La Cinquecento L e altri particolari
Cerco di risalire ai tempi in cui ebbero inizio le passeggiate con papà, e mi ritrovo ancora ragazzo, che guido la Cinquecento L color blu di mia madre. Un ragazzino senza patente se ne andava in giro per il paese, attento a non incorrere in qualche vigile, e desideroso di farsi vedere dai compagni di scuola alla guida di un’auto! La tipica situazione interpretabile in chiave edipica: ho approfittato dell’handicap di mio padre, poliomielitico agli arti inferiori e impedito nella guida, per impossessarmi dell’auto di mia madre prima del tempo, a quattordici, quindici anni appena. In famiglia, difatti, guidava solo mia madre, che si era dovuta accollare il compito di autista, un ruolo maschile, secondo il suo modo di pensare, cui lei si prestava a malincuore, facendo di necessità virtù, perché, insomma, in casa c’era proprio bisogno di qualcuno che guidasse l’automobile. E allora, visto che mio padre non poteva guidare e noi figli eravamo ancora piccoli, aveva frequentato la scuola-guida, lei che a scuola ci era andata molto tempo prima e solo per pochissimi anni. Così, appena io crebbi un po’ e cominciai a rubarle l’auto, mia madre mi sgridò, si preoccupò e alla fine mi diede le chiavi. Infatti, la mia precocità le ritornava utile, poiché, quando ero libero dai miei impegni, la alleggerivo di qualche incombenza, come andare a prendere mio padre o accompagnarlo a scuola, fare la spesa, o sbrigare le faccende in paese. I miei genitori dimostravano molta apprensione ogniqualvolta chiedevo di guidare l’auto, e mi dicevano di tenermi alla larga dai vigili urbani. Suppongo che essi contassero anche su una certa indulgenza dei vigili che, in una cittadina di piccole dimensioni com’era la nostra, dove tutti si conoscono, si spera siano un po’ accondiscendenti e, se non la fai grossa, che chiudano un occhio. Avevo esattamente quindici anni –nel giugno 1978, lo ricordo bene, perché da quell’anno non andammo più in vacanza a Leuca– quando facemmo il quinto e ultimo trasloco nella casa finalmente nostra, e in quell’occasione diedi in famiglia più che una mano per trasportare tutto ciò che una Cinquecento L con portapacchi comprato per l’occasione poteva trasportare da una casa all’altra, comprese diverse centinaia di libri e riviste di mio padre. Eravamo relativamente poveri, ma i libri, essendo mio padre un professore di scuola, non mancavano, anzi, a detta di mia madre, ce n’erano fin troppi.
Se ripenso alle case in affitto che abbiamo abitato, me le vedo sfilare davanti una dopo l’altra come pezzi del mio passato familiare, immagini di ambienti diversi con le loro particolari luci ed ombre nelle diverse ore del giorno. Nei miei spostamenti quotidiani, ancor oggi, mi capita di passare in piazza Fortunato Cesari o per via Mazzini oppure per via Val d’Aosta (tralascio le altre case abitate dai miei genitori prima che io fossi nato), e non manco mai di sollevare lo sguardo a quelle finestre da cui tante volte mi sono affacciato, e di guardare i muri esterni della casa nella quale ho vissuto per quattro, cinque anni; ma gli interni di quegli edifici ormai mi sono preclusi, e certo farei la figura del sentimentale se chiedessi a chi ora vi abita di poterli visitare.
Alla fine, col lavoro di mio padre e con le economie di mia madre, eccoci pervenuti nella nostra casa di via Carlo Mauro 14, una vera conquista! Fu nella circostanza dell’ultimo trasloco che decidemmo di buttare via il ritratto fotografico del mio bisnonno paterno, Fortunato, morto nel dicembre 1925, corroso irrimediabilmente dalle muffe della umidissima cantina scavata sotto la casa che stavamo lasciando. Se allora avessi immaginato che a distanza di trent’anni i nuovi ritrovati della tecnica avrebbero consentito il recupero di una fotografia così malmessa, certamente mi sarei opposto a una simile decisione. Mio padre si dispiacque della perdita, ma non disse nulla, con ciò rimproverando tacitamente mia madre, rea di aver esposto il quadro all’umidità confinandolo in cantina. Ella, infatti, che allora era una giovane sposa, mal tollerava di vedersi davanti dei morti, diceva. Poi, col passare degli anni, il comò della sua stanza da letto si è riempito di ritratti funebri (e da qualche anno, ahimé, si è aggiunto anche il suo). Intanto, di Fortunato, perduto quel ritratto, non rimaneva nessun’altra fotografia, sicché io stesso, sebbene lo abbia visto decine di volte, oggi non ricordo bene quale fosse il vero volto del mio bisnonno, il cui ritratto corroso dalle muffe, un bel giorno di primavera dell’anno 1978, mentre eravamo intenti a traslocare, buttammo in pattumiera.
Il bar Ascalone
Da quel tempo datano le mie passeggiate con papà, passeggiate domenicali, di mattina, verso la campagna che circonda Galatina. Le prime volte che mi si consentì di guidare l’auto, accompagnavo mio padre al bar Ascalone, dove rimaneva un paio d’ore a conversare con gli amici e a leggere il giornale, e andavo a riprenderlo verso mezzogiorno, all’ora di pranzo, imponendogli un giro largo prima di ritornare a casa, per dimostrargli la mia bravura nella guida. Questa sua frequentazione del bar Ascalone per me si perde nella notte dei tempi, quando l’attuale proprietario, che si chiama Andrea, faceva ancora il garzone apprendista e comandava lu Totu, suo padre, con la sorella Lucia, che si alternava alla cassa con la sorella Nena. Famiglia di pasticcieri, gli Ascalone, con tanto di attestati ben incorniciati alle pareti, che risalgono al secolo l’altro, quando la ditta Ascalone rappresentava un’appendice culinaria della ricca borghesia agraria cittadina e di tutto il circondario. Mio padre conversava soprattutto con i “vecchi” Ascalone, nelle due ore domenicali che trascorreva nel bar, seduto vicino alla cassa, e di tanto in tanto con qualche avventore. Qualche volta mi fermavo con lui, ma dopo un po’ mi annoiavo, ed ero tentato di varcare la soglia del laboratorio, dove solo pochi eletti potevano entrare: gli addetti al lavoro e qualche amico de lu Tutu. Lì, tra pentoloni ancora sporchi di crema o panna e utensili vari, tra il forno sempre acceso, da cui emanava un caldo asfissiante in tutte le stagioni, e il piano da lavoro, tra un discorso e l’altro, lu Totu preparava le leccornie che avrebbero chiuso il pranzo domenicale di molti concittadini. Ed ecco, verso le dodici, numerosi fedeli riversarsi nella caffetteria attigua al laboratorio, appena finito di sentire la messa delle undici, quella più seguita, nella vicina chiesa madre; e qui sostare in una nebbiolina di fumo sempre più densa, in attesa di essere serviti: bigné, paste frolle, bocche di dama, fruttoni e fruttini, arlecchini e strudel, per la delizia del palato dei golosi galatinesi; e intanto parlare del più e del meno, scambiandosi convenevoli come si fa con le persone che per una superiore necessità si incontrano almeno una volta la settimana in campo neutro; sorseggiando il solito aperitivo con la complicità di olive e stuzzichini vari che avrebbero dipoi favorito una più intensa degustazione del pranzo domenicale. Dinanzi a quel ben di dio, chi avrebbe mai osato rompere un’aura così incantata?
“Papà, andiamo?”, lo supplicavo; e lui, appoggiandosi al bastone e a me, salutava tutti e, con la sua “Unità” nella tasca del soprabito, prendeva congedo dal bar Ascalone, non senza avermi prima affidato la guantierina di dolci da portare a casa. Dopo la morte della vecchia generazione degli Ascalone, i locali sono stati ristrutturati, il servizio di caffetteria è stato eliminato e la pasticceria ha assunto uno stile tra liberty e impero. Mio padre nel frattempo è invecchiato e ha rinunciato alla sua sosta domenicale nella pasticceria di Andrea, ma non ai dolci. Pertanto, nella nostra passeggiata domenicale, il rituale vuole che ci si fermi ancora davanti alla pasticceria e che io vada a ritirare i dolci che mio padre la sera prima con un colpo di telefono ha ordinato ad Andrea, con tanto di saluti.
Verso i Padùli
Col passar del tempo, mio padre si sarà convinto che guidavo bene, e allora ha autorizzato un’escursione in campagna, per le vie ancora non asfaltate che portavano ai filari di viti e di olivi. Lì era sicuro che non avremmo incontrato polizia o vigili. Ora queste strade le hanno asfaltate, ma sono sempre rotte e sporche perché vengono utilizzate da grosse macchine da lavoro, trattori e trebbie e carri da carico, a seconda delle stagioni, e dai proprietari delle case di campagna. Allora erano appena percorribili in auto, e bisognava procedere a passo d’uomo, attenti a scansare le buche profonde che s’aprivano numerose nella via sterrata e piena di sassi. Non vi dico le condizioni di quelle strade nel periodo delle piogge! Era un piacere fare lo slalom tra le pozzanghere, meglio se con un motorino o una vespa, come mi è capitato di fare con una mia compagna di classe con cui qualche volta marinavo la scuola.
La campagna intorno a Galatina è assai varia perché vario è l’uso che se ne fa. Olivi e viti, ho detto, ma anche campi coltivati a tabacco, che d’estate cresce alto due metri, e in primavera appezzamenti di grano, d’orzo e di mais, e poi in autunno le verdure, cicorie, finocchi, rape e cavoli, che ogni giorno ricorrono sulle mense dei cittadini. Ville e villette, villule, villini e villoni, ville doppie, case villerecce, ecc. ecc., per dirla alla maniera del Gadda brianzuolo, disseminate qua e là, una miriade di costruzioni che posano sotto un pino a ombrello o che ricevono ombra d’estate da una palma, oppure, più semplicemente, da un paio di frondosi alberi di loto –cui è devoluta anche una funzione ornamentale– che ogni padre di famiglia provvede a piantare dinnanzi a casa: sono le seconde case della piccola e media borghesia cittadina, il cui status riconosci facilmente dalla più o meno ricercata architettura, che cambia col passare del tempo e degli stili. Le casine dei primi anni del secolo scorso, ad un piano solo, composte di non poche stanze che s’affacciano ai quattro venti, incorniciate di losanghe e triangoli e sormontate da una balaustra a colonnine, suggeriscono già a prima vista la voglia di ritrovare in campagna lo stesso agio lasciato in città. Se ne vedono qua e là, alcune ormai cadenti e abbandonate, annerite dal tempo e dall’umidità, altre invece ristrutturate di recente e tornate a nuova vita. La casina di Vito Vallone, il sindaco galatinese dell’epoca giolittiana e poi fascista, ora circondata da una muraglia di tufo che la toglie in parte alla vista e ne deturpa l’aspetto, la casina degli Sciuga, quella dei Vantaggiato, la casina degli Stasi e dei Dolce e tante altre. E dal momento che tutte le epoche hanno lasciato una loro traccia, è visibile come un pugno nell’occhio anche qualche appartamento degli anni Settanta, poggiato come una scatola sopra colonne sottili e squadrate dalle mani di qualche dissennato geometra! Poi, qua e là, in lontananza, macchie di verde più intenso: sono le ville più ricche, circondate dal parco di pini, di eucalipti e di querce vallonee, che chiazzano con i loro alberi frondosi tutta la campagna. A sera le gazze solcano il cielo che divide questi boschetti, in cerca di un riparo per la notte.
Questa che sto descrivendo, in realtà, non è la generica campagna intorno a Galatina, ma una sua precisa contrada. Andare in campagna con mio padre non vuol dire prendere una qualsiasi direzione che allontani dal centro cittadino (e qui la campagna è sempre dietro l’angolo, alla fine di ogni strada); vuol dir andare verso i Padùli, la contrada che ho appena descritto, che poi significa accompagnarlo indietro nel tempo, verso la sua infanzia e adolescenza e prima giovinezza, trascorse d’estate in queste campagne. Devo dire che a lungo andare questa sua reiterata richiesta di recarsi sempre nello stesso posto è stata oggetto da parte mia di qualche scherzo, com’è naturale nei confronti di chi si ostina a mostrare una sua debolezza –e l’attaccamento alla propria giovinezza è una debolezza, perché significa che, malgrado l’età, non si è rinunciato ai miti di quella stagione–, ma questo, sebbene più volte glielo abbia fatto notare, non lo ha mai distolto dall’identificare la campagna galatinese con i Padùli e dal chiedermi di ripercorrerne le strade, mentre ci sono almeno altre quattro o cinque contrade che si potrebbero visitare con piacere.
I Padùli
I Padùli sono una vasta fascia di campagna che all’incirca si estende tra i comuni di Collepasso, Sogliano Cavour, Cutrofiano, Aradeo e una frazione di Galatina, Noha. La attraversa la provinciale Noha-Collepasso che, quasi a metà strada, s’incrocia con la provinciale Cutrofiano-Aradeo. Queste sono le strade principali; poi ve ne sono molte altre che percorrono la campagna nell’interno e servono tutti i fondi. Si tratta di una zona di antico insediamento, dove il paesaggio rurale ha subito il maggior numero di trasformazioni agrarie e, per questo motivo, presenta una grande varietà di colture e di appezzamenti poderali piccoli e medi. Manca – ed è una gran fortuna! – il latifondo, così presente ancor oggi in altre zone del Salento. Il latifondo lo riconosci per la presenza della monocultura, che annulla ogni varietà del paesaggio in eterni sonnolenti boschi di ulivi, che io non so proprio come i poeti possano celebrare in versi senza addormentarsi. Ma qui la piccola e media borghesia cittadina già da molto tempo ha rotto il latifondo e, pezzetti e bocconi, se ne è impossessata, trasformando il territorio in una delle più belle campagne d’Italia.
Le case più antiche, quelle che risalgono al Settecento, le riconosci perché volgono le spalle alla strada, come se i loro padroni abbiano temuto da un momento all’altro l’arrivo dei briganti. Le facciate di queste case, ville a due piani – a pian terreno i depositi, granai, frantoi, serbatoi e cisterne, al primo piano la casa del padrone –, si aprono sugli spazi ampi dei seminativi e delle colture. Un hortus conclusus o, per dirla sempre alla latina, un pomarium, perlopiù piantato ad agrumi, ricinto di un muro con i soliti cocci di bottiglia, divide queste case dai seminativi o dai vigneti. L’olivo sembra essere respinto sempre più indietro, a sud, verso il feudo di Casarano. La cosa che più colpisce è la facciata di queste case padronali, volta non verso la strada, ma verso i campi. Probabilmente l’architetto che pensò questa soluzione veniva incontro ad una precisa richiesta del proprietario che intendeva sorvegliare meglio l’opera dei braccianti a lavoro nei campi. Oggi, il proprietario nasconde la villa dietro un alto muro, lungo il quale di solito corre una siepe di pino o di bosso, il che è segno che il ricco teme sempre le incursioni dei briganti e non si sente mai al sicuro. In fondo non ha tutti i torti Sorel Kiekegaard quando scrive: “E’ un fatto estremamente deplorevole e demoralizzante che i rapinatori e le élite si trovino d’accordo su una sola cosa: vivere nascondendosi!”. Inoltre, dove il ricco innalza un alto muro di cinta per chiudere la sua proprietà, oppure un’alta siepe per negarsi alla vista del passeggero, beh, lì la campagna è rovinata, distrutta da un corpo estraneo che ne deturpa la bellezza. Anche il piccolo proprietario, nella smania di attestare il suo possesso, contribuisce alla rovina di questa campagna: vedi un podere di mezzo ettaro tutto ricinto di rete metallica, e non puoi fare a meno di pensare che a volte l’uomo è come un uccello abituato a vivere in gabbia che, una volta liberato, morirebbe della sua stessa libertà. Non sarebbe sufficiente delimitare solo l’ingresso del proprio podere con un muricciolo non più alto di tre linee di pietra, segnando i confini con qualche grossa pietra o con una colonna? Almeno in campagna sarebbe bello immaginare di vivere all’aperto e volgere lo sguardo fin dove la vista può arrivare; e che importa se il luogo dove si posa lo sguardo in lontananza non è di tua proprietà!
Per molti anni le nostre passeggiate si sono indirizzate verso i Padùli. In realtà, i nomi dei luoghi che si attraversano seguendo quelle strade sono numerosissimi e assai strani: Le Giuse, La Cavallerizza, Lu Lardu, Sirgole, sono toponimi vernacoli che col passar del tempo vanno scomparendo, e molti giovani non li ricordano più. Io li ho imparati da mio padre durante le innumerevoli nostre abitudinarie passeggiate in campagna. Passando, a destra e a manca, sa dirti con precisione i nomi di tutti i proprietari, a chi appartenga questa e quella casa o questo e quel podere, e ha registrato persino i passaggi di proprietà di due, tre generazioni. La memoria che egli conserva dei particolari più vari è il risultato del suo amore per questa campagna, dove ha trascorso molto tempo della sua vita, soprattutto d’estate; e poi i suoi ottantatré anni gli consentono di ricordare cose che sono conservate negli archivi dei notai. Ma se mio padre non avesse ripetuto a se stesso e ad altri questi suoi ricordi, ora non potrebbe più parlarne, perché non se ne ricorderebbe più. Forse è questo che vuol dire amare una terra, parlarne e riparlarne, ripetendo a memoria quanto si è già detto mille volte. La ripetizione dei racconti è il frutto di un amore più puro, perché è privo di qualunque elemento volontaristico e intenzionale. Quando si racconta così, per iterazione, vuol dire che non si vuol raggiungere nessun altro scopo, che non sia quello di esprimere il proprio attaccamento alla terra, il proprio essere parte della terra, e basta.
Mio padre
A lungo, quand’ero ragazzo, mi sono interrogato sul passato di mio padre. Cosa strana, ho sempre pensato che di mia madre ci fosse ben poco da sapere e che mio padre, invece, racchiudesse un segreto che io avrei dovuto scoprire, perché da questa scoperta me ne sarebbe derivato un beneficio. Se dovessi dire per quale motivo si è venuto a formare in me questo pensiero, non saprei dare una spiegazione. Ma è certo che, col passar degli anni, questa inchiesta ha cominciato ad infastidire me per primo. Sentivo cioè che, finché essa fosse durata, io non sarei mai uscito dallo stato di immaturità nel quale sapevo di trovarmi, come un investigatore che si ostini irragionevolmente nella ricerca di un colpevole che non c’è e che pertanto non troverà mai, e non si rassegni ad archiviare il caso perché il fatto non sussiste. Ora so che tutto questo è frutto di una mia immaginazione giovanile e so anche che è un grave errore voler conoscere il segreto di una persona a cui si vuol bene, chiunque essa sia, perché l’indagatore viola il confine che segna l’identità di una persona, in qualche modo violenta l’indagato, e per giunta inutilmente. Difatti, quasi sempre non v’è nessun segreto da scoprire, e quando ci si accorge di questa elementare verità, allora vuol dire che si è cresciuti a sufficienza, cioè si è adulti, e che, per un inevitabile contrappasso, avendo figli già piuttosto grandi, si è divenuti oggetto di indagini a tutto campo. Se servisse, io già da oggi direi alle mie due figlie che non perdano tempo a indagare su di me, perché quando avranno la mia età capiranno che sarebbe stato inutile. Ma servirebbe? Nei rapporti tra le generazioni, purtroppo, non v’è alcun progresso, ma un continuo ripetersi infinito di errori, che solo l’età adulta quasi sempre riesce a eliminare. In ogni caso, con queste memorie le mie figlie sappiano almeno che non ho mai avuto intenzione di sottrarmi alle loro indagini!
Mio padre è stato un narratore orale, tanto che io gli ho sempre rimproverato di non aver messo per iscritto gli aneddoti che sapeva molto bene raccontare oralmente. Questo non lo ha mai voluto fare, preferendo scrivere altre cose, gli avvenimenti storici di Galatina, considerati alla luce della grande storia. E lui ci ha sempre tenuto a presentare i piccoli eventi galatinesi come significativi all’interno di una storia più grande, quella nazionale, mentre a me piacciono le spigolature locali in sé e per sé, senza altre connessioni che non siano quelle che si ricavano naturalmente dai racconti. Ora, essendo mio padre, come ho detto, in età avanzata, egli parla molto meno, e i suoi racconti sono più che altro delle ripetizioni; non si cura più di variare la storia, ma usa le stesse parole, le stesse pause sintattiche, anche lo stesso tono di voce che a me è diventato consueto, tanto che, quando non gli viene la parola, sono io che gli vado incontro, aiutandolo nel ricordo di un nome o di un particolare che già conosco per averlo sentito dalla sua voce chissà quante volte. La materia di cui discorre mio padre riguarda fatti e personaggi della provincia e soprattutto di quella parte della provincia che gravita intorno a Galatina. Ed io so per certo, avendone fatto mille volte esperienza, che a mio padre non dispiace affatto parlare di sé, raccontare le storie della sua giovinezza e della sua prima maturità. Cosicché si comprende come la conversazione con papà abbia corrisposto bene al mio desiderio di conoscere il suo passato, cioè quella parte della vita di mio padre di cui io non posso avere memoria; e come noi due si avesse di che parlare nelle nostre passeggiate in auto nelle campagne intorno a Galatina in direzione dei Padùli.
Il Canale dell’Asso
Percorrendo la strada dei Padùli, si vedono a poca distanza, oltre la fila dei piccoli fondi, le curve che disegna con i suoi canneti il Canale dell’Asso, secolare opera di bonifica del territorio, destinato ad accogliere le acque piovane e a liberare i campi dalle acque stagnanti. Ogni anno con una macchina assai rumorosa una squadra di operatori ecologici mandati dalla Provincia provvede a ripulire il canale dai rifiuti che vi si accumulano, soprattutto nei tratti in cui vi passa vicino la strada maestra, e a tagliare le canne che vi crescono floride. In questi tratti è facile riversare dalla strada frigoriferi e lavastoviglie e televisori e oggetti desueti d’ogni tipo! Immagino quale fauna vi potrebbe vivere, se la macchina ecologica non passasse in modo così fragoroso da spaventare ogni creatura animale: anatre selvatiche, piccoli roditori, e altri animali acquatici. Un tempo anche le volpi vi facevano la loro tana. Rimangono solo rane e rospi, al riparo delle pietre che formano il terrapieno, che ogni tanto, per la sovrabbondanza delle piogge, cede in qualche punto, inondando la campagna, e deve essere riparato. D’inverno il canale rimane visibile proprio per questo terrapieno sinuoso che forma un piccola ruga sulla pianura della spoglia campagna. Mio padre dice che quando era bambino, nella bella stagione, qualche ragazzino si faceva il bagno nell’acqua del Canale, cosa che oggi non sarebbe possibile perché d’estate, che io ricordi, non s’è mai visto un filo d’acqua; e dice ancora che a sera migliaia di rondini –oggi piuttosto rare– si fermavano tra le canne per dormire. La funzione del Canale deve essere stata davvero importante per questo territorio, perché ha impedito il ristagno delle acque e il formarsi della palude. Padùli infatti è una metatesi del termine palùdi, con cui l’uomo ha segnato l’appropriazione del luogo e il suo risanamento. Né potevano bastare le vore che si aprono qua e là nella campagna, soprattutto nel tempo delle piogge, e inghiottono i fiumi d’acqua verso non si sa quale foce. Certo è che bisogna tenersene alla larga, come tutti sanno, perché chi ci scivola dentro è destinato a non tornare più indietro.
Aneddoti familiari e altri discorsi
Un breve aneddoto che mi ha spesso raccontato mio padre mentre costeggiavamo il Canale dell’Asso ha per protagonista un fratello di mio nonno paterno Pietro, di nome Antonio, morto per una caduta da un albero prima della Grande Guerra, in giovane età. Per inciso, dice mio padre che nel ceto contadino due cause di morte erano ricorrenti, la caduta da un albero e il calcio di un cavallo. Di Antonio non rimane una tomba, perché negli anni immediatamente seguenti la sua morte, fu inaugurato il nuovo cimitero, dove furono trasferite solo le spoglie dei ricchi. Chi non aveva denari a sufficienza per trasferire i propri morti, deve averli lasciati nel vecchio cimitero, dove a partire dagli anni sessanta e fino a qualche anno fa c’era un fatiscente canile comunale, prima che gli animalisti insorgessero contro il maltrattamento degli animali e se ne costruisse uno nuovo. Secondo questo aneddoto, il giovane Antonio dichiarava sempre che non si sarebbe mai sposato se non avesse avuto a disposizione non so quale numero di are di terra. Pare che non si sia mai sposato, non perché la sua ambizione fosse eccessiva, ma perché morì prima di averla realizzata col proprio lavoro. Di lui non rimane nella memoria di mio padre altro ricordo.
La natura dei racconti è assai varia, e nessuno riuscirebbe a spiegare a sufficienza perché si sia perpetuato il ricordo di questo fatto – le nozze mancate di Antonio –, mentre di altri fatti non rimane proprio nulla. Nel caso di Antonio, il racconto sembra quasi un compendio della sua vita e della sua morte prematura.
Non si deve pensare che io e papà, durante le nostre passeggiate, parliamo solo di aneddoti familiari. L’aneddoto è sempre un racconto incidentale e nasce come un bel fiore in una selva di discorsi comuni. La politica, per esempio, è il piatto forte della nostra conversazione, la politica che accende gli animi, soprattutto quello di mio padre, e ci fa allontanare lo sguardo dal paesaggio della campagna. Qualche contadino intento al lavoro, levando gli occhi, avrà visto non poche volte due signori di età così diversa passare lentamente in auto davanti al suo podere, gesticolando animatamente, mentre discutevano di chissà quale argomento e sembravano litigare. In realtà, le nostre discussioni sono rimaste sempre entro il limite dell’urbanità e della correttezza reciproca, anche se talvolta io mi sono spinto un po’ oltre, fino a provocare il risentimento di mio padre. Una volta, per esempio, durante una di queste discussioni politiche, ho sostenuto che lui era un fascista, sebbene egli a lungo abbia votato per il vecchio PCI, ed ancora oggi ne rimpianga la fine. Ricordo che mio padre, sentendosi dare del fascista, stranamente aveva assunto un’aria interlocutoria, come di chi pazientemente si aspetta, dopo l’accusa infamante, di sentirne le ragioni. Io argomentavo che il suo tono asseverativo, che non ammette repliche e non ascolta le ragioni dell’altro, beh, tutto questo era tipico di un fascista, e che del resto egli, essendo del ’21, era nato e vissuto ed era stato educato in pieno regime fascista, ed aveva dunque assimilato lo spirito fascista come parte della sua cultura e del suo modo di essere. A quel punto, non c’era più campagna, né Canale dell’Asso, né pensiero della giovinezza che potesse distrarre lo sguardo e la mente di mio padre. Divenne paonazzo, tanto che io, poiché papà allora doveva avere più di settant’anni, temetti per la sua salute, e giurai dentro di me che un simile argomento non l’avrei mai più riproposto. Per fortuna andò tutto bene e dovetti solo sorbirmi una requisitoria contro l’intera generazione dei giovani che non conoscono la storia, e contro il revisionismo, e De Felice, eccetera eccetera.
Col passare degli anni, in effetti, io ho dovuto modificare molto il mio rapporto con mio padre. Ho sperimentato l’insensatezza di certi rimproveri che un figlio rivolge immancabilmente al proprio padre. Il conflitto padre-figlio fa parte del rapporto naturale tra generazioni diverse, e il perdente è sempre il figlio, sebbene dapprima egli si senta più forte di chi è al declinare della vita. In realtà, accade proprio questo, che il figlio, nel momento in cui matura una coscienza di adulto, giorno dopo giorno vede svanire la propria condizione di figlio, ritrovandosi alla fine ad essere padre dei propri figli, il che lo conduce a solidarizzare col proprio padre. D’altra parte, chi è già nonno non può che guardare con una certa indulgenza ai fatti della vita. Così le diverse generazioni, riconciliatesi, si danno la mano, e procedono insieme per un pezzo di strada, facendosi compagnia. Le nostre passeggiate hanno forse questo significato, anche quando sono state turbate per pochi minuti da una discussione troppo accesa. Ma già stavamo passando nei pressi del muricciolo della villa Greco, proprio sul Canale dell’Asso, e mio padre non poteva fare a meno di ricordare le soste d’estate presso quel muricciolo all’ombra delle canne, le chiacchierate con gli amici, il buon tempo antico, insomma. E già eravamo sulla via del ritorno, verso casa, dove la mamma aveva pronta la tavola per il pranzo domenicale.
[2002]