A proposito di Enfance salentine di Gianluca Virgilio

di Annie e Walter Gamet

“L’Io è odioso”, scriveva Blaise Pascal, conformemente all’ideale classico di buona creanza del XVII secolo; formula incisiva alla quale, vista la copiosa produzione autobiografica contemporanea, potremmo essere tentati di aderire. Infatti, questo “io” ipertrofico che provoca in questo genere di scritti l’onnipresenza dell’ “ego”, contemporaneamente autore, narratore, personaggio centrale del racconto retrospettivo della propria vita, diventa troppo spesso egocentrismo nostalgico, auto giustificazione compiacente, peggio ancora esibizionismo. Se questi testi soddisfano il bisogno degli autori di mettere in piazza la loro confessione, spesso fanno fatica a suscitare interesse nei lettori.

Alcuni scrittori tuttavia riescono ad evitare in maniera meravigliosa questo scoglio, Gianluca Virgilio ne fa evidentemente parte. Quando, in  Enfance salentine, evoca i ricordi personali della «prima stagione della sua vita» nel Salento degli anni 50-60 del XX secolo, ciò che attinge dalla propria esistenza, è la materia di un’opera letteraria, facendo vedere, nell’atto stesso di scrivere, proprio lo spettacolo della propria coscienza. E nella misura in cui dalle sinuosità della scrittura viene alla luce l’immagine di un essere che tiene più all’autenticità che alla gloria, lo spazio autobiografico creato in tal modo – lì dove ciò ch’era destinato all’oblio riprende vita- accoglie il lettore in maniera del tutto naturale.

Il lettore di Enfance salentine, non troverà nulla di spettacolare sotto la penna di Gianluca Virgilio. Questi gli si rivolge come ad un amico di lunga data, semplicemente, per evocare i luoghi d’un tempo, restituire una calda presenza alle persone scomparse, condividere il ricordo delle esperienze passate, senza alcuna volontà d’impressionare chicchessia.

Per quel che riguarda il contesto geografico ad esempio, non leggerà affatto una descrizione pittoresca o ideale, quanto piuttosto l’invito a scoprirlo al ritmo della propria curiosità di bambino o adolescente desideroso di appropriarsi dei luoghi in cui vive. Essenzialmente circoscritti a Galatina, con qualche estensione a Corigliano d’Otranto, dai nonni materni, e a Leuca, la stazione balneare in cui la famiglia trascorre il mese di agosto, essi costituiscono l’universo del bambino, il suo primo contatto col mondo che Gianluca Virgilio, diventato adulto, riesce a descrivere, ricordandosi tutto, la vegetazione, gli odori, le luci che mutano secondo le particolari condizioni climatiche, con una tale puntuale precisione, che il lettore finisce egli stesso per ritrovarvisi come a casa sua.

L’ambiente familiare è evocato con la stessa naturalezza. I mezzi materiali sono modesti ma sufficienti per poter approfittare dei piaceri semplici dell’esistenza, e negli anni 60-70, anche il sud Italia conosce un contesto economico relativamente favorevole che permette di accedere all’automobile personale, alle vacanze al mare e addirittura al possedere la casa a lungo desiderata. Anche se l’autore non cela nulla dei rapporti tesi tra suo padre e la famiglia della madre ad esempio, né dell’approccio diverso nei confronti dell’esistenza tra un padre letterato e una madre più pragmatica,  lo fa senza alcuna messinscena né drammatizzazione, senza giudizio, ma così come egli li ha percepiti nell’ingenuità dei suoi giovani anni, cosa che non esclude lo sguardo divertito dell’adulto, la distanza creata dall’umorismo che si mescola benevolmente alla sincerità del suo affetto.

Gianluca Virgilio fa partecipare il lettore anche alla spensieratezza dei suoi giochi con i ragazzini del quartiere, all’atmosfera colorata delle feste locali tradizionali animate da tutta una gente piena di vitalità, agli incontri privati tra adolescenti durante le vacanze, altrettante esperienze atte a stendere una galleria di ritratti contrastati, buffi, di tante persone frequentate un tempo, poi scomparse dal suo universo, ma non dimenticate, come Uccio Pensa, le due Marie, la famiglia Brambilla, ecc.

Un «io» puro senza la presenza degli altri, senza cornice né contesto, si rivela inconcepibile, Enfance salentine può dunque essere apprezzato come un documento autentico su un ambiente in una data epoca e in un luogo ben preciso. Ma questo aspetto del libro non sarebbe così prezioso se Gianluca Virgilio non facesse leggere un’opera le cui qualità letterarie sono innegabili. Infatti, questo racconto reale di vita si presenta come una sapiente costruzione retrospettiva, mediante l’esplorazione delle sensazioni e delle emozioni sentite nel momento delle esperienze vissute, del passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

 

Il tipo di composizione scelto, ad esempio, è estremamente significante. Un’apparente linearità mette in luce la cronologia degli anni di formazione. Il bambino si sviluppa nel corso delle pagine, fin dai suoi ricordi più remoti quando si aggrappa ancora alla mano della sua mamma per affrontare la folla della festa patronale fino all’età di quindici anni, segnata dalla fine delle villeggiature a Leuca. Alcune tappe verso la conquista dell’autonomia personale sono sottolineate in modo particolare, come il diritto di andare a giocare al di là della Via di Gallipoli, frontiera simbolica che permette di sfuggire allo sguardo dei genitori, poi i pochi episodi di febbre che operano ogni volta una mutazione fisica e intellettuale, per finire i capitoli su Leuca, consacrati essenzialmente all’adolescenza, agli incontri che sconvolgono le certezze, trasformano in profondità, aiutano a trovare la propria strada.

Ma malgrado qualche paletto e qualche discreto riferimento cronologico, la successione dei capitoli che compongono le parti del libro risponde a tutt’altra logica, quella della memoria. Lungi dal limitarsi ad una concatenazione di episodi, l’esperienza vissuta ingloba molteplici sensazioni ed emozioni che si giustappongono e si fondono  insieme nella consapevolezza del tempo già passato e di quello ancora a venire. Così Enfance salentine si apre su una delle esperienze più forti e dolorose, la morte. Quella del nonno materno al termine di una vita che il ragazzo di dieci anni ha potuto in parte percepire di persona, ma anche quella del nonno paterno che muore poco dopo la nascita dell’autore e del quale ha potuto ricostruire il triste destino solo attraverso il racconto minimo che gliene è stato dato.   Citiamo anche due racconti centrali che danno al libro la sua profondità retrospettiva: il primo, la luminosa rievocazione d’una ragazzina di quindici anni giunta in pellegrinaggio a Galatina in occasione della festa dei santi patroni, la madre dell’autore così come lui non ha potuto mai vederla; in una sorta di  mise en abyme, l’associazione di idee con l’evocazione delle ultime tarantate di un capitolo precedente dà luogo a questo racconto presentato come la trascrizione di un ricordo più volte ascoltato quando affiorava spontaneamente alla mente di sua madre sulla via di Corigliano e lei rammentava la sua gioventù davanti ai suo figli. Nel secondo, divertente visione tentacolare dell’invasione dello spazio familiare da parte dei libri, ma soprattutto espressione densa di sensibilità del legame speciale di Gianluca Virgilio con il padre a proposito di una passione condivisa sin dall’infanzia, l’autore lascia che il ricordo si prolunghi nel presente della scrittura. Questa sottile estensione del tempo in rapporto al periodo limitato del racconto, al contempo verso il lontano passato e verso il futuro, e parallelamente la concentrazione dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta, fanno pensare immancabilmente a Marcel Proust. I ricordi si sovrappongono, tutte le estati sono riunite come in una sola, non è più utile presentare l’età di Gianluca a Leuca di quella di Marcel a Balbec. Ma quando alla fine dell’ultimo soggiorno a Leuca, piccola stazione balneare dell’estremo sud Italia, Gianluca Virgilio la designa come la sua Balbec, questa reminiscenza letteraria non è né gratuita né anodina. È il colore del suo mondo interiore in quel momento, suscettibile di associarsi, nello spazio di una vera e propria complicità culturale, a quello dei suoi lettori…

Restano ancora numerosi aspetti di Enfance salentine sui quali ci piacerebbe attardarci, come le amicizie, le figure femminili che attraversano il racconto, ecc., ma lasciamo piuttosto al lettore il piacere di scoprirle. Non vorremmo tuttavia chiudere l’introduzione senza osservare quest’altro aspetto fondamentale della profondità retrospettiva dell’opera e del suo legame col presente della scrittura: il modo in cui Gianluca Virgilio riferisce la nascita della sua vocazione di scrittore. Infatti, perché tuffarsi in fondo ai ricordi d’infanzia e far emergere le peripezie della propria esperienza personale, se non per ritrovare il modo in cui egli è diventato quello che è?

I libri fanno parte del suo universo fin dalla tenera età. Ci sono dapprima quelli che manipola sotto lo sguardo di suo padre prima ancora di poterli leggere egli stesso, quelli il cui numero e la catalogazione lo affascinano nel labirinto della biblioteca comunale, poi i fumetti che si accumulano in camera sua a Galatina e che porta con sé in gran numero a Leuca, i racconti, i libri d’avventura e le storie fantastiche che lui divora e che, come i film, nutrono la sua immaginazione, facendogli vivere per procura delle avventure straordinarie molto più esaltanti della sua vita reale in quel momento. Infine, quando nell’adolescenza tutto questo viene abbandonato a vantaggio della scoperta delle idee astratte e degli scambi intellettuali con gli amici ammirati, quel che cambia del tutto è il genere di libri ricercati e il rapporto intrattenuto con essi, ma non la sete di letture, anzi, al contrario.

In Gianluca Virgilio, la totale immersione nella lettura, vera e propria ascesi, risponde ad un’esigenza interiore profonda: formarsi alla scrittura. I suoi primi saggi di redazione di un diario si rivelano infruttuosi, ma questi tentativi abortiti hanno almeno il merito di mettere in luce agli occhi del giovanissimo autore la portata del cammino da percorrere per giungere a «scrivere bene e scrivere di tutto». All’inibizione e all’incapacità di dare una qualsiasi profondità alla sua vita dovrà succedere la volontà d’imparare metodicamente il mestiere di scrittore, come l’artigiano conosce il suo, per trovare «le parole giuste» da mettere sotto la penna e giungere a quello stato in cui l’atto di scrivere non è più che un tutt’uno con la vita stessa. Il libro ha quindi in parte per soggetto la sua stessa redazione, e per il lettore, non è uno dei più trascurabili piaceri nella lettura il trovare espresse con tanta esattezza le difficoltà che è stato necessario sormontare per poterglielo far leggere.

Nella cornice della leggera relazione dei suoi ricordi, Gianluca Virgilio ha visibilmente acquisito la capacità stilistica che gli mancava un tempo, di variare all’infinito i registri della sua espressione. Nel corso dei capitoli, che si guarda bene dal legare tra loro in maniera troppo pesante, preferendo lasciare  a ciascuno di essi il valore d’un quadro, le parole e i ritmi cercano di restituire in tutta la sua globalità la soggettività dello sguardo posato sulla vita. La lunghezza di certe frasi a volte potrà sorprendere il lettore, tuttavia non è mai gratuita. Una cascata impressionante di subordinate e di incisi può rivelarsi necessaria per rendere intellegibile l’insieme inestricabile delle impressioni e sensazioni del momento, ad esempio la pausa di Montesano sulla via delle vacanze; è anche possibile, come nell’ultimo capitolo del libro, consacrato alla scrittura, che un progressivo chiarimento di un flusso d’idee ancora confuse alla nascita giustifichi una lenta ed incessante riformulazione prima della decantazione che porterà alla parola giusta. In altri momenti, la narrazione si accelera, un’intera vita, quella del nonno Pietro, forma un breve capitolo dalla scrittura neutra che non valorizza né sminuisce i fatti raccontati, ma in cui la scelta e la giustapposizione riescono a comunicare l’emozione molto meglio di lunghe argomentazioni. Un unico dettaglio compone talvolta un ritratto e quando una capigliatura bagnata posta sulla testa di una ragazza che esce dal mare è sufficiente a lasciare intuire l’intensità dell’incontro amoroso, si vede fino a che punto Gianluca Virgilio possiede anche l’arte del cancellare se stesso per offrire a ciascuno dei suoi lettori il privilegio di ritrovare la singolarità di un’esperienza interiore.

Adesso è davvero ora di lasciare che il lettore diventi quell’amico di lunga data per il quale il libro Enfance salentine è stato composto. Avrà dapprima la grande fortuna di scoprire Marangella, preludio dedicato a Gianluca Virgilio da Antonio  Prete che, in una prosa altamente poetica, lascia affiorare qualche momento della propria infanzia salentina nella masseria di suo nonno. Con la distanza degli anni, i contorni del ricordo e dei luoghi si sono lievemente sfumati, per costituire la tela di fondo da cui si stagliano, sorprendentemente presenti, alcuni quadretti di gioie semplici gustate in seno alla natura. Le luci brillano ancora e le voci del passato si fanno sentire sempre dal fondo della memoria in cui hanno impresso, un tempo e per sempre, l’accordo tra l’uomo e l’universo.

Oggi, il Salento dei ricordi comuni a Gianluca Virgilio e Antonio Prete si è già molto trasformato. Dialetti e tradizioni si travestono in attrazione turistica, masserie si trasformano in alberghi di lusso, le spiagge accolgono ormai una folla cosmopolita e variopinta. Ma per fortuna, il potere della letteratura è tale che essa restituisce a ciascuno quel che il tempo gli ruba. Abbiamo evocato Marcel Proust; anche se una deplorevole folklorizzazione mercantile del suo ricordo  sulle spiagge di Normandia da lui frequentate ha sostituito da molto tempo l’atmosfera mondana della sua epoca, vediamo bene che La Recherche continua ad offrire ad ogni lettore vero, per quanto lontano possa essere nello spazio e nel tempo, l’accesso alla singolarità di una coscienza per attingervi la portata della propria esperienza del mondo. In quanto lettori, non possiamo che essere enormemente grati a simili scrittori che giungono a far emergere dal fondo della loro memoria le fragili impronte deposte dal reale nella loro coscienza. Leggiamo quindi Enfance salentine di Gianluca Virgilio, lungo le sue soste o la sua corsa, facciamo nostro quel mondo di sensazioni e d’immagini: riconoscere l’altro nella sua singolarità, è anche un’opportunità per stare noi stessi più essenzialmente al mondo.

[Introduzione a Enfance salentine di Gianluca Virgilio (Edit Santoro, Galatina, 2016) scritta da Annie e Walter Gamet e tradotta dal francese da Anna Maria Mangia.]

 

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