La speranza dell’umanità è fondata sulla conoscenza dell’altro

di Antonio Errico

A Renato Minore che in un’intervista per Il Messaggero gli chiede per quale motivo la speranza dell’umanità si fonda sulla conoscenza, Marc Augé, intellettuale di riferimento per una antropologia della tarda modernità, risponde che tutti i mali del mondo vengono dall’ignoranza e dalla menzogna.

Non saprei dire se è solo da questo che provengono tutti i mali del mondo. Probabilmente le ragioni sono anche altre, molte altre, e quella più grande, contro la quale nessuno può farci nulla, consiste nella circostanza che nel mondo esistono sia il bene che il male, e se il mondo sopravvive è per il fatto che il bene supera di molto, moltissimo, il male. Anche se talvolta tutto sembra porsi come dimostrazione del contrario.

Però è vero che la speranza dell’umanità si fonda sulla conoscenza. Resta da capire su quale conoscenza, quali sono le cose che si devono conoscere per non aprire varchi al male o per non farsi, consapevolmente o inconsapevolmente, artefice del male; resta da capire se esista una conoscenza in particolare su cui sia possibile fondare la speranza dell’umanità.

Se si rivolgessero domande di questo genere a tutta l’umanità, ciascuno degli umani darebbe una risposta diversa: perché il significato che diamo alla parola conoscenza è assolutamente soggettivo, come il significato che diamo alla parola amore, oppure odio, oppure felicità, o fantasia, o nostalgia, o desiderio. Come i significati che diamo a tutto quello che ci riguarda e ci coinvolge intimamente. La conoscenza ci riguarda e ci coinvolge intimamente. La conoscenza è una condizione dell’essere e dell’esistere assolutamente diversa dall’istruzione, dalla formazione, dall’informazione, che alla conoscenza possono essere funzionali ma non necessariamente correlate. E’ una rete di significati intrecciata con le maglie dell’esperienza, dell’intuizione, della curiosità, dell’esplorazione dei fatti e dei fenomeni, della passione per il mondo, dell’attrazione che esercitano le cose sconosciute ma anche del costante tentativo di superare le paure che esse ci fanno.

C’erano una volta contadini ignoranti e naviganti senza nozioni che avevano conoscenza straordinaria della terra e del mare, e c’erano donne senza alfabeto che sapevano lenire il dolore della vita soltanto con le parole di una narrazione.

Su quale conoscenza, allora, si può fondare la speranza dell’umanità?

Certo, dev’essere una conoscenza essenziale. Una di quelle conoscenze di cui non si può fare a meno, quelle che si oppongono all’assedio o al serpeggiamento del male e della menzogna, all’insidia della barbarie. Una conoscenza che non sia fine a se stessa, che non abbia scadenza. Che possa salvare qualcuno, anche un uomo soltanto, perché un uomo soltanto ha lo stesso valore dell’umanità per intero. E’ l’umanità per intero.

Quale conoscenza, dunque, che possa valere per oggi e per domani e domani l’altro, che abbia in sé la possibilità di salvezza.

Nel tempo che viviamo, forse più che in qualsiasi altro tempo, individuare quale sia la conoscenza essenziale forse è facile, estremamente facile. Ogni altra conoscenza viene inevitabilmente dopo. Ogni altra conoscenza, fosse pure quella che riguarda i segreti più segreti dell’universo, viene dopo: deve venire necessariamente dopo.

Per comprendere quale sia la conoscenza che può salvare l’umanità, basta semplicemente guardarsi intorno. Se ci si guarda intorno si capisce che è la conoscenza che noi dobbiamo avere dell’altro e quella che l’altro deve avere di noi. Non si può fare a meno di elaborare una conoscenza di colui che per noi è il forestiero, il profugo, il migrante, il fuggitivo, l’esiliato, né il forestiero può fare a meno di avere conoscenza di noi. Non si può fare a meno di una conoscenza che sia esperienza di reciprocità. Si tratta di una conoscenza che deve arrivare ad un punto tale da superare il termine e il concetto di “altro” per adottare soltanto la dimensione del noi.

C’è una motivazione al fondo della indispensabilità della conoscenza reciproca e consiste nel fatto che la conoscenza implica la comprensione. La comprensione è l’esito di un dialogo, un confronto, la costruzione di significati condivisi e di finalità comuni. La comprensione, i significati condivisi, le finalità comuni, generano progresso delle civiltà. La mancanza di comprensione, i significati divergenti, le finalità particolari generano il conflitto.

Non esiste un solo luogo dove matura la conoscenza dell’altro inteso come parte del noi. Non esiste una disciplina con la quale si insegna. Non esistono maestri.

I luoghi devono essere tutti quelli che ognuno attraversa, da solo o con gli altri. Le discipline sono tutte ma prima delle discipline viene un qualcosa che gli umani chiamano umanità. In quella cosa che gli umani chiamano umanità, si è tutti autodidatti. Per sempre. Da quando si aprono gli occhi per la prima volta a quando li si chiude per l’ultima, non si fa altro che studiare e ripassare capitoli di umanità, senza maestri oppure con un numero incalcolabile di maestri, che stanno sui libri o che incontri per strada.

Senza questa conoscenza dell’altro che è parte di noi, ogni altra conoscenza di filosofia e matematica, di fisica e biologia, di storia e letteratura, ogni teoria, ogni formula, ogni tecnologia, ogni scienza e ogni poesia, ogni sapienza e ogni dottrina sono assolutamente inutili. Perché non servono a fare da fondamento alla speranza dell’umanità.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 7 giugno 2017]

 

 

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