Vie traverse 3. Uscita di scuola

di Gianluca Virgilio

Invidio quei genitori che arrivano davanti alla scuola dei loro figli all’ultimo minuto. La mia attesa di solito varia dal quarto d’ora ai cinque minuti, quanto basta per dare un’occhiata in giro. Volgo le spalle al Consorzio agrario, appoggio il piede al muro, sostenendomi sull’altro in equilibrio, e aspetto.

L’edificio scolastico elementare di epoca fascista mi si para davanti in tutta la sua lunghezza, con la fuga di finestre disposte su due piani e il balcone centrale sporgente che conferisce alla costruzione una certa monumentalità. Di fronte si aprono i giardini, piantati ad alberi di bella vista che svettano sopra un manto verde di prato inglese. Piazza Fortunato Cesari è la piazza novecentesca della città. Alla mia destra, la gran fabbrica della clinica San Francesco, davanti a me, la recinzione dei giardini. Quando fu che vennero rinchiusi, questi giardini? A diciott’anni stavamo ancora sul muretto semidiruto, ma buono per sederci sopra. A vent’anni c’era già una recinzione con tanto di alabarde: o dentro o fuori. E noi, che eravamo sul limitare, tutti fuori. D’accordo, bisognava bonificare la zona, impiantare i giochini dei bambini, salvaguardare le panchine dei vecchi, d’accordo. Ma io sto parlando di un’altra cosa, di quelli che si trasferirono in piazza Alighieri, distesi per terra, sporchi, allucinati, prima di essere portati via e rinchiusi in qualche comunità. Molti di loro, bisogna andare al cimitero per trovarli.

Lungo il muretto c’era una lunga siepe di pino profumato e ora mi sembra impossibile che ci passassimo dentro carponi come un treno in una galleria. L’ho letto da qualche parte o davvero durante i nostri giochi infantili una volta ho messo la mano su un pezzo di cacca? Negli anni mi sono convinto che i bambini si nascondessero lì dentro per fare i loro bisogni. I bagni pubblici erano troppo lontani e sporchi più che la terra, come oggi questi che hanno costruito nuovi, sempre rotti, del resto. Il leccio alto, fronzuto, era una casa spaziosa con una comoda scala che ti portava in alto, fin sulla cima, da cui potevi vedere in lontananza la chiesa madre quasi alla tua altezza. Mio Dio, combatto sempre, ogni giorno, ogni minuto, contro la nostalgia, contro tutte le nostalgie, le svenevoli nostalgie che ingombrano l’animo. Pertanto, so bene che tutto è destinato a passare, noi per primi, coi nostri affetti e tutto il nostro mondo, so bene quanto sia parassitario lo spirito di chi vive solo per ricordare. Pertanto, io non sono, io non voglio essere nostalgico! Però, come non rimpiangere le siepi di pittosporo, coi loro fiori bianchi di maggio, profumatissime più di un gelsomino. No, non mi lamento che ora tutto questo non ci sia più, mi limito a constatare come una diversa potatura dell’albero e l’idea fissa del prato inglese abbiano avuto il potere di rompere una scala naturale ben fatta e di travolgere una casa vegetale dove si svolgevano mille giochi, di schiantare una siepe che ti faceva innamorare, come se fosse intervenuta un’alluvione che porta via tutto senza chiedere il permesso a nessuno. Del resto, non sono contento di avere un parco giochi per i miei bambini, con tanti giochini diversi, tutti di plastica, tutti recanti il certificato di osservanza delle norme UE, che mi garantiscono che mai mia figlia potrà farsi male, almeno non giocando con quei giochini? Inoltre, ora l’albero è più bello, non ha più la forma di un ampio cespuglio che non conosce la sega del potatore, ma proprio quella di un albero, preciso preciso, con tanto di fusto che s’innalza sopra l’erbetta verdognola. D’estate, la si innaffi di notte, per cortesia!

Era proprio in quel luogo che facevamo le partite di pallone? La porta con un solo palo, il tronco d’una ghianda, e l’altro bisognava segnarlo con una pietra, che poi non si sapeva mai s’era goal oppure no! Era uno dei cento campetti cittadini. E tutti gli altri, dove sono finiti? Ai miei studenti devo assegnare una ricerca: prendi uno stradario della città, chiedi a tuo padre, o a tuo nonno, se tuo padre è troppo giovane, di cerchiare i luoghi dove ha giocato al pallone quand’era ragazzo. Fatti raccontare (e trascrivilo) un pomeriggio tipo trascorso in un campetto. Quindi fai le tue considerazioni personali. Triste memoria dei campetti, ricoperti da un’unica immensa colata di cemento! I miei studenti, poveri loro, pagano fior di euro per tirare calci al pallone!

Un vigile davanti a me disciplina il traffico qualche minuto prima del suono della campanella, quando alla spicciolata, poi tutti insieme come uno sciame di api attratte dai fiori, madri e padri si affrettano all’ingresso della scuola. La consegna del figlio al genitore da parte dell’insegnante avviene sul limitare del recinto scolastico, dove all’istituzione-scuola subentra l’istituzione-famiglia nella custodia del bambino. Il vigile fischia alla minima infrazione e nessuno può sgarrare d’un centimetro, tutti dentro le strisce azzurre, pure l’assessore che arriva con una macchina grande come un camion, così, giusto per garantirsi una certa visibilità. Sopra di noi, entro il recinto alabardato, s’aprono alti pini e radi. Chi si permetterebbe ora di tirare di fionda pallini di piombo colati di bocca misti a saliva nella sacca di pelle contro le tenere facetule? Lu Culetta io me lo ricordo ancora intendo all’operazione venatoria, ma come tutti i ricordi, rivederlo oggi con la freccia in mano sarebbe anacronistico. E poi, avrà i miei anni, dei figli come li ho io, chissà dove li manda a scuola?

Drinnnnnnn: escono i bimbi di scuola, con zaini tutti uguali, pesanti, goffi. Ho bisogno di guardare i visi delle mie bambine per riconoscerle: sono state a scuola di omologazione.

Poi, mentre andiamo verso l’auto, cominciano a litigare per chi salirà davanti: si strattonano, lavorando di gomito, mentre io cerco di dividerle e di metterle a tacere. Però, dentro di me penso che, in fondo, io e mia sorella, trent’anni fa, non eravamo poi così diversi. Andiamo a casa, è ora di pranzo. Poi, se ci andrà, faremo un giro in campagna.

[2006]

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