di Gianluca Virgilio
Riposo pomeridiano
Tornato da scuola, dopo pranzo, mi stendo sulla poltrona riservata alla pennichella pomeridiana, mi tolgo gli occhiali, e chiudo gli occhi per far riposare la mente. Ripenso a tante cose avvenute a scuola e ascolto i rumori che vengono dalla strada. Poi imbrocco pensieri insensati che mi trasportano nell’incoscienza ristoratrice di un sonno breve, ma intenso e liberatorio.
Nei giorni di tramontana, il vento infila nella mia strada un rumore che proviene da molto lontano, sei o sette chilometri in linea d’aria, il rumore degli aerei che partono dall’aeroporto militare per le esercitazioni sui cieli del Salento. Nell’aeroporto di Galatina, infatti, ha la sua base una scuola di volo, dove si addestrano i piloti dell’aeronautica militare italiana. Quando il vento soffia forte, allora il rombo dei motori giunge più intenso, ma non è mai molto fastidioso perché diventa una specie di musicale rincalzo dello stormire del vento tra gli alberi dei giardini e tra le case. Insomma, a me non dà per nulla fastidio, anzi, mi richiama alla visione dell’aperta campagna dove hanno costruito le lunghe piste dell’aeroporto.
Ieri, dopo pranzo, mentre stavo riposando nel modo che ho detto, mi è venuto il desiderio di rivisitare quei luoghi, dove noi ragazzi ci spingevamo con le biciclette e poi con i motorini per vedere il decollo o l’atterraggio degli aerei da guerra. Così, riaperti gli occhi, e inforcati gli occhiali, ho detto a Giulia che mi sarebbe piaciuto mostrarle il campo di aviazione e gli aerei che facevano tutto quel rumore.
– Quale rumore, papa?
– Ma come, non ci hai fatto caso? Il rumore che proviene dall’aeroporto!
Giulia non ci aveva fatto caso, pur sentendolo bene, perché lo aveva incluso nel normale rumore della città quando tira un po’ di vento da nord. E così abbiamo indossato le nostre giacche a vento e con lo scooter siamo partiti alla volta dell’aeroporto.
Segreti della campagna
Avere la tramontana nel mese di novembre è davvero un caso fortunato. Novembre qui è il mese delle piogge portate perlopiù dallo scirocco, un vento caldo che fa ingrossare nei campi le cicorie e i finocchi. Invece, la tramontana fredda serve per ingrossare le rape, che altrimenti marciscono. Man mano che ci si allontana dall’abitato, la campagna cambia aspetto: le vigne cedono il terreno agli olivi e questi alle colture stagionali. Ci sono mille case coloniche, molte ben costruite, tutte proprietà degli abitanti del luogo, che d’estate vi trascorrono la villeggiatura, e rimangono in campagna fino ad ottobre. A Galatina questa contrada viene designata con l’espressione la via de lu Duca, perché porta dritto a una masseria che si dice sia stata proprietà di un Duca, molti e molti anni fa. E si racconta che vi sia un passaggio segreto sotterraneo che parte dal castello di Galatina e giunge fino a questa masseria, un passaggio fatto costruire dal predetto Duca che aveva voluto tutelarsi con una via di fuga da eventuali aggressori. Naturalmente questo cunicolo non è mai stato trovato, ma di esso è rimasta traccia nell’immaginario popolare, sicché ancor oggi io non riesco ad imboccare la via de lu Duca senza rievocare dentro di me questa storia che mi è stata raccontata sin da quando ero ragazzo. Naturalmente, ieri, essendo in compagnia di Giulia, ho pensato ad alta voce, e le ho raccontato questa storiella, suscitando il suo interesse e la sua curiosità. Ha voluto a tutti i costi che la portassi alla masseria de lu Duca, dove certamente avremmo trovato l’uscita del passaggio segreto.
Per arrivarci, bisognava passare da una villa, sulla quale voglio ora dire qualcosa. L’interesse mio per questa villa riguarda un tempo ormai passato –parlo di almeno venticinque anni fa-, quando per caso, in una delle nostre scorribande, scoprimmo che nel retro di essa vi era un campo da tennis ricoperto di asfalto. Non seppi mai a chi appartenesse quella villa, ma è certo che il proprietario non se ne curava, perché il suo stato d’abbandono era palese a chiunque, passando, avesse voltato lo sguardo in quella direzione. Quando ero ragazzo, e si veniva in bicicletta, e poi, un po’ più grandicelli, coi motorini, la villa abbandonata era un ottimo luogo per fermarsi a riposare, poiché si trovava (e si trova tuttora) proprio a metà strada tra l’abitato di Galatina e l’aeroporto, poco lontana dalla la masseria de lu Duca. Io e i miei amici non giocavamo a tennis, non era il nostro sport. Noi giocavamo al pallone, e basta. Ma fermarsi in quella villa abbandonata era diventata per noi una consuetudine, poiché al gusto dell’infrazione -infatti, scavalcando il basso muro di cinta e facendoci un varco nella siepe di pino, violavamo una proprietà privata- si univa la certezza dell’impunità, tanto era chiaro a tutti che nessuno da anni aveva più visitato quella casa. D’inverno, nel giardino c’erano mandarini e aranci che, sebbene nessuno da anni li avesse più potati, davano ancora frutto e noi ne approfittavamo per mangiarne a sazietà. Poi riprendevamo a pedalare verso le piste dell’aeroporto con le tasche piene e fieri della nostra audacia.
Una volta ci portai una mia compagna di scuola, la stessa con cui qualche volta marinavo la scuola, a cui avevo chiesto di insegnarmi a giocare a tennis. Lei mi aveva risposto che con poche lire potevamo prenotare il campo al Tennis club, ma a me piaceva l’idea di portare la mia compagna in quella villa disabitata e di giocare con lei in quel campo da tennis abbandonato, non altrove. Alla fine lei acconsentì e così, armati di palle e racchette, un pomeriggio di non so più che stagione, a bordo della sua vespa bianca, prendemmo la via de lu Duca.
Come avrei potuto raccontare a Giulia queste cose? Non le ho detto niente, perché non avrebbe capito come mai alla mia compagna di scuola avevo chiesto di insegnarmi il gioco del tennis in un luogo così fuori mano e in un campo molto più lontano del Tennis club, dove ogni galatinese di buona famiglia impara a giocare servendosi anche di istruttori specializzati; avrei dovuto spiegarle, inoltre, perché con la mia compagna di scuola facemmo quell’unica partita: diceva che svisavo la palla, la colpivo di striscio per imprimerle un effetto che e lei non piaceva perché la metteva in difficoltà e che questo era tipico dei principianti; e aggiungeva che si gioca meglio su un campo di terra battuta, come quelli che si possono affittare al Tennis Club, piuttosto che in un campo asfaltato dove la palla rimbalza male. A quel tempo a me piaceva svisare e mi piacevano le piccole infrazioni, ero fatto così.
Inganni della memoria
Con Giulia dovevo essere ormai vicinissimo al luogo del mio primo giovanile errore, ma non vedevo nessuna villa infrascata e disabitata, nessun campo da tennis immerso nell’agrumeto incolto. Eppure tutto ciò doveva essere lì, davanti ai miei occhi, come una massa scura di alberi e siepi sopra una villa dai muri anneriti dall’umidità. Nulla di tutto questo. Al contrario, in quel luogo sorgeva ora una costruzione linda linda e ben recintata da un muretto su cui avevano innestato una ringhiera lanceolata di ferro battuto, una villa coi tetti spioventi di tegole rosse, come se ne vedono in Trentino e ora sempre più spesso qui nel leccese; tutt’intorno erano ben definite alcune aiole piantate perlopiù a rose, mentre attraverso l’inferriata potevamo scorgere una piscina di media dimensione e un campo da tennis in terra battuta, tra palme svettanti e altri alberi di bella vista! Queste sono le cose che ti fanno capire come il tempo sia passato davvero e non ci sia più spazio per alcun ripensamento. Avrei voluto fermarmi lì, fare una sosta come nei tempi andati, fare entrare in quel luogo mia figlia per mostrarle dove noi ragazzi andavamo a divertirci, quali spazi sottratti alle interferenze degli adulti noi occupavamo, e, perché no, i luoghi dei miei primi turbamenti, ed invece qualcuno aveva provveduto a mettere in fuga il passato con tutti i suoi fantasmi, in un modo molto semplice: cambiando il paesaggio con la ristrutturazione completa di una casa e la trasformazione di meno d’un ettaro di terra, dove non c’era più posto per l’agrumeto delle nostre antiche scorpacciate, ma solo per alcune palme di alto fusto che sembrano essere lì da almeno cent’anni: un vero inganno della memoria!
Visioni dall’alto
Dalla via de lu Duca, dopo quella villa, il paesaggio cambia, perché si comincia ad essere un po’ lontani dall’abitato: si diradano le case coloniche, comincia la distesa della pianura bonificata qualche decennio fa e adatta ai seminativi e alle colture stagionali. In assenza degli alberi di olivo, l’orizzonte si fa più ampio e si vedono in lontananza le palazzine del personale aeroportuale. Il rombo degli aerei si fa più potente e si è indotti sempre più spesso a sollevare lo sguardo al cielo per seguire con gli occhi la traiettoria degli aviogetti che vanno e vengono dalle piste. Giulia me ne ha additati a decine, uno dopo l’altro, nel cielo sgombro di nubi. Da lassù – ho detto a Giulia – gli allievi piloti con i loro istruttori riescono a vedere distintamente le montagne dell’Albania e della Grecia e tutta la penisola salentina fino al mare di Santa Maria di Leuca; e dall’altra parte, le coste della Calabria, dalla Sila su su fino al golfo di Taranto. Che meraviglia!
– Sono loro che bombardano la gente? – mi ha chiesto Giulia.
Giulia ha solo nove anni, ma conosce da tempo le immagini della guerra, ha vissuto mentre c’erano i bombardamenti su Belgrado e quelli più recenti su Bagdad. Giulia non conosce la guerra, come non la conosciamo tutti noi occidentali, perché per conoscere la guerra bisogna subirla, ma come tutti noi ha nella mente le immagini della guerra che il televisore trasmette. Ho pensato che a me, mentre in bicicletta, giovanissimo, percorrevo la via de lu Duca, non è mai capitato di avere simili pensieri, di fare certe domande. Non voglio dire che fossi più spensierato, perché non sarebbe vero, ma gli aerei li guardavo in modo diverso, come veicoli di un mondo fantastico e irraggiungibile, potenti e inaccessibili, privi d’un immediato micidiale valore d’uso.
La masseria de lu Duca e il campo di aviazione
La via asfaltata era finita e cominciava la strada sterrata, piena di sassi e buche. Guidando lo scooter, dovevo tenere gli occhi bassi, attento a non urtare qualche pietra o a scansare qualche residua pozzanghera che la tramontana non aveva ancora asciugato. Abbiamo fatto una piccola deviazione per passare dalla masseria de lu Duca, dove Giulia avrebbe voluto vedere l’uscita, in qualche angolo segreto, del budello sotterraneo di cui le avevo parlato. E’ rimasta un po’ delusa quando le ho detto che non avrei saputo trovare l’uscita del passaggio segreto; che nessuno avrebbe potuto dire dove si trovasse, perché il Duca che lo aveva costruito, aveva imposto a tutti i lavoranti l’obbligo del segreto, e c’era chi diceva che li avesse anche uccisi. Non credo di essere riuscito a convincerla. Le ho mostrato la masseria piuttosto malmessa e in stato d’abbandono; tuttavia, ancora si vede bene che un tempo doveva essere stata abbastanza ricca, se vi fu incastonata una chiesetta con alcuni ricami barocchi. Ebbene sì, qui da noi il barocco lo ritrovi anche in campagna!
Poco oltre la via de lu Duca, che un tempo aveva la sua continuazione in quella che ancor oggi viene chiamata la via vecchia di Lequile, inizia una grande recinzione metallica che costituisce un LIMITE INVALICABILE, come avvertono i cartelli apposti sulla rete: siamo davanti a una ZONA MILITARE, dove è vietato fare fotografie o riprese con telecamere; tutt’intorno alla rete metallica corre una stradicciola sterrata che consente in lontananza di vedere il decollo o l’atterraggio degli aerei. Noi eravamo arrivati troppo tardi, perché da qualche minuto il rombo degli aerei era cessato e qualche uccelleto, tranquillizzato, aveva fatto la sua comparsa nella campagna. Il sole era basso sulla linea dell’orizzonte. Presto sarebbe stato buio. Ma io volevo mostrare a Giulia un altro luogo, che era stato meta ultima e definitiva delle nostre escursioni giovanili: un boschetto di lecci.
L’albero di corbezzolo
Ho raccontato a Giulia che cosa avesse mai di speciale il boschetto di lecci del campo di aviazione, che cosa ci inducesse a farvi una sosta soprattutto quando andavamo lì nei mesi autunnali. Ed era che nel centro di questo boschetto, che da lontano delineava una massa scura circolare, era stato piantato un albero di corbezzolo, il quale immancabilmente attirava la nostra attenzione. Il corbezzolo è un albero di medio fusto che produce dei frutti piccoli e succosi simili a fragole, dal color rosso. Ed è molto probabile che colui che piantò il boschetto –il quale, a giudicare dal grandezza dei tronchi, non dovrebbe essere molto vecchio- abbia pensato proprio di introdurre una varietà di albero che costituisse un’attrattiva per il visitatore. Certo lo era per noi ragazzi.
Dovevamo fare in fretta, perché le prime tenebre della sera incombevano. Abbiamo lasciato lo scooter ai margini del boschetto e, presi per mano, ci siamo infilati in un sentiero che –se non ricordavo male– doveva portare proprio al centro del bosco. Dopo venticinque anni, nulla era più uguale. Il sentiero stesso era stato modificato dalla vegetazione che vi era cresciuta sopra e soprattutto dal materiale di riporto che era stato scaricato ai suoi margini. Le tenebre nel bosco erano ancora più fitte e la mia miopia non mi era d’aiuto. Toccava a Giulia rifare la scoperta degli ultimi corbezzoli della stagione:
– Papà, guarda là, in alto, quei frutti rossi, deve essere questo l’albero di corbezzoli!
Beh, non avevamo scoperto il passaggio segreto del Duca, ma almeno avevamo ritrovato alcuni corbezzoli. Giulia voleva assolutamente raggiungerli, ma si trovavano molto in alto e non c’era verso di poterli prendere. Le ho dovuto promettere che saremmo tornati il giorno dopo, muniti di una pertica, –cosa che non abbiamo più fatto-, che poteva stare tranquilla, nessuno ce li avrebbe sottratti; e poi era quasi buio e bisognava affrettarsi. Alla fine, si è persuasa che era meglio tornare a casa.
Oggi è un piacere pensare che quei corbezzoli stiano ancora lì ad aspettarci.
(2004)