicché dopo un tratto di un paio di chilometri, dove l’ulivo è stato spiantato per lasciar posto ai seminativi e alle coltivazioni di tabacco, comincia l’oliveto secolare. Questo bosco d’olivi nei tempi passati doveva servire bene alla bisogna, qualora qualche furfante avesse voluto sottrarsi alla giustizia, ben nascosto in uno dei mille pajari che un tempo erano l’unica architettura rurale visibile della zona. Se non fosse che Latro era il nome di una vecchia famiglia che colonizzò la zona, mi piacerebbe pensare che Latronica derivi da latro, latronis, nome latino con cui si designava il soldato mercenario e, per estensione, il ladro. Ci siamo fermati per la seconda volta dove il bosco era più fitto. Ho spento lo scooter. Dà un senso di sgomento il silenzio d’un bosco di olivi; che poi silenzio non è, poiché la cicala qui crea lo sfondo continuo di ogni sensazione uditiva, mentre di tanto in tanto la gazza innesta i suoi a-solo con voce gracchiante, rompendo quella monotonia e mettendoti inutilmente in allerta. La vedi saltellare su un pajaro semidiruto o sopra le pietre ammassate disordinatamente ai bordi della strada, quelle pietre che un tempo il contadino paziente cavò dalla terra col piccone per far posto alle piante e dispose una sull’altra in modo sapiente per farne muretti a secco non più alti di un metro.

– Papà, proseguiamo? -, ha chiesto Giulia sgomenta di quella solitudine, mentre Sofia rimaneva in silenzio. Ho rimesso in moto e siamo ripartiti.

Dopo pochi metri ricompare la segnaletica, che conduce, se si va diritto, verso la masseria della Latronica, mentre a destra si innesta un’altra via che porta, come avvisa un cartello stradale, verso un Bed & Breakfast. Secondo le indicazioni che avevo assunto, era quella la direzione giusta. Nessun cartello, infatti, né in paese né in campagna, avverte dell’esistenza di un canile comunale. Abbiamo svoltato a destra, seguendo la strada che taglia il bosco di olivi. Dopo un paio di chilometri, superato l’oliveto, ecco in lontananza delinearsi il profilo di una bianca ed estesa costruzione, fatta di tante casupole basse messe una dopo l’altra dentro un recinto metallico invalicabile.

– Il canile! – ha esclamato Sofia, fiera di annunciare lei per prima la scoperta del luogo ricercato.

– Guardate, poco oltre c’è una masseria -, ha detto Giulia.

– Bambine, quella è la masseria della Latronica. Ci siamo giunti facendo un giro diverso, ma vi garantisco che è proprio quella.

Avrei voluto far vedere alle mie bambine la masseria che avevo riconosciuto per esserci stato già in altra occasione, ma siccome la meta della nostra passeggiata era il canile, ci siamo fermati davanti al cancello d’ingresso. Il cancello era chiuso con tanto di lucchetto, ma l’orario per il pubblico affisso all’inferriata ci avvertiva che noi eravamo in tempo per la nostra visita. Un nugolo di cani abbaianti ci ha accolto, richiamando l’attenzione del custode.

 

Visita al canile

Il giovane ci ha chiesto cosa volessimo, come se fosse una cosa insolita visitare il canile comunale, e alla nostra esplicita richiesta ci ha aperto il cancello, rassicurandoci sulla mitezza dei cani lasciati liberi di circolare nell’ingresso. E così è iniziata la nostra visita al canile comunale, scortati dal custode, un giovane affabile dalle braccia piene di tatuaggi. Più in là, ci ha salutato distrattamente un giovane albanese, un altro guardiano, intento a innaffiare un fazzoletto di peperoni.

Dopo aver aperto un secondo cancello, il guardiano dei cani ci ha fatto accedere ad una piattaforma in cemento che divide in due parti il canile: a destra e a sinistra, entro recinti metallici ben chiusi, si affacciano le casette bianche dei cani, divisi secondo vari criteri: la taglia, l’aggressività, lo stato di salute. Giulia mi ha indicato un gruppo di cani all’apparenza privi di ogni connotato particolare, ma che in realtà –e lei se ne era accorta guardandoli attentamente– erano tutti ciechi. Se ne stavano lì, in quella gabbia, annusando l’aria, ben consci che qualcuno faceva loro visita, scodinzolando. In una gabbia il custode ci ha indicato un piccolo cane che si era messo a capo di una muta di almeno quindici cani molto più grossi di lui, impartendo loro ordini e tenendoli a bada. Poi c’era il recinto dei cuccioli, presenti solo perché la madre era incinta al momento dell’ingresso nel canile Infatti, la riproduzione all’interno è vietata e tutte le femmine sono sterilizzate.

– Papà, guarda lì, quel pastore maremmano! – mi dice Sofia.

– Lo abbiamo trovato che aveva per collare un filo di ferro spinato – ci spiega la nostra scorta e aggiunge: – E’ il cane più pericoloso del canile e bisogna stare attenti quando gli si porta da mangiare.

Il custode ci mostra tutti i cani in isolamento, pit bull, mastini, bulldog, abbandonati da padroni troppo volubili.

– Ci sono quasi seicento cani in questo canile – ci dice, – ogni settimana viene il veterinario e li cura, sono tutti vaccinati e ognuno ha il suo microchip sottocutaneo.

– Sapevo che, un tempo, ai cani che nessun padrone reclamava, veniva praticata una iniezione letale – ho detto alla nostra guida.

– Quelli erano altri tempi – mi risponde, – qui i cani muoiono solo di morte naturale. Ci sono cani che sono qui da cinque, sei anni.

M’ero scordato, quand’ero ragazzo, la paura dell’accalappiacani, che mi portasse via il mio cane, Bulka, quando fuggiva via di casa dietro alle cagnette, e le manifestazioni dei verdi contro la pratica barbara di uccidere il miglior amico dell’uomo. La nostra guida, invece, mi richiamava ad una realtà ben diversa, in cui tutti i cani avevano diritto di vivere la loro vita, di avere ogni cura, di essere trattati umanamente, il che poi significa vivere rinchiusi in un lager, impossibilitati a riprodursi.

Il custode voleva aprirci anche un terzo cancello, ma noi ne avevamo abbastanza. I cani abbaiavano a più non posso, in preda all’eccitazione derivante dalla nostra presenza di estranei; e così siamo ritornati indietro, verso il primo cancello. L’albanese ha sollevato il capo dai peperoni per risalutarci.

 

Una discarica, un parco giochi e un Bed & Breakfast

Mentre uscivamo, guardo alla mia destra e vedo, a ridosso del canile, un terrapieno, una montagnola alta poco più di due metri oltre il livello del terreno circostante, cui portava una strada ben mattonata, come fosse l’ingresso di una gran villa. Sennonché, un cancello di ferro chiuso da un grosso lucchetto arrugginito sbarrava la strada. Ho chiesto qualche ragguaglio al guardiano intento a chiudere l’ingresso del canile alle nostre spalle.

– E’ una discarica di rifiuti, colmata qualche anno fa, e sopra ci hanno costruito un parco giochi per bambini.

Ecco una nuova meraviglia per Giulia e Sofia. Oltre il bosco d’olivi, in aperta campagna, a ridosso del canile comunale, cosa ci poteva essere di meglio che un parco giochi per bambini? Il fatto è che la strada era sbarrata, il parco era chiuso e ci era data solo la possibilità di sbirciare attraverso il cancello. Era come ci aveva detto il custode del canile. Sulla montagna di rifiuti qualcuno, certo un tale la cui intelligenza sovrasta le cime più alte dell’ingegno umano, aveva pensato di coprire la vergogna dei nostri infiniti rifiuti nel modo più innocente possibile, costruendo un parco pubblico per bambini, con tanto di scivoli, di altalene e di altri giochini, distribuendo tutt’intorno alberi di bella vista, o meglio, che sarebbero stati di bella vista se una strana dimenticanza –a chi spettava l’onere di innaffiarli?- non li avesse resi tutti rigorosamente secchi. Nessun cartello con l’orario di apertura, solo un lucchetto arrugginito per impedire l’accesso. Una discarica accanto a un canile? Certo, la contiguità dei luoghi non poteva dare adito a dubbi sulla coerenza della scelta fatta dai nostri amministratori. In fondo, cos’è un canile, se non un luogo dove vengono scaricati i cani, di cui non vogliamo più prenderci cura e che continuiamo a nutrire a spese pubbliche per salvaguardare la nostra coscienza di uomini infidi?

Giulia e Sofia mi hanno guardato incredule, deluse e senza parola. Ci siamo rimessi i caschi prima di ripartire. Il giovane guardiano dei cani ci ha salutato sollevando le braccia tatuate e ce ne siamo andati, lasciandoci alle spalle Latronica, canile e discarica con annesso parco giochi per bambini.

Giacché eravamo giunti fin lì, tanto valeva dare un’occhiata al Bed & Breakfast, che doveva essere non molto lontano dal luogo dove ci trovavamo. E infatti, rientrati nel bosco, dopo pochi metri ecco un altro recinto, un muro alto delimitante un parco di pini e palme. La visione dell’interno è impedita e così pure il resto del paesaggio. Avremmo dovuto suonare il campanello? Per far che? La parte dei curiosi?

Basta, per quel pomeriggio avevamo visto fin troppe cose. Era tempo di tornare a casa da Fox, il nostro cagnolino. Avremmo raccontato tutto a Ornella, che di sicuro nel frattempo era in pensiero per noi.

[2005]

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