di Antonio Lucio Giannone
Prima di entrare nel merito del libro di Ilderosa Laudisa, Chilometri d’amore nell’ obiettivo. Il Salento di Giuseppe Palumbo (1889-1959) (con una presentazione di Antonio Cassiano, Lecce, Edizioni Grifo, 2010) desidero fare qualche considerazione preliminare. Innanzitutto vorrei mettere in rilievo l’importanza dell’operazione editoriale che esce fuori dai canoni consueti non solo per il formato, lo spessore, il peso del libro ma anche per il suo contenuto che ci permette di conoscere e avere sotto gli occhi un Archivio fotografico sterminato, quello appunto di Giuseppe Palumbo, composto da 10 album per un numero complessivo di 1740 fotografie. In secondo luogo vorrei sottolineare che grazie a questa pubblicazione, la cultura salentina del Novecento tout court acquisisce definitivamente un personaggio, finora scarsamente conosciuto, che si colloca a pieno titolo accanto a quelli di altri artisti, scrittori, scienziati, studiosi che hanno cercato di cogliere i tratti distintivi dell’identità salentina.
Ma se tutto ciò è potuto accadere, il merito si deve principalmente a chi ha curato in maniera esemplare il libro, cioè a Ilderosa Laudisa, alla sua competenza, al suo metodo rigoroso di studio, allo scrupolo filologico con cui ha riproposto gli album di Palumbo, ha datato le fotografie e ha saputo leggere le didascalie, qualità, le sue, tutte ben note a chi si occupa di arte e cultura salentina in genere.
Ma veniamo ora più da vicino al volume che, come si è detto, permette al pubblico di fruire per la prima volta dell’Archivio fotografico che lo stesso autore, Giuseppe Palumbo, donò nel 1959, l’anno della morte, al Museo Provinciale di Lecce “Sigismondo Castromediano”. Ma quali sono le caratteristiche principali di questo singolare personaggio così come emergono dallo studio introduttivo di Ilderosa Laudisa e dal materiale visivo che contiene il libro? Ecco, mi sembra che si possano sintetizzare così: 1) innanzitutto la sua figura di fotografo “dilettante” che opera però in questo campo per più di mezzo secolo, dal 1907 circa, quando aveva diciotto anni, al 1959, come e più di un professionista quindi; 2) il duplice aspetto di fotografo e scrittore (o di giornalista colto e informato, se si preferisce) che ne fa un personaggio unico nella cultura salentina novecentesca; 3) la coerenza e la costanza dei suoi interessi, tutti rivolti all’esplorazione della sua terra; 4) il progressivo allargamento, nel corso del tempo, di questi stessi interessi a quasi tutti gli aspetti che caratterizzano il territorio, come vedremo più avanti. Per parafrasare il titolo di un famoso manifesto futurista di Balla e Depero, “ricostruzione futurista dell’universo”, si potrebbe parlare di una “ricostruzione fotografica dell’universo Salento” o del Salento-mondo, sicché l’Archivio di Palumbo può essere definito una sorta di enciclopedia o di summa visiva di questa terra, relativamente almeno alla prima metà del Novecento; 5) l’interesse per la conservazione e la salvaguardia del patrimonio artistico, paesaggistico, demologico del Salento che ne fa un anticipatore delle moderne problematiche riguardanti la tutela dei Beni culturali. E qui penso, oltre che al suo lavoro di fotografo, ad alcuni articoli apparsi sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” negli anni Cinquanta in cui dimostrava piena consapevolezza di tutto ciò, allorché denunciava le “vandaliche” distruzioni di monumenti plurimillenari per far posto a nuove costruzioni.
Ma vediamo ora di conoscere meglio Palumbo sulla scorta della ricostruzione analitica della sua attività fatta dall’autrice del libro, la quale – devo aggiungere – non ha trascurato niente, dalla “lettura” delle foto, nella quale ha dimostrato anche qualità, fiuto di detective in quanto è stata in grado di riconoscere personaggi e di fare emergere, a volte, vicende curiose, all’esame delle didascalie. D’altra parte, non è la prima volta che Ilderosa Laudisa fa scoprire o approfondisce criticamente figure di notevole spessore sia nel campo delle arti figurative che della fotografia in particolare. Vorrei citare soltanto le monografie dedicate ai fratelli Pietro e Augusto Barbieri fotografi (1983) e al pittore Michele Massari (1985) e ancora un altro splendido volume pubblicato sempre dalle Edizioni del Grifo nel 1993, La città dell’anima. La Bella Lecce di Francesco Barbieri e Salvatore Starace, alla quale ebbi il piacere di collaborare per la parte letteraria. In questi ultimi anni poi si è specializzata ancora di più nella storia della fotografia, offrendo altri contributi fondamentali, come il Ritratto di una città. Storia della fotografia leccese dell’800, apparso sempre con le Edizioni del Grifo nel 1995.
Palumbo dunque nasce a Calimera nel 1889 e già negli ultimi anni degli studi liceali, compiuti prima a Lecce presso il “Palmieri” e poi a Galatina presso il “Colonna” si rivela la sua passione per la fotografia, in tempi in cui non era ancora ovviamente un hobby di massa come diverrà in seguito. Le prime foto ritrovate da Laudisa risalgono infatti al 1907. Non si sa come sia nato questo interesse. Probabilmente dalla frequentazione di un laboratorio fotografico leccese, forse proprio quello dei fratelli Pietro e Augusto Barbieri che nel 1909 viene acquisito da Eugenio Lazzaretti. Il 1909 è già un anno di febbrile attività per il giovane Palumbo che fornisce alcune foto a Lazzaretti e a Giuseppe Chiriatti, suo professore di storia e filosofia al “Colonna” che gli chiede di fotografare i tre menhir di Zollino. Sempre a quest’anno risale la conoscenza di uno dei personaggi più autorevoli della cultura salentina del tempo, Cosimo De Giorgi, che aveva incominciato gli scavi nell’anfiteatro fotografati da Palumbo. Insomma si può dire che fin da questi anni giovanili il destino del Nostro sia già definitivamente segnato.
Ma quali sono i soggetti e le caratteristiche delle sue prime foto? Ecco, abbiamo già accennato ai monumenti preistorici, ai resti archeologici, ma si segnalano anche quelle dedicate alle vedute di paesi e ai lavori nei campi che sono, a mio avviso, tra le più significative di tutta la sua produzione. Laudisa fa notare che il giovane Palumbo si allontana dall’esempio di Pietro Barbieri in quanto anima gli spazi urbani di figure che danno a queste vedute, a questi monumenti una dimensione più quotidiana e affabile, come dimostra mettendo a confronto le foto delle Centopietre di Patù scattate dai due. Ma ancora emerge un altro aspetto del lavoro di Palumbo, il quale tende alla ri-costruzione dell’immagine piuttosto che al realismo puramente documentario dell’istantanea, per dare a queste immagini un valore icastico, fortemente rappresentativo. In alcuni casi si tratta di vere e proprie “composizioni” artistiche ispirate a opere pittoriche famose, come in alcune foto sulla vita nei campi. Ne vorrei segnalare due su cui fa cadere l’attenzione l’autrice. Quella intitolata Sosta meridiana, ad esempio, richiama un capolavoro di Manet, Déjeuneur sur l’herbe, mentre I contadini che tornano al lavoro fa pensare a uno dei più famosi dipinti della pittura italiana, il celeberrimo Quarto stato di Pellizza da Volpedo. D’altra parte, siamo in anni di profondi mutamenti in campo artistico e letterario. Al realismo, al verismo, com’è noto, nei primi anni del Novecento era subentrata un’arte e una letteratura più introspettiva che puntava all’approfondimento psicologico, allo scavo nell’interiorità, nella coscienza.
Intanto si allargano i soggetti delle sue foto, che arriveranno a toccare ogni aspetto della realtà salentina. Dal 1909 collabora alla rivista milanese “Varietas”, sulla quale escono alcuni suoi articoli, corredati sempre da foto, dedicati alla fabbricazione del carbone vegetale, ai monumenti megalitici, alla lavorazione del grano, all’anfiteatro, alla vendemmia, agli uliveti, ecc. Ma vorrei segnalare, in particolare, un servizio sulle Marine adriatiche tra Brindisi e Otranto, in cui l’autore descrive una gita in barca con alcuni suoi amici tra queste due località passando per S. Cataldo, S. Foca, Torre dell’Orso, i laghi Alimini. Si tratta di un vero e proprio reportage di grande interesse anche per gli studiosi della letteratura di viaggio, un filone di ricerca che si sta sviluppando in questi ultimi tempi. Così pure assai precoce è l’attenzione rivolta da Palumbo alla ceramica popolare salentina, la “figulina”, come la definisce nei suoi album. Ma non c’è settore salentino, si può dire, che non sia stato preso in considerazione da Palumbo nel corso degli anni. Provo a farne un elenco ma sicuramente è incompleto: il patrimonio artistico, artigianale, ambientale, paesaggistico, enogastronomico, turistico, i settori produttivi, il commercio, le feste. Ho scoperto, sfogliando il libro, che negli album di Palumbo c’è posto anche per la patata zuccherina, per i ricami e per i ventagli votivi.
Ma andiamo avanti nella delineazione dei momenti principali della sua attività. Un capitolo molto importante, ad esempio, è quello relativo alla collaborazione alla collana “Cento città d’Italia” dell’editore Sonzogno di Milano, che lo fa conoscere definitivamente a un largo pubblico. Laudisa ricostruisce accuratamente anche questa vicenda sulla base del carteggio con l’editore, da cui risalta, da un lato, la sua intraprendenza, perché è lui stesso che si propone per la realizzazione di alcuni fascicoli, e dall’altro la tenacia e la dignità con cui reclama i suoi diritti, anche di natura economica. Ne derivano ben quattro fascicoli ed esattamente: 1) Lecce, l’Atene della Puglia (1925); 2) Brindisi-Otranto (1925); 3) Gallipoli-Nardò-Galatina (1925); 4) La Grecìa salentina (1929). E anche qui, accanto alle foto, meritano di essere ricordati i testi in cui Palumbo descrive sinteticamente i luoghi e gli usi, i costumi, la lingua (nel caso dei paesi della Grecìa) degli abitanti
Nei primi anni Trenta aumenta la notorietà di Palumbo che assume nuovi incarichi. Il segno principale della sua affermazione, almeno in campo locale, è costituito forse da un articolo che il più noto studioso di storia patria salentina di quel periodo, il medico-umanista Nicola Vacca, gli dedica nel 1931 sull’Almanacco Il Salento, di Gregorio Carruggio. In esso l’autore lo definisce, forse non a torto, un “illustratore”. Con Vacca stabilisce un sodalizio destinato a durare nel tempo. In questi anni sviluppa anche la sua idea di creare un Archivio per l’identità salentina che sarà arricchito costantemente, come s’è detto, fino alla morte.
Aumentano anche le sue collaborazioni a periodici nazionali e locali e a prestigiose riviste specializzate come “Lares”, “Faenza”, “La ceramica”, mentre dal 1950 incomincia a collaborare alla “Gazzetta del Mezzogiorno”. Ma una precisa bibliografia degli scritti di Palumbo, che è un altro aspetto interessante del suo lavoro, si può vedere in calce al volume, a cura di Lorenzo Madaro che pubblica pure una nota sul conferenziere e cura l’indice dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli.
Durante gli anni Trenta realizza numerose foto sugli sventramenti a cui venne sottoposta la piazza principale della città di Lecce, piazza sant’Oronzo, per fare spazio all’anfiteatro, conservando quindi una memoria indelebile dell’antica sistemazione urbana e manifestando anche qui implicitamente la sua contrarietà a quanto stava avvenendo. E sono foto davvero emozionanti che documentano lo scempio urbanistico che si compì in nome del preteso blasone di romanità a cui si aspirava per motivi ideologici. Così pure emozionante è una foto della Basilica di Santa Croce in tenuta di guerra, cioè protetta da veri e propri bastioni nel primo ordine della facciata per eventuali bombardamenti.
Un altro spunto interessante che offre l’autrice nella ricostruzione del profilo biografico-intellettuale di Palumbo è il confronto con gli Alinari, i celebri fotografi di Firenze, da cui si ricava la differenza tra lo stile freddo e distaccato di questi e quello cordiale e comunicativo del salentino che rifugge dagli aspetti monumentali e celebrativi dei centri da lui fotografati e preferisce invece soffermarsi sugli aspetti minori, “psicosociali”, come li definisce Laudisa.
Dopo la seconda guerra mondiale, negli anni Cinquanta altri incontri importanti per Palumbo sono quelli con Vincenzo Ciardo con cui ha in comune l’interesse per l’ulivo, simbolo del Salento, sua “deità casalinga”, come lo chiama il pittore, e soprattutto con il fotografo Salvatore Starace e lo scultore e disegnatore Francesco Barbieri allora impegnati a realizzare la campagna fotografica per la mostra Bella Lecce. Con questi due, e soprattutto con Starace si impegna a fotografare soggetti comuni anche se ne dà letture diverse, e attraverso il rapporto con loro, soprattutto con Barbieri, si apre a una maggiore comprensione del barocco, stile che Palumbo non aveva dimostrato di apprezzare fino a quel momento in modo particolare, come fa notare l’autrice del libro.
Gli ultimi anni di vita sono dedicati soprattutto alla cura costante del suo Archivio che è diviso in sei parti: Paesi, Genti, Risorse, Curiosità preistoriche, protostoriche e storiche, Uomini egregi, Appendice (fotografie di indole varia). Laudisa lo ha pubblicato, rispettando sostanzialmente l’ultima volontà dell’autore, con grande scrupolo filologico, proprio come si fa quando si approntano le edizioni critiche di un’opera letteraria, seguendo certi criteri che espone lei stessa, ai quali rimando quindi gli interessati.
Ma per concludere, vorrei soffermarmi su un punto a cui ho appena accennato. Nella prima sezione, Paesi, il primo soggetto, Lecce, è diviso in due parti, Lecce antica e Lecce moderna e Lecce minore. Nella prima c’è una visione generale della città dall’antichità appunto fino alle costruzioni moderne degli anni Venti e Trenta e oltre. L’età barocca qui almeno non ha un particolare rilievo, non viene privilegiata, ma è messa alla pari insieme alle altre. Ci sono ovviamente le chiese, i palazzi leccesi del Seicento ma manca un’attenzione specifica a questo periodo. Nella seconda parte, Lecce minore, che risale in buona parte agli anni Cinquanta, c’è invece tutto un susseguirsi di porte, portali, loggette, cortili, finestre, finestrette ma soprattutto balconi, balconate, balconetti risalenti al periodo barocco. Ebbene, a me sembra che questo rinnovato interesse per questo periodo da parte di Palumbo sia dovuto all’influenza del maggiore scrittore salentino del Novecento, Vittorio Bodini, l’interprete più profondo dell’anima barocca di Lecce, l’inventore anzi dell’immagine letteraria della città come “condizione dell’anima”.
Come si può spiegare questa influenza? Faccio anch’io un’ipotesi. Abbiamo detto che il fotografo salentino dal 1950 incomincia a collaborare alla terza pagina della “Gazzetta del Mezzogiorno”, dove anche Bodini pubblicava i suoi bellissimi reportage dalla Spagna, da cui era appena tornato, e altri scritti di critica e d’invenzione, che sicuramente Palumbo leggeva. Tra le prose che escono sulla “Gazzetta”, la più straordinaria, a mio avviso, è intitolata Barocco del Sud, che uscì prima su una rivista fiorentina, “Letteratura/Arte contemporanea” nel 1950 e poi, nel marzo dell’anno dopo, proprio sul quotidiano barese col nuovo titolo di Psicologia del barocco leccese (ora si può leggere nel vol. di V. Bodini, Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa, 2003, pp. 79-83). Qui Bodini, com’è noto, trovava proprio nel barocco la chiave di lettura della sua città e di un’intera civiltà. Ma non si tratta del barocco come fenomeno storicamente determinato, limitato al Seicento, che pure caratterizza l’architettura delle chiese e dei palazzi leccesi, ma del barocco come categoria che trascende il tempo e anche il mondo delle arti e diventa invece condizione dello spirito in cui si riflette un disperato senso del vuoto, un horror vacui, che si cerca di colmare con l’esteriorità, l’ostentazione, l’oltranza figurativa.
Ma non voglio dilungarmi molto su questo argomento. Voglio solo citare un brano tratto da questa prosa per finire:
“E balconi, un’infinità di balconi, in cui un assortito bestiario favoloso o domestico, grifoni, draghi, chimere, capre, asini dalle gorgerine inamidate, con assoluta indifferenza è messo accanto a figure di monacelle, avventurieri spagnoli, angeli, occhialuti notai, ragazzetti, dame dai seni a coppa di gelato. Tutto quest’arido popolo continua a spiare il transito delle generazioni per le candide vie dove il tufo mette toni dorati affiorando dalle screpolature dell’intonaco. Tanta dovizia di balconi bellissimi, alcuni dei quali si sporgono inaspettati da costruzioni senza pretese, fanno supporre che sia questo il luogo più importante della casa. E a pensarci bene, le donne, al cui uso son destinati, hanno un’anima da balcone, e qui per buona parte dell’anno è il loro salotto e il loro giardino”.
Ecco, mi sembra che le foto dedicate ai balconi, oltre a essere influenzate probabilmente da questo mirabile brano, costituiscano in ogni caso la più fedele trasposizione visiva di esso e potrebbero degnamente illustrarlo. E questo, mi sembra, è il maggiore complimento che si possa fare a Giuseppe Palumbo.
[in “Apulia”, a. XXXVII, n. 1, marzo 2011, pp. 129-135]