di Antonio Prete
“Per chi non ha speranza ci è data la speranza”. L’affermazione di Walter Benjamin istituiva subito la scena di una prossimità nella quale colui che è privato di tutto, anche del sogno, ha, o dovrebbe avere, nell’altro -che qualcosa possiede oltre al sogno- una sponda non compassionevole, ma di responsabilità. Responsabilità nel rappresentare la mancanza che abita l’altro. Insomma, il fatto d’ospitare, o ricevere, la speranza che ad altri è negata non deve essere vissuto come privilegio, ma come un compito: guardare oltre non in sostituzione dell’altro cui è negato l’orizzonte, il diritto all’orizzonte, ma guardare oltre perché anche l’altro possa partecipare a quel diritto, fare delle immagini del futuro, e dunque del sogno, il tempo-spazio di una condivisione. “La parole partagée est toujours nouvelle”: è l’esergo, da Edmond Jabès, che ho messo ad apertura del mio libro recente sulla traduzione, e la traduzione è, come ben sapete, il paragone e l’exemplum di una relazione con l’altro, di una condivisione. Ma, nella traduzione, l’altro abita un’altra lingua, respira nella parola, dice e significa.
Nel caso, invece, di un’alterità spoglia anche della parola la scrittura può sì accogliere, prestare parola e ritmo al dire, ma in questo esercizio non più di traduzione, ma di interpretazione e rappresentazione c’è il rischio di una pretesa: fare del silenzio dell’altro la propria parola, del margine dove l’altro è confinato la soglia di una propria presenza. Per sfuggire al rischio di questa rappresentazione priva d’effetto –raccontare la povertà non è mitigare la povertà, dire dell’emarginazione non è sospingerla verso una nuova appartenenza- è forse necessario unire insieme indignazione e forma del dire, tenere insieme conoscenza di quel che è perduto -o negato, o sospinto ai margini di quella che diciamo Storia- e linguaggio, energia e forma del linguaggio. Piegarsi verso l’abiezione o la miseria o la povertà e risalire con il suo respiro, con il suo nero palpito, verso la rappresentazione, in modo che ben poco di quel respiro, di quel palpito sia disperso nell’atto del dire, nel tempo del raccontare. Un tempo che ha il suo proprio ritmo, la sua lingua, le sue forme, e tanto più queste proprietà sono annodate alla singolarità, allo stile, diciamo pure, all’invenzione, tanto più è possibile che quel respiro di ciò che era sull’altra soglia, sull’altro oscuro confine, possa trattenersi, e respirare nella scrittura. E trasformarsi in un qualche effetto, almeno presso il lettore. La Storia, con la maiuscola, si sa, procede per grandi rilievi, è un’orografia noncurante degli avvallamenti, dei villaggi nascosti, dei campanili non svettanti, delle siepi che pure danno ombra, dei cespugli che pure profumano, dei sentieri che s’interrompono ma che sono folti di erbe e di orme. E allora chi con la parola si dispone dinanzi all’accadere, sa che unire forme del dire e forme dell’accadere è la sfida più grande. Ecco perché, in certi momenti gravi , nel tempo tragico di quella che diciamo Storia, uno scrittore può mettersi in ascolto di quel che è più nascosto, o interdetto, o negato (esemplare l’esergo di Tolstoj ai Due ussari, cioè il riferimento, attraverso le parole di Davidson, al fatto che si rappresentano sempre gli ufficiali mentre discutono intorno a un Manuale dell’arte della guerra e nulla si dice della vodka che scorre nelle loro gole). Ogni narrazione ha certo il suo modo di accogliere la storia, di respirare l’epoca, di alludere ad essa. Un esempio, scelto tra i libri del nostro Novecento ai quali mi accade spesso di tornare: Conversazione in Sicilia di Vittorini. Inverno del 1936-37, la guerra di Spagna sulla scena europea, i giovani cominciano a sottrarsi, per fronde e dissensi e dubbi, al nazionalismo fascista, alla sua cultura gridata, impaludata, eroicomica. Il personaggio, per istituire una relazione tra la singolarità visiva, dialogante dei personaggi e l’epoca, ritorna alla sua terra, la Sicilia, nelle strade, nelle botteghe, nelle casupole dei suoi paesi. La relazione che si istituisce è anche quella che corre tra il tempo interiore –la “quiete nella non speranza”, gli “astratti furori”- e il tempo della storia – “massacri sui giornali”- ; relazione tra la luce del paesaggio, le figure marginali, dimenticate, di un villaggio e l’oscurità e opacità di una storia che alla fine si mostra nella forma del gelido monumento ai caduti. La figurazione insieme corporea e simbolica, mentre mette in scena, in un’epoca di censura, la necessità del passaggio dall’acquiescenza all’azione, diventa uno stile, persegue cioè una forma che è singolare, e così l’esperienza del personaggio –il ritorno alla madre e alle voci e alle figure di una perduta appartenenza- si trasforma nell’esperienza di una rigenerazione. La forma del dire rovescia il limite della censura, fa di esso il ritmo di una forma.
Ma ogni scrittore, se è tale, sa trovare il punto di congiunzione tra la forma e l’indignazione, tra lo stile e la rivolta, tra l’invenzione e la rappresentazione di quel che la storia cancella, o emargina. Forme diverse in cui il tragico dell’epoca è mostrato. In Primo Levi, ad esempio, è l’inferno di un’inesorabile spoliazione dell’umano ad essere attraversato fino in fondo mostrando i gesti quotidiani di una progressiva discesa nell’abisso, nel gelo di una disumanizzazione. In Edmond Jabès la meditazione, per frammenti, sul tragico è affidata alle voci di rabbini reali e immaginari, di poeti, di saggi e folli che mostrano il dominio dell’assenza, la privazione, il bianco che è riverbero del nulla. Per Paul Celan è nel corpo della lingua, nelle sue ferite, nel suo stesso ritmo, nelle forme del suo immaginare che si manifesta l’esperienza della notte europea, della Schoà.
Il linguaggio della poesia istituisce il tempo-spazio che ospita ciò che è consegnato all’oblio dalla modernità, relegato ai margini, abbandonato. Baudelaire lo ha mostrato nei versi bellissimi del poème Le Cygne. Dove nella Parigi che cambia –“Paris change!”- , nel trambusto di un cantiere – siamo nel cuore della nuova urbanistica haussmanniana, che abbatte i vecchi faubourgs, e le strette strade idonee alle barricate dei rivoltosi, per aprire i grandi alberati boulevards- ecco l’apparizione di un cigno. Sfuggito durante il trasporto alla sua gabbia, s’aggira spaesato, cioè lontano dal suo ambiente d’acqua e di natura, e gratta con le zampe palmate il pavé asciutto e solleva il becco verso l’alto come implorasse la pioggia. Il cigno apre la sequenza di altre figure dello spaesamento, della marginalità che la moderna metropoli esclude:
Dove un tempo sorgeva un serraglio, un mattino
vidi, all’ora che sotto un cielo freddo e chiaro
il Lavoro si sveglia e per le strade lo spazzino
solleva nel silenzio un chiassoso uragano,
un cigno che, sfuggito alla sua gabbia, andava
sfregando con i piedi palmati il pavé secco,
sul suolo scabro il bianco piumaggio trascinava.
Presso un rivo senz’acqua l’uccello aprendo il becco
bagnava nella polvere le ali nervosamente
e diceva, sognando il suo luogo natale:
“Quando cadrai, o acqua, folgore finalmente
quando tuonerai?” Vidi, mito strano e fatale,
l’infelice che come l’uomo d’Ovidio al cielo,
azzurro per crudele ironia, la testa
convulso sollevava a tratti sullo stelo
del collo, come a Dio volgesse una protesta.
[…]
Penso alla negra scarna, dalla tisi corrosa,
nel fango si trascina con sguardo stralunato,
e dietro il grande muro che la nebbia ha levato
cerca i palmizi assenti dell’Africa grandiosa,
a quelli che han perduto ciò che più non ritorna,
a quelli che le lagrime hanno sempre nutrito
e, come buona lupa, Dolore allatta e forma,
ai magri orfani eguali a fiori risecchiti!
Così nella foresta dove sono esiliato
un antico Ricordo il suo corno suona ora.
E penso ai marinai sopra un’isola obliati,
ai prigionieri, ai vinti, e ad altri ad altri ancora!
E’ dunque la poesia che ospita quel che è perduto. Che accoglie quel che la modernità con le sue trasformazioni, presa dall’elogio delle magnifiche sorti, lascia piombare nell’oblio. Dal margine, dall’isola della dimenticanza, dal confine che più non appare giungono voci: e la poesia, nel suo linguaggio, le accoglie, e preserva, e custodisce. Forse per un altro tempo. Per quando un altro orizzonte mostrerà il suo profilo, la sua azzurrità inattingibile ma almeno visibile.
Ancora qualche passaggio, per concludere.
L’alterità è impalpabile e abita in ciascuno. “Ceux-là dont les désirs ont la forme des nues”, dice un verso de Le Voyage di Baudelaire. L’alterità può avere il profilo di quelle “quasi creauture d’altra specie” che il Leopardi dei 111 Pensieri opponeva a un mondo dominato dalla centralità del danaro e dall’opinione e dalle gazzette. Può diventare dislocazione costante del punto d’osservazione sul presente, sguardo dalla soglia di una lontananza estrema. Queste forme dell’alterità, insieme, sono spesso presenti in quelle che chiamiamo “voci dal confine”, voci dal margine. E tuttavia su tutto questo c’è anche una storia, si sa, che è storia di superficiale accoglimento, di trasformazione, di addomesticamento e neutralizzazione. Accade che il Museo museifica, appunto. E’ la storia delle avanguardie: il réfusé portato verso il valore di mercato. E così, anche molte di quelle voci che salgono dai confini – che sono talvolta musiche, narrazioni popolari, scritture marginali- possono essere sospinte verso quella ricomposta e quieta collocazione data dal sistema mercantile. E tuttavia, può accadere che anche dal recinto delle istituzioni museali e mercantili e storiografiche, quelle voci possano continuare a dire la storia di una trasgressione, di una scomposizione dei modelli e dei codici, possano continuare a raccontare l’invenzione di forme inattese. Il riconoscimento del nome non sempre soffoca lo scandalo. Le poesie condannate dei Fiori del male continuano a dire la loro rivolta verso la morale borghese.
Ma il nostro sguardo non può solo adagiarsi su quel che dal silenzio accede alla parola, dalla periferia al centro, su quel che si scuote d’addosso la cenere dell’oblio e perviene a una manifestazione di sé o persino a una nuova appartenenza. Il nostro sguardo deve sostare, con insistenza, su quel è ancora nascosto, tenuto al margine, relegato nel silenzio. Per mettersi in ascolto. Dal silenzio, certo, salgono voci prive di parole, non modulate in sintassi, non annodate in ordini discorsivi, oppure si tratta spesso di voci che mostrano benissimo l’orizzonte, e hanno il respiro di una relazione forte con l’altrove, con il sogno di una liberazione dal dolore.
Da quelle voci –musicali nella sofferenza, aspre nel canto, ruvide nell’energia del loro manifestarsi- possiamo apprendere quanto illusorio sia il nostro stare sulla via che pretendiamo maestra, sulla via diretta, quanto incerto sia il nostro cammino verso una meta, il nostro stesso essere in civiltà. Dall’esile profumo di una ginestra –impalpabile e leggero- sale l’invito del poeta a osservare come la storia degli uomini, contenta delle sue conquiste e delle sue credenze, abbia distolto lo sguardo dalla finitudine, dalla fragilità, dal sapere della morte. Quell’invito dice anche di non rinunciare al tempo del profumo, al colore sparente e tuttavia bello di un fiore di maggio. Da un cespuglio fiorito di giallo, dal profumo che ci sfiora mentre il vento lo porta lontano, muove il sapere di una condizione umana in sintonia con il creaturale. Viventi tra viventi, ciascuno con la sua singolarità, il suo corpo, il suo desiderio, sentiamo che non è nell’ordine delle geografie, delle collocazioni in rapporto al centro, ma è soltanto nella nascita del tu, nel riconoscimento della sua prossimità –nonostante la fisica lontananza- che prende respiro il dialogo. La parola partagée, la parola condivisa.
[Relazione letta al Convegno “Voci dal confine” sulle letterature lusitane, Siena, 24 maggio 2011]