I misteri del tempo che adoriamo o ci fa paura

di Antonio Errico

Ci sarà pure una qualche ragione se uno raccoglie libri sul tempo come fossero figurine di calciatori, o magneti souvenirs da attaccare al frigorifero, oppure civette come portafortuna.

Forse uno raccoglie libri sul tempo, anche quando non appartengono ai territori disciplinari che attraversa di solito, perché adora il tempo, o perché ne ha paura, e nella lettura cerca illusorie consolazioni, o semplicemente perché ha consapevolezza che siamo un impasto di fango e di tempo.

L’ultimo libro raccolto è quello di Carlo Rovelli, uscito da poco, che s’intitola L’ordine del tempo. Rovelli è un fisico teorico. Ha lavorato nelle Università di Roma e di Pittsburgh, e per il Centro di Fisica teorica dell’Università del Mediterraneo di Marsiglia. Non disdegna l’ottima divulgazione. Anzi. Anche se, come in questo libro di duecento pagine esatte, ne mette diciannove di note, che è molto difficile evitare perché fanno parte della tessitura del discorso.

Se uno legge questo libro mentre si ritrova in certi treni, si dice che Rovelli ha torto su tutti i fronti, che il tempo non passa mai, è immobile, oppure che, nel migliore dei casi, si muove di un niente ogni trent’anni. Guarda i vagoni, i sedili, riflette un attimo sul funzionamento dell’aria condizionata e si dice che trent’anni non sono ancora passati, che il tempo è rimasto fermo, immobile, o che si muove impercettibilmente.

Ma poi, per uno di quei strani percorsi che portano il pensiero da una sponda all’altra dei concetti, che confondono teorie e fantasie, che non hanno una apparente giustificazione, vengono alla mente quei versi di Thomas S. Eliot che nella traduzione di Roberto Sanesi fanno così:
“Se spazio e tempo, come i saggi dicono, / sono cose che mai potranno essere,/ la mosca che è vissuta un solo giorno/ vissuta è a lungo proprio come noi./ Dunque viviamo per quanto ci è possibile,/ finchè l’amore e la vita sono liberi:/il tempo è il tempo e il tempo scorre via/per quanto i saggi non siano d’accordo”.

Però, a pensarci meglio, forse una relazione fra la prospettiva di Carlo Rovelli e quella di Eliot potrebbe non essere del tutto improbabile ed è costituita dalla dimensione umana – troppo umana- del tempo. Che al principio e alla fine di tutto è quella che intimamente ci riguarda: quella per la quale adoriamo il tempo e ne abbiamo terribilmente paura, quella per la quale a volte ci sembra di avvertirne la seduzione e a volte la sua ingiuria. Il passato, il presente, il futuro, lo si pensa in ragione del nostro essere, del nostro esistere. Talvolta si presume che un fisico, uno scienziato, pensino le cose, in questo caso pensino il tempo, soltanto quale oggetto del loro cercare, non come gli altri esseri umani, quelli piccoli piccoli. Allora ci si meraviglia, quasi, che in esergo ad ogni capitolo, Rovelli ci metta dei versi tratti dalle Odi di Orazio, che ad un certo punto faccia riferimento al Qohelet, o a Rilke, ad Hofmannsthal, a Buddha, a Proust.

Si scopre che uno scienziato qualche volta si lascia sorprendere da pensieri comuni e dica, per esempio, che come funziona il tempo ancora non lo sappiamo veramente, che la sua natura resta il mistero più grande, che strani fili lo legano ad altri misteri irrisolti: la natura della mente, l’origine dell’universo, il destino dei buchi neri, il funzionamento della vita.

Così, questo nuovo libro di Rovelli ci racconta che, in fondo, il tempo è quel mistero che ci circonda, in cui siamo sprofondati, che noi stessi siamo, che cerchiamo di indagare con diverse maniere, con una scienza o con una poesia, e che tutte le volte che si svela appena una parte minuscola del mistero, si resta affascinati dalla bellezza intuita, sospettata, di tutto quello che rimane da scoprire, che forse non si potrà mai scoprire completamente.

Uno pensa che lo scienziato che si confronta con il mistero del tempo, lo faccia soltanto con una razionalità rigorosa. Poi scopre che non è questo l’unico modo, e si conforta. Arriva all’ultima pagina del libro di Rovelli e si accorge che un fisico si ritrova in accordo con Agostino, con la sua affermazione che il canto è consapevolezza del tempo; che il canto è il tempo. Che la sorgente del tempo è nel canto del violino della Missa Solemnis di Beethoven. Poi riprende Qohelet, ancora, e scrive: “ Si rompe il cordone d’argento, la lucerna d’oro s’infrange, si rompe l’anfora alla fonte, la carrucola cade nel pozzo, ritorna la polvere alla terra”. Le ultime righe sono sue. Dicono: “E va bene così. Possiamo chiudere gli occhi, riposare. E tutto questo mi sembra dolce e bello. Questo è il tempo”.

Ad una fermata, ad una delle tante fermate del treno, entra una mosca; galleggia nel corridoio. Chi ha appena finito di leggere il libro di Carlo Rovelli non può fare a meno di ripensare quei versi di Eliot. Considera che non c’è differenza tra il tempo che un Dio o il caso o non si sa chi o che cosa, né come nominarlo, ha dato in comodato d’uso ad una mosca e quello che ha dato ad un uomo. Non c’è nessuna differenza. Se non questa: che la mosca può uscirsene da quel treno imboccando un finestrino appena schiuso e l’uomo deve continuare il viaggio ancora per ore. Cercando un modo per ingannare il tempo. Perché, una volta fatto il pari e dispari, non rimane altro che l’ingannare il tempo: con un’emozione, una sensazione, una bellezza, una passione, a volte con un dolore di sciatica, una tenerezza, una fantasia, l’ebbrezza di un istante, una malinconia, un sogno ad occhi aperti, uno stupore.

Si possono combattere miliardi di battaglie e vincerle tutte. Ma non c’è stato generale, condottiero, guerriero, non c’è stata armata, esercito, flotta, falange d’urto, battaglione di arditi, che siano stati in grado di vincerne una contro il tempo. Allora tanto vale tentare d’ingannarlo. Con la consapevolezza che anche il tentativo dell’inganno non è altro che una misera illusione. La possibilità che è concessa forse è solo una: quella di cui diceva Cesare Pavese negli strepitosi Dialoghi con Leucò: l’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 14 giugno 2017]

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