L’epistolario di Tommaso Fiore e la sua eredità

di Franco Martina

Chi ha avuto modo di studiare l’epistolario di Tommaso Fiore si è probabilmente fatto due domande piuttosto importanti: che cosa ci fosse alla base di una costruzione di relazioni così capillare e accurata; e quindi quale fosse la finalità di un impegno così cospicuo, quale cioè l’obiettivo perseguito attraverso una rete fittissima di contatti e di confronti.

La risposta alla prima domanda è possibile rintracciarla in molte lettere dello stesso Fiore, ma anche nelle risposte di alcuni suoi corrispondenti. Per ciò che riguarda la realtà leccese, sono particolarmente importanti quelle che egli scambiò con Cesare Teofilato. L’amicizia fra i due nacque in un momento drammatico per il Paese, nell’estate del 1925. Fiore si trovava in uno stato di forte disorientamento politico e di grave abbattimento morale, come aveva confessato qualche mese prima a Salvemini, il quale, a sua volta, lo aveva consigliato di abbandonare la politica. Ma proprio  le lettere a Teofilato lasciano intravedere un orientamento assai diverso.

Il fatto che Fiore scrivesse a Teofilato da Gallipoli, contribuì a dare a quel nascente rapporto un tono aperto e al tempo stesso profondo: “Mi parla di Gallipoli, scriveva Teofilato nella sua prima lettera, è la patria della mia buona mamma, che mi lasciò giovinetto. Quanti ricordi! Ma lei è salentino?”. E già aveva dichiarato: “Noi già siamo amici per tanti motivi: potremo, tutt’al più, dissentire nei dettagli, non mai nello scopo ultimo e più elevato della vita umana”. Lo scopo della vita umana come orizzonte in cui si salda un’amicizia. L’inizio della risposta di Fiore non poteva essere meno impegnativo: “In questi momenti e in questi anni, potrà esserci di qualche conforto ritrovarci, riconoscerci e vedere su quali forze possiamo contare per le nostre idee. Io sono fuori d’ogni chiesa costituita, ma non so concepire la chiesa e la religiosità altrimenti che come libertà. Questo per intenderci così alla grossa, non per venire fuori con filosofemi”. A Teofilato che collocava l’amicizia in un orizzonte di vita spirituale, Fiore rispondeva chiarendo la sua visione della vita come libertà. Dunque, valori a fondamento del rapporto che Fiore va intessendo. L’amicizia si scopre come la risorsa etica con cui affrontare l’onda d’urto della sconfitta politica e aprire la strada a una possibile riscossa.

Ed è proprio questo dato che consente di rispondere alla seconda domanda. Certamente l’attività epistolare di Fiore rispondeva alla sua naturale espansività, alla sua grande tendenza alla comunicazione. Tuttavia è indubbio che, a partire da un certo momento, quella spontanea propensione sia diventata un’articolazione della specifica risposta che Fiore aveva maturato per affrontare la questione meridionale.

Quella risposta, definita tra le “Lettere pugliesi” a Gobetti e gli articoli pubblicati sul “Quarto Stato” di Rosselli, poggiava su due convincimenti ormai definitivi: che fosse giunto il momento di passare dalla fase dell’analisi e della denuncia a quello dell’azione; e che l’azione dovesse nascere nel Mezzogiorno, per la consapevolezza che quello del Mezzogiorno è un problema che devono risolvere principalmente i meridionali. Su quest’ultimo punto la prospettiva di Fiore incontrava pienamente quella elaborata da Guido Dorso. La “rivoluzione meridionale” di Dorso individuava nella pratica trasformistica, seguitata da Cavour fino a Giolitti e  basata sui favori elargiti dallo Stato centrale alle clientele locali in cambio di consenso politico, l’elemento strutturale che era, appunto, alla base della ‘questione’. Rovesciare quel sistema, significava avviare la ‘rivoluzione’ meridionale, eliminando così anche l’elemento di distorsione sia del liberalismo che della democrazia, come sistemi di legittimazione dal basso del potere politico. Si comprende, quindi, che l’impegno a passare all’azione significava andare proprio in questa direzione. Un lavoro che non poteva essere, evidentemente, affidato a soggetti collettivi, alle classi, perché comunque richiedeva un preventivo lavoro di sensibilizzazione e mobilitazione delle coscienze individuali. Un punto, sia detto per inciso, su cui occorre riflettere per comprendere i tanti motivi di vicinanza, ma anche le significative differenze tra Fiore e Salvemini.   Quale fosse il suo orientamento Fiore doveva dirlo chiaramente quando, nell’autunno del ’25, scriveva a Teofilato: “…Lascia stare gli archeologi e gli scienziati, come anche i filosofi e tutti i grandi uomini: abbiamo bisogno di scoprire coscienze e spine dorsali dritte”. E già aveva chiesto: “…hai da segnalarmi per il momento presente altri uomini di Puglia irrigiditisi come te nelle loro opinioni e che sacrificano ogni cosa per la coscienza? Non ne conosco molti, ma la cosa mi preme per gli studi che vado facendo e per poterli additare”.

Non si trattava di raccogliere “ cento uomini d’acciaio”, come suggeriva Dorso, quanto di costruire la trama su cui tessere i nuovi rapporti di una società con una più chiara coscienza di sé, dei propri doveri, delle proprie responsabilità. Per rendersi conto di quale fosse la praticabilità di questo progetto, è utile leggere un passaggio di un articolo di Vittore Fiore uscito il 10 febbraio 1944, pochi giorni dopo il congresso di Bari, sul settimanale azionista “L’Italia del popolo”. Lì Vittore affrontava il problema delle classi dirigenti nell’ottica della discontinuità con il passato non solo fascista ma anche liberale-giolittiano: “…non vi è paese di Puglia in cui non vi sia un uomo rappresentativo, e poi un contadino onesto, a dir poco… Non si tratta che di metterli a capo della cosa pubblica. Poiché, quando il capo è onesto, tutti gli altri sono costretti a filare e l’amministrazione comincia a vivere. Intorno a quest’uomo mettete degli altri sì che si formi un consiglio comunale. E fate così con gli organismi maggiori, le prefetture ad esempio. Se a capo della provincia vi sarà un uomo probo e capace, la vita della provincia stessa, se ne può essere certi, se ne avvantaggerà sensibilmente… Questo di dare al Paese l’avvio ad una vita amministrativa più seria e più compresa delle gravi condizioni in cui esso vive, più vicina ai reali bisogni della popolazione, è una prima soluzione, e quel che conta, pacifica”.

Ed è significativo che Fiore non identificasse coscienza e cultura. Non bastava insomma essere uomini di cultura per avere la consapevolezza piena delle responsabilità civili che ne conseguono. Fiore sapeva molto bene che la cultura è uno straordinario strumento critico, ma può essere anche la maschera con cui nascondere ipocrisie e opacità, resistenze e opportunismi. Occorre tenere bene presente questo punto, per comprendere uno dei motivi per cui accanto a rapporti basati su una forte convergenza di sensibilità e di propositi, ci fossero anche rapporti di confronto, a volte spinto fino alla rottura. Un esempio si trova nello scambio di lettere con Luigi Corvaglia negli anni Trenta. Fiore si interessò particolarmente allo scrittore di Melissano non tanto per la sua attività di drammaturgo e di romanziere, quanto per le sue ricerche su Giulio Cesare Vanini, cui annetteva una intenzionalità politica. Ma quando lo invitò a Bari per introdurlo in una cerchia di conoscenze nuove, ricevette una risposta rivelatrice di un atteggiamento di rinuncia, di passività, in cui Fiore vedeva il riflesso del più vasto ambiente sociale circostante. Scriveva Corvaglia: “Ci penso, ma come ci può pensare un selvatico come me. (…) Mi trattiene l’indolenza, la metodicità del lavoro in cui mi son posto come un ingranaggio, certa abitudine casalinga e forse un po’ di repulsione. Gli  è che la solitudine agevola le diffluenze romantiche e fuori c’è tante cose che turbano il paesaggio interiore, mentre a me piace di costruire a modo mio codeste intimità raccolte, pensose di spiriti eletti coi quali, un silenzioso colloquio dura da anni all’ombra della mia coscienza”. La risposta di Fiore fu assai dura : “Bada, però, selvatico del Capo, che la cosa non è così semplice: non si tratta di vedere Tizio e Caio, ma si tratta di esprimere una vita meno scettica, meno “fazza Diu!”. L’ambiente tuo è così? Già, ma tu non scrivi cronache, e le anime “fazza Diu!” appartengono al cielo”. E poi affondava pesantemente il colpo: “Quella madre della tua protagonista che non pensa nemmeno, dopo l’esperienza che ha fatto lei stessa a difendere sua figlia… come dire è ripugnante”.

Ma gli scontri più importanti, relativi a scelte politiche e ideali, dovevano venire solo dopo la caduta del fascismo con personalità della statura di Vittorio Boldini e di Cesare Massa.

La presa del progetto politico di Fiore sulla realtà salentina ebbe il suo momento più alto solo tra la metà degli anni Cinquanta e gran parte del decennio successivo. Anche in questo arco di tempo, tuttavia, non mancarono momenti di polemica e di confronto critico, in un ambiente che conobbe allora una straordinaria fioritura di personalità e di iniziative culturali, il cui segno più visibile era offerto sicuramente dalle riviste che sostituirono i poveri fogli di giornale come luogo di dibattito e di ricerca. In quel clima a Tommaso Fiore sembrò di aver trovato la risposta ideale alla sua ricerca in un gruppo di giovani professori che scrivevano sulla rivista “Il Campo”. Francesco Lala, che ne era l’ideatore e il direttore, Giovanni Bernardini, Nicola Carducci e poi la giovane Rina Durante. Un gruppo che in realtà non era tale: diverse le formazioni, diversa la sensibilità culturale, come anche gli orientamenti. Tuttavia, viste tutte insieme quelle diverse personalità mostravano un segno evidente di discontinuità col passato, con un certo modo di intendere la cultura come sfera separata, come mondo a sé, con i propri valori e le proprie finalità. Quei giovani professori assomigliavano molto da vicino all’intellettuale moderno, che non si limita ad andare dalla realtà alla cultura, ma fa anche il percorso inverso, con l’obiettivo non solo di comprendere meglio la realtà ma anche di modificarla.

Ripercorrendo la complessa rete di rapporti epistolari di Tommaso Fiore viene da porsi anche un’altra domanda: quale sia il messaggio in cui egli ha posto la sua eredità e se questo messaggio è ancora valido nel presente e nell’immediato futuro che ci attende. Probabilmente però una risposta a queste domande ognuno dovrà cercarsela da sé.

[Relazione letta nel Castello Carlo V di Lecce, il 10 ottobre 2014, in occasione della Mostra “Lecce armoniosa” e della presentazione del catalogo Tommaso Fiore e le donne tra analfabetismo ed emancipazione.]

 

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