di Marco Leone
La riflessione sulle radici della cultura letteraria e linguistica di Terra d’Otranto si intreccia inevitabilmente con il concetto di identità e di appartenenza territoriale, insomma con quella categoria di “salentinità” spesso abusata e sulla quale gli approfondimenti di Mario Marti e di Donato Valli hanno fatto nel corso degli anni piena luce in maniera rigorosa, respingendo interpretazioni troppo anguste e localistiche. Su questo argomento, ormai à la page, si è sviluppata in tempi recenti anche una copiosa e specifica bibliografia: si veda solo il dibattito a più voci nell’ultimo numero dell’Idomeneo (Anno 9°, n. 9, 2007), organo della Società di Storia Patria per la Puglia (Sezione di Lecce), intorno al tema: Per alcune ipotesi di connotazione salentina: analisi a confronto.
Ma è lecito parlare di una letteratura salentina, connotata da caratteristiche proprie e peculiari che la distinguono dalla letteratura di altre realtà pugliesi o extra-regionali? Se l’ipotesi di uno stigma salentino appare storicamente giustificata per ciò che concerne gli aspetti storico-linguistici e dialettologici e, forse (anche se la questione è alquanto discussa fra gli storici dell’arte), quelli artistici (il cosiddetto “barocchetto leccese”), la rivendicazione di una matrice ideologica autoctona e primigenia non sembra aver ragion d’essere, invece, nelle espressioni letterarie, per le quali è preferibile parlare di una letteratura “d’argomento salentino” o “d’area salentina”. Il senso più profondo di questa letteratura non è, infatti, nella sua origine geografica o nella sua genesi territoriale, ma nello stretto collegamento con la letteratura nazionale, nel cui quadro essa si innesta, trovando vitalità e inveramento.
Ciò non vuol dire che la letteratura locale si configura semplicemente come un pallido riflesso di quella nazionale ed è priva di un’autonoma consistenza; significa, piuttosto, che è immotivato ricercare una “maniera” di letteratura salentina, tipologicamente agganciata ai tratti culturali distintivi del suo luogo di fondazione, perché una simile operazione sarebbe riduttiva e fuorviante. In verità, la dialettica regione-nazione, e dunque minore-maggiore, è un metodo d’interpretazione dei fatti culturali più generale, che però in campo letterario si dimostra particolarmente valido, perché foriero di prospettive di ricerca significative. Il minore o lo scrittore periferico, infatti, talora si rivelano come centri d’intersezione di tendenze letterarie difformi e contraddittorie; si pongono, cioè, come «crocevia di cultura», secondo la felice definizione di Mario Marti (Il “Minore” come crocevia di cultura, in Critica letteraria come filologia integrale, Galatina, Congedo, 1990, pp. 75-102) e riescono a interpretare lo spirito di un’epoca meglio e più di un grande autore, che spesso travalica, per spessore ideologico e per qualità artistica, i canoni delle classificazioni storiografiche.
Alla luce di queste premesse metodologiche e su un livello più allargato rispetto a quello letterario, anche l’idea di “salentinità” (come, analogamente, quella di napoletanità, sicilianità ecc.) perde, così, ogni astrattezza metastorica e si cala, invece, concretamente e dinamicamente, nello sviluppo delle vicende culturali di un contesto determinato e circoscritto, assumendo di volta in volta, in modo cangiante e proteiforme, risvolti differenziati, pur all’interno di direttrici costanti (e non v’è dubbio che, dal punto di vista culturale, linguistico, storico, antropologico, anche se non da quello amministrativo, il Salento costituisca un organismo regionale omogeneo). Chiarita la reale essenza della “salentinità”, come «un’ipotesi di lavoro» sottoposta alle variabili dell’evoluzione storica, in primo luogo sul piano delle strutture storico-culturali e, conseguentemente, su quello dell’identità storico-antropologica (Mario Marti, Una suggestiva ipotesi di lavoro, nel citato numero dell’«Idomeneo», alle pp. 141-143), resta da affrontare, in questa cornice di riferimento, il ruolo complesso della letteratura italiana di Terra d’Otranto (e, in particolare, quello della sua fase iniziale), che del quadro complessivo costituisce un elemento primario e fondamentale.
Già alla fine dell’Ottocento, in reazione all’orientamento accentratore dell’età post-unitaria, una valorosa generazione di studiosi (Arditi, De Giorgi, De Simone, Foscarini, Maggiulli, Pietro Marti e tanti altri), per larga parte formatasi in clima positivistico, cercò di valorizzare le origini della letteratura locale in chiave di erudizione regionalistica. Fu una proposta che andò di pari passo con il rinato interesse per le origini storiche della città di Lecce e per le ricognizioni archeologiche sui Messapi o sui Greci antichi, nella stessa epoca in cui, nella scia di tali approfondimenti, alcune vie di Lecce furono intitolate a capostipiti illustri, figure viventi tra mito e storia, come Idomeneo, Malennio, Euippa e così via. L’attenzione verso la letteratura d’area salentina rimase però confinata nei limiti di una generica erudizione, sino a quel vero e proprio processo di rifondazione storiografica, promosso da Mario Marti e incarnato prima nella “Biblioteca salentina di Cultura” (nove tomi presso l’editore Milella di Lecce) e, poi, nella “Biblioteca di Scrittori Salentini” (undici tomi presso l’editore Congedo di Galatina): complessivamente venti tomi già usciti e un ultimo in attesa, oltre a un ricco e ambizioso programma per una futura e (si spera) realizzabile seconda serie. Queste titolazioni, nelle quali l’aggettivo «salentino» non assume alcun risvolto parziale e limitativo (come sarebbe accaduto, se fosse stato unito ai termini «cultura» o «biblioteca»), sono consapevolmente utilizzate per indicare «l’universalità del concetto di cultura e insieme la specificità della fenomenologia regionale» (Mario Marti, Il difficile punto sulla “B. S. S.”. Proposte e prospettive, in Soleto in grico e altra salentineria, Nardò, Besa, 2001, p. 72). Oltre ogni visione ristretta e municipale, per la prima volta la letteratura di questa area viene infatti ricostruita, grazie all’apporto di diversi collaboratori (fra gli altri, Donato Valli, Antonio Mangione, il compianto Gino Rizzo), con senso della proporzione storica e con rigore filologico, sullo sfondo del quadro nazionale e nella linea di uno storicismo integrale che ha anche il merito di riproporre in edizioni moderne testi inediti o fermi alle stampe antiche, lungo un arco cronologico compreso tra la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Novecento. Sull’importanza del binomio regione-nazione, Marti si sofferma, del resto, con riferimento ai suoi presupposti teorico-metodologici, nel libro Dalla regione per la nazione. Analisi di reperti letterari salentini (Napoli, Morano, 1987), inserendosi con autonomia e originalità nella nuova, rivoluzionaria prospettiva dialettica e policentrica aperta da Carlo Dionisotti, con il suo celebre Geografia e storia della letteratura italiana (Torino, Einaudi, 1967).
Lo sforzo di decifrare il quadro letterario del Salento ha investito, così, vari autori e varie epoche, inaugurando un metodo di ricerca che ha riguardato anche altre analoghe operazioni di ricostruzione storica, come la laterziana Storia di Lecce, in tre volumi, nella quale non mancano, per i vari periodi, contributi incentrati sulle vicende letterarie: segnalo in particolare, a puro titolo esemplificativo, quello del secondo volume, relativo all’età moderna (Dagli Spagnoli all’Unità, a cura di Bruno Pellegrino, Bari, Laterza, 1996), a firma di Gino Rizzo e intitolato La cultura letteraria: identità e valori (pp. 711-830). Si può affermare, senza tema di smentita, che queste iniziative hanno comportato una ponderata rivalutazione della letteratura d’area salentina e una sua lenta, graduale immissione nelle complessive panoramiche di antologie e manuali dedicati alla letteratura nazionale, sia pure in misura ancora non sufficientemente adeguata e come sporadiche testimonianze di produzione letteraria minore.
È possibile così rintracciare, sulla scorta di questi nuovi strumenti e di questi innovativi orientamenti critici, una storia della letteratura d’argomento salentino esaminata nei diversi ambiti, nelle variegate articolazioni e nelle sue interrelazioni con lo sfondo generale. Non è un caso, a tal proposito, che la “Biblioteca salentina di cultura” si apra con il Balzino di Rogeri de Pacienza di Nardò. Questo testo inedito, restituito da Mario Marti nel 1977 a una moderna fruizione, è un poema in ottave (otto libri per oltre ottomila versi), nel quale si racconta il soggiorno leccese, nella seconda metà del 1496, di Isabella del Balzo, moglie di Federico d’Aragona, divenuto proprio in quei mesi re di Napoli in seguito alla morte di Ferrante II. Isabella lascerà Lecce alla fine del 1496 per far ritorno a Napoli, Rogeri ne è al seguito e ne descrive il viaggio di rientro nella capitale. Il poema del De Pacienza, che fu autore anche di un Triunfo, inedito anch’esso, in terzine di seicentosedici versi, di ventisette sonetti e di tre lettere di accompagnamento dedicate a nobildonne salentine, è un’espressione del fervido ambiente culturale della corte orsiniana, che diede un forte impulso alla diffusione del volgare e contribuì alla nascita di una riconoscibile linea di letteratura. Il Balzino costituisce infatti una testimonianza letteraria ben significativa, che, apparsa sullo scenario culturale locale alla fine del XV secolo, rappresenta anche un importante documento storico (per le notizie sulla corte degli Orsini), antropologico (per il racconto delle manifestazioni popolari durante il viaggio della regina) e linguistico (per le intersezioni di forme toscane con quelle meridionali e per due inserti d’antica lingua serbo-croata e d’antico francese salentinizzato). L’influsso delle corti, spesso legate a personalità carismatiche (Maria D’Enghien, Giovanni Antonio Del Balzo Orsini), fu uno stimolo vitalissimo per lo sviluppo delle vicende letterarie non solo nel centro cittadino, ma nell’intera Terra d’Otranto, come ha sottolineato Rosario Coluccia nel suo approfondimento dedicato alla Lingua e cultura fino agli albori del Rinascimento (in Storia di Lecce, vol. I: Dai Bizantini agli Aragonesi, a cura di Benedetto Vetere, Bari, Laterza, 1993, pp. 487-574). Prima della fondazione di questi centri culturali e della composizione del Balzino, la letteratura in volgare aveva, tuttavia, annoverato un fondamentale esponente nella persona di Roberto Caracciolo (1425-1495), importante predicatore e francescano conventuale. Si può dire, anzi, che il filone della letteratura italiana nel Salento si inaugura proprio con questa figura, iniziando la sua storia sul versante della produzione religiosa ed edificante. Il Caracciolo, la cui attività superò nettamente i confini locali, operò lungamente a Napoli, dove divenne membro dell’Accademia Pontaniana, e fu personaggio celebre e rinomato, persino controverso, come dimostrano, fra le altre, le testimonianze di Pontano e di Folengo. Le sue due opere principali, il Quaresimale (1475) e lo Specchio della fede (1495), inseriscono a pieno titolo questo scrittore tra i grandi nomi della predicazione volgare quattrocentesca (in primis, Bernardino da Siena). Negli scritti del Caracciolo la scelta del volgare, in un contesto geografico contrassegnato, sino a quel momento, da tradizioni alloglotte e plurilinguistiche, è particolarmente rilevante, perché coincide con il primo utilizzo letterario di questa lingua (sia pure in un dominio specifico, come quello della letteratura religiosa). Dopo la diffusione limitata a scritture legali, mercantili e amministrative tipica della fine del Trecento, il volgare, nel secolo seguente (soprattutto a partire dalla seconda metà), non si limita più a un uso strumentale, ma assurge per la prima volta con l’opera del Caracciolo, in quest’area, a dignità letteraria, in linea con quanto stava accadendo, a scapito del latino e nello stesso lasso temporale, nella Napoli aragonese. La lenta insorgenza di una letteratura in volgare nel territorio di Terra d’Otranto non deve meravigliare e rappresenta in realtà un ritardo solo apparente, essendo una condizione analoga ad altre zone regnicole e a differenti periferie culturali, attestate, sotto questo punto di vista, su analoghe posizioni conservatrici (ad esclusione, come è ovvio, di Napoli e della Sicilia).
La dialettica latino-volgare si ripresenta, in forma parzialmente mutata e a distanza di pochi anni, nell’opera dell’umanista Antonio Galateo (1446-1517), autore di molte opere latine e di una Esposizione del Pater noster in volgare. Il Galateo rappresenta il punto d’incontro fra le tradizioni diverse che ancora sopravvivevano, in continuità con l’epoca medioevale, nel territorio salentino (latina, greca, bizantina) e le moderne tendenze culturali delle aree regnicola e veneta, da lui assorbite durante il lungo soggiorno napoletano e quello, successivo, a Venezia. Non è possibile passare in rassegna in questa sede la fitta produzione in latino del Galateo, svariante su diversi settori (pedagogia, filologia, corografia, religione, trattatistica, storiografia, ecc.) e corredata di dottissimi richiami alle auctoritates classiche, mentre dell’Esposizione è importante individuare, come ha fatto Rosario Coluccia (op. cit., pp. 560-569), la rivendicazione di una lingua meridionale, in contrapposizione alla coeva e imperante affermazione dei modelli toscani. Ancora una volta nell’opera del Galateo è riconoscibile quella intersezione tra livello locale e livello extra-regionale (esplicata talora, come nel caso specifico, in chiave polemica), che caratterizza l’origine stessa dell’identità letteraria di Terra d’Otranto e che poi sarà una cifra costitutiva anche nella produzione letteraria dei secoli successivi. Dopo la linea fondativa Caracciolo-De Pacienza-Galateo, la letteratura italiana del Salento conoscerà infatti nuove fasi, arricchite dal verificarsi di importanti fattori culturali, come la diffusione della stampa e il ruolo sempre più incisivo delle accademie, e si svolgerà secondo direzioni aggiornate, confermando sempre, tuttavia, il nesso inscindibile con lo scenario nazionale. Sarà allora la volta della speculazione politica di Scipione Ammirato, della lirica e dell’epica barocche, del teatro profano e religioso, della poesia latina secentesca, della letteratura riformatrice e illuministica, della letteratura dialettale e di quella risorgimentale, e via discorrendo. Solo evitando di smarrire tale nesso, valido e vitale nel corso dei secoli, sarà possibile individuare questo sviluppo complesso e frastagliato e decifrarlo in modo storicamente calibrato, senza cedere al fascino di facili suggestioni municipali. Anche il concetto di “salentinità” allora, assumerà connotati più stabili e meno aleatori, che non negano l’amore intellettuale per la vita letteraria della “piccola patria”, ma lo mettono al servizio di un’interpretazione più fondata e veritiera e di una più autentica acquisizione di coscienza rispetto alle vicende culturali della nostra terra, secondo il vero spirito delle belle parole di Mario Marti (non riferibili, in verità, esclusivamente alla sfera della letteratura, ma di portata più generale), che ancora una volta cito e con le quali mi piace concludere: «Salentinità è soprattutto un sentimento, una condizione psicologica e intellettuale, in sostanza un privilegiato e totale rapporto d’amore nei confronti di tutti gli aspetti, le condizioni, le manifestazioni del Salento da parte di chi nel Salento riconosca e senta la propria “piccola patria”. Una “piccola patria” che sta come prefazione della patria grande, come immagine, simbolo, “figura” di essa: ma con un più di domestico, di naturale, direi di istintivo e di casalingo, che la distingue da essa, ma che, insieme, ne fa parte dialetticamente» (Alla ricerca della salentinità, in Salento, quarto tempo, Galatina, Panico, 2007, p. 192).
[in Il Bollettino. Quindicinale di cultura dell’Università del Salento, n. 3 – 15 ottobre 2008, pp. 2-5.]