Hic, Haec, Hoc

di Paolo Maria Mariano

Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, il vescovo di Autun, riportato allo stato laicale da Pio VII, il principe zoppo che per Napoleone valeva considerare un caso a parte perché “aveva il futuro nella testa”, il discendente di un’importante famiglia, dotato di un non comune acume politico, il trasformista, anzi il paradigma del trasformismo, aveva definito il triumvirato dei Consoli, succeduto in Francia al periodo del Terrore e al Direttorio, Hic, Haec, Hoc. E la formula aveva divertito la società parigina. Hic, il pronome dimostrativo maschile latino era riferito al Primo Console: Napoleone. E Talleyrand alla pronuncia di hic aveva forse aggiunto una sfumatura enfatica per accentuare l’identificazione col futuro imperatore (autoimpostosi tale, naturalmente). Haec, il dimostrativo femminile, espresso con un’intima tensione peggiorativa, era per Cambacérès, prudente politico, forse troppo per Napoleone, un eccellente amministratore tuttavia, per questo indispensabile al furioso stratega. Hoc, il neutro, era per Lebrun, a certificarne l’irrilevanza.

Napoleone non era turbato dall’acume di Telleyrand, anzi, pur non avendolo per nulla in simpatia, lo considerava con Chateaubriand la più lucida mente della sua epoca … almeno tra quelle che conosceva … almeno della Francia … escludendo, senza dirlo, dall’insieme di paragone forse se stesso. Semmai Napoleone, invece di preoccuparsi dei lazzi, sia pur non trascurabili per la qualità e il peso politico dell’autore degli stessi, proiettava davanti a sé il futuro della Francia che vedeva coincidere con il suo e voleva grandioso. E al contempo era afflitto dalla quotidianità. “I francesi s’immaginano che io mi arrovelli con grandi pensieri di potere e di guerra. E invece passo il mio tempo a occuparmi di questioni di cuore.” Ed erano questioni non sue, ma della famiglia. “Ho soprattutto fratelli e sorelle. E loro si ostinano ad avvelenarmi la vita e a disonorare ciò che io mi affanno tanto a innalzare.” Cito da La Conversazione di Jean d’Ormesson (pagine 66 e 68, rispettivamente), Edizioni Clichy, 2013.

La scena preparata da d’Ormesson è teatrale: è un giorno d’inverno tra il 1803 e il 1804; Napoleone sta concludendo un periodo di riforme profonde della Francia che rimettono in sesto un sistema in cui la moneta era stata svalutata del 99%, e i funzionari dell’esercito non ricevevano lo stipendio da più di un anno, ha effettuato un colpo di stato e un referendum confermativo lo ha favorito con più di tre milioni di voti favorevoli contro millecinquecento contrari, è Primo Console a vita, ha riorganizzato la struttura dello Stato, a partire dalla fondazione della Banca di Francia, la banca centrale, ha vinto a Marengo, ed è forse il più grande stratega militare della Storia, sebbene non potrà evitare di perdere prima a Lipsia nel 1813, per abdicare il 14 aprile 1814 e finire in confino all’Elba, e poi a Waterloo l’anno dopo, ripreso il potere per cento giorni, svaniti e conclusisi a Sant’Elena, circondato dal mare.

In quel giorno immaginato da d’Ormesson, Napoleone e Cambacérès sono soli e sono a colloquio. È un momento fatale: Napoleone esprime al Secondo Console la sua idea per il futuro prossimo. Pensa che la Francia sia pronta per un nuovo ruolo della figura forte e carismatica al comando, egli stesso, e che anzi forse inconsciamente lo desideri questo ruolo e voglia riportarsi non tanto alla monarchia, che è in odio al sentimento comune al momento, ma a qualcosa che ne esalti il destino, all’Impero, perché non è poi sopito il fascino di quello romano: Napoleone vuole farsi imperatore. E questo conclude la Rivoluzione: “Cos’è che ha prodotto la Rivoluzione? La vanità. E chi la concluderà? Ancora la vanità. È con i gingilli che si guidano gli uomini.” E questa è una lezione di Storia, in poco, un ritratto delle dinamiche del potere che emerge dalla conversazione immaginaria messa in scena da d’Ormesson. “Conversazione immaginaria – ma in cui tutte le parole prestate al Primo Console sono state da lui pronunciate in una circostanza o in un’altra”, spiega d’Ormesson. “Non mi sarei avventurato a inventare delle frasi che avrebbero potuto sembrare ridicole o esagerate.” Attenzione alla lezione di stile su cui dovrebbero riflettere tutti quelli che si avventurano nella letteratura per scrivere, ignari sia di quella (non si tratta solo di scrivere in maniera corretta: la letteratura va ben oltre) sia delle dinamiche di potere, d’interesse e di ottusità che regolano il comportamento corrente dell’editoria.

Continua a spiegare d’Ormesson: “Tutto ciò che dice Bonaparte – e anche la storia un po’ ingarbugliata dello scialle di Joséphine tanto ambito dalla sua cognata, Caroline Murat – figura nei documenti dell’epoca: racconti, rapporti, memorie … Conversazione con Jean-Jacques Régis de Cambacérès. Mi sono sentito più libero col futuro duca di Parma che con il Primo Console. Le sue idee sono meno forti di quelle di Bonaparte. Per due ragioni: prima di tutto, perché Cambacérès è meno forte di Bonaparte; e poi perché, a differenza del Primo Console, le tirate di Cambacérès sono per la maggior parte farina del mio sacco.” Un’altra lezione: per scrivere e prima di farlo bisogna studiare, paradossalmente, anche se si vuole solo descrivere il vento che filtra tra le foglie rossastre di un bosco alpino in autunno.

E poi d’Ormesson (della cui persona e della cui storia potrò parlare in un futuro intervento, sempre che forze e capacità personali me ne diano la possibilità) inganna. Non che sia bugiardo: non ha bisogno di essere patetico, come lo è ogni bugiardo, soprattutto se sistematico, figuriamoci, vista la qualità che mette in campo. Inganna perché ha una naturale levità nello scrivere che stempera – anzi nasconde – tutta la ricerca su cui la sua scrittura si basa. Il risultato è una stratificazione di senso: un gusto squisitamente francese, per così dire, banalizzando.

Così il lettore è solo accompagnato accanto a Napoleone, non investito dalla Storia che è stata intorno al Bonaparte, un uomo esorbitante, che si è innalzato da solo e per questo, tra le altre cose, ha anche portato la meritocrazia (di cui bisogna sempre discutere con avvedutezza ma non mancare di farlo) nell’amministrazione pubblica francese (un concetto che a noi è oggi spesso alieno ma che sarebbe fondamentale recuperare nell’amministrazione pubblica italiana), e questo va a suo merito. E Bonaparte, perché la Storia così va, cadde … “cadde, risorse e giacque”, sintetizza Manzoni. Al Congresso di Vienna che doveva stabilire il nuovo ordine dopo di lui … lui che aveva sconvolto l’Europa e che si era fermato solo davanti al generale inverno nella steppa russa … Napoleone ovviamente non c’era – era al confino dell’Elba, da cui sarebbe tornato per i Cento Giorni – Talleyrand invece sì.

 

 

 

 

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