Uno dei testi più antichi della nostra lingua è il cosiddetto «Placito di Capua» del marzo 960. In quell’anno e in quel mese si presentano davanti al giudice Arechisi il venerabile Aligerno, abate di Montecassino, e un privato di nome Rodelgrimo. Siamo nel territorio di un principato longobardo, longobardi sono i nomi di molti protagonisti della vicenda, di tradizione longobarda sono le norme giuridiche che verranno applicate. Rodelgrimo esibisce un’abbreviatura (oggi diremmo un promemoria) in cui si descrivono alcune terre che egli sostiene siano state da lui ereditate. A questa pretesa, Aligerno obietta che quelle terre appartengono al monastero, che le ha possedute per trent’anni. A suo vantaggio l’abate può esibire tre testimoni, in condizione di dichiarare come effettivamente stanno le cose: Mari chierico e notaio, Teodemondo diacono e monaco e Gariperto chierico e notaio. I tre, uno alla volta, tenendo in mano l’abbreviatura, ripetendo tutti esattamente le stesse parole, affermano:
«Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti», cioè: “Io so che quelle terre, entro i confini che qui [il documento] descrive, trenta anni le possedette la parte di san Benedetto”.
I testimoni poi giurano sui Vangeli di aver detto la verità. La formula da loro usata per dichiarare la durata del possesso delle terre da parte del monastero («trenta anni le possette») si collega al diritto longobardo, che prevede l’acquisizione definitiva di un bene dopo un periodo almeno trentennale di possesso. In base a questa norma e alla triplice testimonianza davanti al notaio, le terre in discussione vengono con decisione definitiva assegnate al monastero. Con la vittoria dei monaci si chiude dunque la contesa giuridica. Tutte le fasi della disputa sono raccontate in un atto ufficiale trascritto in una pergamena conservata nell’archivio dell’abbazia di Montecassino. L’atto, emesso dal giudice Arechisi, è redatto dal notaio Adenolfo (i notai erano allora, come sono oggi, garanti dell’ufficialità). Il minuzioso resoconto è in latino; solo la testimonianza resa dai testimoni, la dichiarazione giurata che le cose stanno davvero così, viene riportata in “volgare”, cioè nella lingua parlata (in quella zona e in quell’epoca) dal volgo. La parola non ha un’accezione negativa: volgare significa semplicemente non latino, allude alla lingua parlata, dagli incolti e anche dai dotti. Nel nostro caso è una varietà locale che presenta forti venature campane, non si tratta di italiano. L’italiano, inteso come lingua comune, è di là da venire. Per secoli, addirittura fino al secondo novecento, nel nostro paese per le comunicazioni quotidiane prevalgono i particolarismi dialettali e areali.
Episodi analoghi a quello di Capua si ripetono in quegli stessi anni a Sessa e a Teano (ancora in area campana), con formule di giuramento identiche o molto simili che vengono replicate, in volgare e a volte anche in latino, nelle diverse circostanze. Di fronte a ripetuti scontri giuridici del genere, conclusi quasi sempre a vantaggio degli ecclesiastici, qualche osservatore ha immaginato che le contese sia state suscitate ad arte, affinché con una sentenza ai monasteri venisse assicurato il possesso di terre d’incerta proprietà. Qualcun altro ha invece parlato di una autentica generale offensiva laica, respinta con successo dal mondo religioso.
Comunque siano andate in realtà le cose, un fatto è certo: fin dagli esordi della storia della lingua italiana, il diritto è in stretta connessione con la lingua stessa: i testi di natura giuridica spiccano per importanza rispetto ad altre manifestazioni pure significative (indovinelli, glossari, testi e formule di fede, ecc.) proprio in virtù del loro carattere ufficiale e per certi versi istituzionale. La stessa parola «placito», con cui viene definito il documento di cui parliamo, è un tecnicismo: significa ‘sentenza giudiziale’. Valore tecnico hanno anche le parole «sao» (nei dialetti meridionali di oggi diremmo «saccio», «sazzu») ‘so per certo’, ‘sono sicuro’ [e lo posso giurare]; «fini» ‘confini’; «parte» ‘soggetto titolare di beni e diritti’. Insomma «parte Sancti Benedicti» significa ‘monastero di San Benedetto’, il costrutto si continua fino ai tipi moderni «porta San Biagio», «piazza San Giovanni», ecc.
Accanto a questi tecnicismi, nella formula di giuramento che abbiamo riportato prima vi sono numerosi tratti che rispecchiano la lingua parlata dagli abitanti di quelle località e spesso di altre zone del mezzogiorno, in quell’epoca e fino ai nostri giorni. Spiccano «ko» ‘che’, usato ancor oggi, anche nella variante «cu»: in Campania si dice «vogliə cu bbivə» ‘voglio che tu beva’; in Salento sono normali forme come: «ti preu cu mme dici» ‘ti prego che tu mi dica’, «cu tte cascia nu fulmine» ‘che ti cada un fulmine’. E ancora «kelle» ‘quelle’ e «ki» ‘qui’, dove si è verificato il passaggio da «qu-» a «ch-»: in Campania si dice «chella» invece di «quella». Riguarda infine la sintassi la costruzione «kelle terre […] trenta anni le possette»: l’oggetto « kelle terre » viene anticipato e poi ripreso tramite il pronome «le», per dare maggior forza alla propria affermazione. Così facciamo pure noi oggi, in tutt’Italia, quando diciamo: «il libro, l’ho letto», «il giornale, lo compro io», che sono più espressivi rispetto alle strutture: «io leggo il libro», «io compro il giornale».
Il documento del marzo 960 è importante perché manifesta una precisa intenzione del giudice Arechisi e del notaio Adenolfo. La descrizione dei fatti è in latino, ma quando si tratta di registrare le parole dei tre testimoni si passa al volgare, la lingua d’uso comune. Se ne intuisce il motivo. Tutti dovevano essere in condizione di capire, nessuno doveva mettere in discussione il significato della sentenza o discutere l’appartenenza al monastero delle terre contese.
Il Placito di Capua non rappresenta l’atto di nascita del volgare in Italia, c’erano dei precedenti. Di quasi un secolo e mezzo prima è il cosiddetto graffito della catacomba di Commodilla (Roma, prima metà del IX° secolo): «non dicere ille secrita a bboce», un invito a non pronunziare ad alta voce alcune orazioni “segrete” durante la messa. Ma si tratta di una scelta individuale, per quanto importantissima. Invece i giudici operanti nel Principato longobardo di Capua mostrano chiara consapevolezza della distinzione tra latino e volgare e volontà di usare il volgare per un documento ufficiale e di piena validità giuridica.
I manuali di linguistica italiana illustrano con dovizia di dettagli il documento di cui stiamo parlando, lo si studia nelle scuole. Ma la rilevanza di quei fatti travalica gli orizzonti della ricerca scientifica e può arrivare a coinvolgere la vita stessa di intere comunità dei nostri tempi. Sabato 27 maggio 2017, a Capua, per iniziativa del Touring Club Italiano (“Terra di Lavoro” e “Aperti per Voi”) e sotto gli auspici dell’Accademia della Crusca e dell’Università degli Studi della Campania, si è svolta una cerimonia pubblica per ricordare quell’evento di significato straordinario per la storia della nostra lingua e della nostra cultura. Nella piazza dove nel secolo X° sorgevano gli edifici della Corte e del Tribunale dei Principi longobardi (di fronte alla chiesa di San Salvatore in Corte) è stato inaugurato un cippo sul quale viene rievocata, con epigrafi, la vicenda che fece apparire per la prima volta per iscritto, in forma deliberata, la lingua volgare del luogo, usata per un importante atto ufficiale.
Sulle quattro facce del cippo inaugurato a Capua sono visibili (ne vedete le foto):
- a) la riproduzione fotografica della formula testimoniale in volgare, così come è nella pergamena di Montecassino e un’epigrafe che illustra l’importanza storica e linguistica di quei fatti;
- b) la trascrizione della formula;
- c) la versione in italiano moderno;
- d) gli emblemi del Touring club, dell’Accademia della Crusca, del comune di Capua e degli sponsor locali.
L’Accademia della Crusca era rappresentata dal Presidente onorario, Francesco Sabatini, vera anima dell’iniziativa; erano presenti altri accademici e linguisti provenienti da Roma, Napoli, Caserta, Palermo, Lecce. Ma soprattutto era presente la gente di Capua e di Terra di Lavoro, con una partecipazione quasi commovente. L’intero territorio per giorni ha ricordato quei fatti lontani, ragazzi delle scuole in abbigliamento longobardo hanno fatto da ciceroni garbati per chiese e palazzi, è stato possibile visitare il Museo Provinciale Campano (con la meravigliosa collezione di Matres Matutae, statue preromane di donne con uno o più bambini in braccio, simbolo di opulenza e di fecondità) e la Biblioteca (oltre 70.000 volumi, preziosi fondi di pergamene, manoscritti e stampe, aperta al pubblico anche grazie al volontariato eroico di due bibliotecarie solerti e informate).
Capua è stata atrocemente bombardata durante la seconda guerra mondiale, mostra ancora i segni delle ferite. E il contesto è difficile. Ma la popolazione sa reagire, l’abbiamo visto in quest’occasione. Il sud è anche questo, recupero tenace del passato, voglia di non arrendersi. Questo sud mi piace.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 4 giugno 2017]