Vie traverse 6. La via del Villaggio azzurro

di Gianluca Virgilio

Nuovo risveglio

Stamani, appena sveglio, mentre ero ancora a letto, Sofia mi ha detto che a scuola tutti i suoi compagni hanno visitato il canile del nostro Comune e che solo lei non ci è mai stata. Mentre mi diceva queste cose con aria dispiaciuta e piagnucolosa, mi dava dei baci, ed io ho capito subito dove andava a parare “la strategia dei bacetti”, come la chiama lei: voleva che la portassi a visitare il canile. E siccome oggi è il mio primo giorno di vacanza e dai buchi della tapparella la luce intensa del mattino annunciava una giornata soleggiata, allora ho accettato di fare un giro con lo scooter in sua compagnia.

Uscire di casa in una bella giornata di giugno, sapendo che la scuola è finita, è come respirare a pieni polmoni un’aria finissima e stare bene con se stessi e con gli altri. Stamattina poi c’era una tramontana leggera che temperava gli effetti del sole, in questa stagione già molto forte, e questo invogliava a fare un giro nei dintorni.

 

La via de li Piani

Credevo di sapere che il canile si trovasse un chilometro fuori dell’abitato, sulla via del “Villaggio azzurro”, detta anche “la via dei Piani”. Perciò abbiamo imboccato quella strada, lasciandoci alle spalle le ultime case del paese, che negli scorsi vent’anni si sono espanse notevolmente anche in questa direzione. Appena fuori, distanti non più di ottocento metri, si vedono a sinistra i tetti delle cappelle maggiori del cimitero, e a destra i primi seminativi e le case di campagna, gli orti e i frutteti; tutta terra strappata col piccone al suolo pietroso, detto cozzi, forse dal cozzare del ferro sulla roccia che faceva il nostro contadino non molto tempo fa. Ho detto a Sofia del doppio nome di questa strada e lei si è stupita che una strada avesse un doppio nome. Le ho spiegato che “la via de li Piani” è il nome più antico, perché quella distesa di pietra dove cresce il timo, la menta selvatica e la rucola (i “Piani”, appunto) c’è sempre stata, mentre il “Villaggio azzurro” è stato costruito all’incirca cinquant’anni fa e solo da allora c’è chi chiama quella strada “la via del Villaggio azzurro”.

– Davvero c’è un villaggio tutto azzurro? – mi ha chiesto Sofia, ed io non ho fatto in tempo a rispondere, che già ci eravamo arrivati e lei poteva constatare da sé il grado di veridicità di quell’aggettivo.

In effetti, di azzurro il villaggio in questione non ha proprio nulla né io ricordo che abbia mai avuto questo colore, almeno non negli ultimi vent’anni. Ho mostrato a Sofia una specie di campo di concentramento abbandonato, come quelli che si vedono in televisione nei film su Auschwitz, con tanto di rete metallica sormontata da filo spinato che ricinge il villaggio fatto di appartamentini anneriti e scrostati, coi vetri rotti che lasciano intravedere, a chi passa per la strada, degli interni pieni di scritte oscene e sporcizie varie. E’ evidente che il villaggio è meta di visitatori notturni; e difatti, poco oltre, Sofia mi ha additato un ampio buco nella rete, dal quale si può facilmente penetrare nel villaggio. Mia figlia non si dava pace. Voleva a tutti i costi sapere che ci facesse lì, nell’immediata periferia cittadina, un villaggio abbandonato e soprattutto perché io mi ostinassi a chiamarlo “Villaggio azzurro”, quando di azzurro lei non vedeva altro che il cielo sopra di noi. Ho dovuto fare appello a ciò che ho sempre sentito dire in proposito, e un po’ anche alla fantasia, che è il modo migliore, a volte, di dire le cose. Ho raccontato che il “Villaggio azzurro” era stato costruito per ospitare i dipendenti del locale aeroporto, sede dell’aeronautica militare, chiamata, come si sa, arma azzurra; ho aggiunto che probabilmente un tempo, quando il villaggio fu costruito, era tutto dipinto d’azzurro (e qui lavoravo di fantasia) e che solo a seguito dell’abbandono i muri si erano anneriti per l’umidità.

– E come mai non ci abita nessuno?

– Perché le persone che dovevano vivere qui hanno preferito abitare in un altro villaggio, che ora sorge nei pressi dell’aeroporto.

– Allora questo si dovrebbe chiamare il “Villaggio nero” – ha concluso Sofia.

Non potevo raccontare a mia figlia tutto quello che mi veniva in mente guardando i muri scalcinati del “Villaggio azzurro”, l’uso che facevano di quegli ambienti non pochi giovani agli inizi degli anni ottanta, dopo che era stato abbandonato, i drammi che in esso si sono consumati; sicché quel nome, “Villaggio azzurro”, anche a me sembrava una grottesca e beffarda antitesi rispetto al nome che avrebbe meritato di avere, come il luogo in cui si concentra una parte del rimosso cittadino e che, proprio in quanto rimosso, rimane lì da decenni tra l’apparente noncuranza generale. Sofia aveva ragione: il “Villaggio azzurro” meritava senz’altro il nome di “Villaggio nero”.


Il circuito di moto cross

Procedendo, abbiamo sentito un gran rombo di motori spinti in forte accelerazione e, voltandoci a sinistra, ecco alcune motociclette da cross saltare sulle cune del campo, già ben visibile a causa degli pneumatici messi uno sull’altro per segnalarne il tracciato. Essendo la pista molto asciutta e la giornata ventilata, la polvere sollevata dai motociclisti giungeva fino alla strada e allora io e Sofia ci siamo fermati sopravvento per assistere a qualche giro della gara. E’ impressionante vedere questi spericolati guidatori fare salti di tre o quattro metri e ricadere incolumi sulle loro moto, o inclinati nelle curve tanto da toccare terra con le ginocchiere, riuscire sempre a cavarsela prima di fare la tirata nel rettilineo finale. Sofia era a bocca aperta.

– Papà, ma non hanno paura a fare quei salti?

– Forse, all’inizio, ma poi saltando la paura viene meno e pensano solo a vincere.

Ecco un luogo della mia giovinezza, dove ho trascorso interi pomeriggi intento a seguire le imprese di Corrado (nomen omen), pioniere del cross cittadino, e i salti di altri temerari. Il campo è stato rifatto e senza dubbio è migliore di quello che ricordavo. Ora c’è anche una torretta da dove è possibile avvistare i piloti in difficoltà in qualunque parte del circuito.

– Papà, andiamo a vedere i cani?

Sofia era già stufa di assistere a quei salti che si ripetevano sempre uguali e mi richiamava allo scopo della nostra passeggiata.

– Guarda, i cani stanno in quel recinto.

Le ho additato una costruzione, chiusa da una cancellata, dietro la quale in lontananza si vedevano gli animali in movimento.

Dietro il cancello

Così, attraversata la nuvola di polvere che i piloti sollevavano e che il vento portava fino alla cappella di Sant’Anna, siamo arrivati presso il cancello del canile, ubicato in quello che una volta era il macello comunale. Subito una ventina di cani di tutte le taglie ci hanno accolto abbaiando, correndo verso di noi da ogni parte del cortile e trattenendosi dietro il cancello. Nessun ringhio, ma solo un abbaìo felice di cani contenti che ci fosse qualcuno da salutare, di sentirsi in compagnia. Sofia era estasiata. Un cartello proibisce di dar loro da mangiare. All’interno si vedono vecchie sedie e tavoli di scuola accatastati alla rinfusa. Ho raccontato a Sofia che un tempo lì si macellavano le bestie.

– Per fortuna i cani non lo sanno.

– Chissà – le ho risposto io, scherzando.

Abbiamo chiesto delle informazioni a una donna, una dipendente comunale, che, messa in allarme dai cani, si era avvicinata al cancello. Ci ha detto che da qualche anno c’è un nuovo canile comunale in contrada Latronica, dove sono accolti più di cinquecento cani, e che ora ci trovavamo in una specie di succursale del canile comunale, dove vanno a finire i cani che non trovavano posto nella nuova struttura.

Sofia era stata attratta da un cucciolo di qualche mese, che sembrava richiedere le sue attenzioni. Ho capito che la cosa si stava mettendo male e le ho proposto di proseguire.

– Papà, prendiamo con noi questo cane?

– Ma noi abbiamo Fox, e non possiamo tenere un altro cane.

Ho visto le prime lacrime scendere veloci sulle gote di mia figlia e ho capito che era troppo tardi per impedirle di piangere. Il pianto dei bambini ha qualcosa di disarmante che lo rende a sua volta un’arma terribile; in esso tutto il dolore del mondo sembra condensarsi in un attimo ed esprimere immediatamente il sentimento di ciò che ci mancherà per sempre perché non lo potremo mai avere. Tale era l’effetto del mio “no” a mia figlia.

Mentre lei piangeva e si disperava, per distrarla, le ho mostrato una lunga striscia bianca che taglia in due “i Piani” e che passa proprio a ridosso dell’ex-macello, proseguendo verso ovest.

– Vuoi sapere cos’è quella striscia di tufo bianco? Andiamo e te lo dirò.

Abbiamo salutato la donna e ci siamo allontanati dal cancello. Ho dovuto promettere a mia figlia che un giorno avremmo visitato il nuovo canile comunale in località Latronica; e già Sofia, dopo aver soffiato il naso nel fazzoletto, aveva smesso di piangere e guardava il tracciato bianco della nuova strada in costruzione.

Triste destino dei nostri vecchi contadini! Per secoli si sono rotti la schiena per bonificare la zona, togliendo a forza di piccone innumerevoli lastre di pietra, ed ora in pochi giorni la strada distrugge tutto il loro lavoro, la terra resa fertile, seppellendola sotto tonnellate di materiale di riporto che i rulli compressori provvedono a schiacciare per rendere stabile il fondo della futura circonvallazione. Che farci? Presto, percorrendo questa strada, vedremo aprirsi nuovi paesaggi, e chi si ricorderà più di quello che c’è sotto?

 

Cementificio

Sofia mi ha chiesto che la portassi in direzione del cementificio, le cui torri costituiscono ormai da un cinquantennio un punto di riferimento per tutto il territorio circostante per un raggio di almeno dieci chilometri. Che tu stia a San Donato o a Corigliano d’Otranto, a Collepasso o a Neviano, a Cutrrofiano o ad Aradeo, sempre potrai vedere lontano lontano le torri della cementeria di Galatina. Le ho raccontato che un tempo qui intorno era tutto bianco, alberi e case, anche i prati erano bianchi, perché il cementificio non era ancora dotato di filtri depuranti e tutta l’aria era piena di polveri, tanto che le persone ad un certo punto si sono ribellate e ci sono state riunioni, assemblee, proteste, raccolte di firme, petizioni, eccetera. Poi, finalmente, i padroni della fabbrica hanno provveduto a sanare la situazione che si era fatta davvero incresciosa. Ora, man mano che ci si avvicina a questi impianti, il verde diventa la tinta dominante, alberi di alto fusto costeggiano la strada maestra, tutto sembra pulito pulito, qualcuno pare che ci abiti anche d’inverno, e molti vi trascorrono la villeggiatura estiva nelle villette, rese quasi invisibili dietro una folta vegetazione.

In realtà, qui la campagna non c’è più, è stata sequestrata dal cementificio, che ne utilizza il sottosuolo per l’estrazione del materiale occorrente alla produzione degli impianti. Un alto muro separa la cava dalla strada e dai residui di terreno rimasti ai piccoli proprietari della zona. Il resto è tutto un immenso e profondissimo scoscendimento della terra, percorso da lenti camion che seguono pendii molto ripidi, per ritornare in superficie carichi di materiale argilloso. Che ne sarà di questa terra quando non ci sa più nulla da estrarre? Con che cosa saranno colmate le cave di cui è disseminato il territorio – ce n’è una a Cutrofiano immensa -? Sarebbe bello che se ne facesse qualche bel lago artificiale, dove andare a pescare all’ombra di un frondoso albero lacustre; ma ho idea che questa sia solo un idillio della mia mente. Una discarica, ecco che cosa si farà!

Sofia avrebbe voluto vedere questa grande cava, ma quel luogo è inaccessibile a causa dell’alto muro che vi è stato elevato per nascondere il paesaggio alla vista del passeggero. Allora ho portato Sofia in un posto poco più in là, oltre la strada che da Sogliano Cavour porta a Soleto, dal quale è possibile scorgere, dietro le siepi e i filari di alberi, il fondo dell’immensa tagliata e le attività che vi si svolgono.

– Guarda, papà, da questa distanza le persone sembrano formiche e quei camion dei giocattolini!

In effetti, Sofia aveva ragione. Dal nostro punto di osservazione sembrava impossibile che degli esseri così piccoli avessero prodotto una ferità tanto larga e profonda nella terra. Forse, per non vedere questa devastazione del territorio, gli abitanti dei “Piani” si sono rinchiusi nelle loro villette piene di verde, e pazienza se rimangono sospese sopra baratri aperti nella terra!

Infine, ho portato Sofia nella pineta di Sogliano, anch’essa meta delle nostre scorribande giovanili in bicicletta. Le ho mostrato alcuni pini piegati verso terra a causa di una tromba d’aria che qualche anno fa provocò molti danni alla pineta. Abbiamo fermato lo scooter sul cavalletto per fare una passeggiata lungo il sentiero che attraversa il boschetto, incrociando alcune persone concentrate nel footing; poi, abbiamo preso la via del ritorno. Era già passato mezzogiorno e la mamma ci stava aspettando, avendo preparato un pranzo speciale, quello del nostro primo giorno di vacanza.

[2005]

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