di Fabio D’Astore
Sentieri nascosti. Studi sulla Letteratura italiana dell’Otto-Novecento è il titolo dell’ultima fatica critica di Antonio Lucio Giannone, ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università del Salento. Il volume (pp. 207), uscito nel dicembre 2016, si incastona al n. 6 della nuova serie della Collana Contemporanea, diretta dallo stesso Giannone per i tipi dell’editore Milella di Lecce e raccoglie undici studi, apparsi in varie sedi e composti per diverse occasioni, organicamente strutturati in tre sezioni omogenee.
La prima comprende un trittico su Sigismondo Castromediano; la seconda presenta cinque saggi su Scrittori e scrittrici del Novecento; la terza e ultima è dedicata a specifici aspetti inerenti alla metodologia critica e a tre figure eminenti della critica letteraria.
Nei tre saggi della I parte, il critico analizza a tutto tondo la figura e l’opera del Bianco Duca (Cavallino di Lecce, 1811-1895), con il dichiarato e, mi pare, riuscito intento di una più avveduta collocazione del Castromediano nel contesto nazionale ed europeo. Ecco allora che nel primo contributo, Sigismondo Castromediano e la memorialistica risorgimentale, Giannone ”mette a confronto” l’opera più nota dello scrittore di Cavallino, Carceri e galere politiche (Lecce, 1895-’96), inserita a giusta ragione all’interno della memorialistica risorgimentale, nella più specifica tematica carceraria, con ”altri scritti appartenenti a questo genere”, sottolineandone la valenza politico-letteraria, spesso non riconosciuta, ma anche quella di carattere ”socio-antropologico”, evidente in talune ”digressioni che fanno luce su vari aspetti della realtà e della società meridionale dell’Ottocento” (p. 24). È il caso, ad esempio, della digressione su Camorra e camorristi, che occupa l’intero cap. XVI e a proposito della quale Giannone individua con acutezza un possibile ascendente anche nel libro di Marc Monnier, La camorra: notizie storiche raccolte e documentate (Firenze, 1862). Il Castromediano – scrive il critico – “descrive la struttura di quella che definisce ’una schiatta infernale’, che regnava nelle carceri e galere napoletane, incominciando dalla etimologia del nome e proseguendo col regolamento, con i vari componenti, con la descrizione dei vestiti dei camorristi, delle sentenze implacabili di morte che emanavano all’interno del carcere” (p. 25). Per quanto riguarda i modelli di riferimento dello scrittore salentino, in almeno due occasioni nella sua opera egli cita il Pellico, definito ”il più gentile e intemerato spirito italiano”, anche se, come sottolinea con acume Giannone, Le mie prigioni non è un libro di lotta politica, giacché prevale lo sdegno morale, ”un fine di edificazione morale”, mentre le Memorie del Castromediano, come peraltro quelle del Settembrini, si orientano nella direzione di una marcata ”denuncia delle ingiustizie patite nel carcere”, giacché l’autore vuol proporsi quale ”storico dei dolori collettivi, cioè delle sofferenze quotidiane subite dai compagni nelle galere borboniche” (pp. 25-26). E pur tuttavia, secondo Giannone, l’opera del Pellico ”influenza, sia pure in minima parte, anche la struttura delle Memorie, per il gusto del bozzetto, di tipo patetico e sentimentale”, come nel caso, ad esempio, della improvvisa quanto consolatoria apparizione di figure femminili (Carmela-Maddalena). Ma l’opera certamente più vicina alle Memorie sono le Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini (Napoli, 1879-’80), oltre che per motivi cronologici, per motivi di natura geografica e culturale, ”nonché” sottolinea Giannone – “storici e biografici, dal momento che con Settembrini Castromediano si incontra sulla nave che doveva portarli, esuli, in America” (p. 30). Anche in questo caso, però, l’attenta analisi di Giannone pone in rilievo le differenze, e non proprio poche, tra le due opere; differenze di carattere contenutistico e formale. Il Settembrini, ad esempio, dedica ampio spazio alla narrazione delle fasi della sua vita, compresa la fanciullezza, mentre lo scrittore di Cavallino punta tutto sulle esperienze carcerarie, ritenendo non meritevole di attenzione la sua ”prima età”; per quanto riguarda le scelte sintattico-linguistiche, invece, Giannone evidenzia la lineare semplicità di quelle operate dallo scrittore di Napoli rispetto al tono classicheggiante, a volte antiquato, adottato dal Castromediano, attribuendo siffatta scelta del salentino agli anni della formazione in collegio e alla mancanza di contatti con ambienti culturali più stimolanti, piuttosto che a una convinta consapevolezza del patriota di Cavallino. Certo è che l’opera del Castromediano, ”pur essendo una delle più significative, e non solo per la mole, della memorialistica ottocentesca, solo raramente figura nelle trattazioni dedicate a questo specifico argomento” (p. 37) e ciò – rimarca Giannone nel secondo saggio, intitolato Epopea risorgimentale nel Sud: Castromediano e altri memorialisti – per ”la consueta emarginazione che vicende e personaggi della storia meridionale hanno subito e purtroppo subiscono ancora nei manuali, nelle antologie, nei dizionari, nei repertori”, pensati e scritti secondo una prospettiva centro-settentrionale. E non basta; anzi, nota acutamente il critico, se alle Memorie del Castromediano almeno qualche citazione è riservata, altri scritti dello stesso argomento non vengono neppure menzionati, sebbene costituiscano quella che Giannone, con motivate e convincenti argomentazioni, non esita a definire ”una sorta di epopea risorgimentale del Sud, forse l’unica, la vera epopea che ha caratterizzato il Mezzogiorno d’Italia nell’Ottocento” (p. 38), in una duplice accezione: per indicare ”le vicende gloriose, memorabili di questo gruppo di patrioti meridionali che ne sono stati i protagonisti e per fare riferimento all’insieme delle opere memorialistiche che narrano queste vicende” (p. 42). Solo considerando in maniera organica tali scritti si possono cogliere la completezza e il senso corale che li hanno ispirati: e così, Giannone passa in rassegna Raffinamento della tirannide borbonica ossia i carcerati di Montefusco (1863) di Nicola Palermo; Antonio Garcea sotto i Borboni di Napoli e nelle rivoluzioni d’Italia dal 1837 al 1862 (Torino, 1862), scritto da Giovannina Garcea Bertola, moglie del patriota calabrese; Ricordi della galera (Lecce, 1881) di Cesare Braico, fino alle Ricordanze della mia vita (Napoli, 1879-’80) di Luigi Settembrini e per ognuno di questi scritti evidenzia i motivi di consenso e quelli di dissenso con le Memorie del Castromediano. Né trascura, nel terzo saggio del trittico, di analizzare la trasfigurazione letteraria di cui sono stati oggetto alcuni di questi patrioti, il calabrese Domenico Lopresti e il duca di Cavallino. In particolare, egli si sofferma sul bel romanzo di Anna Banti, Noi credevamo, nel quale l’autrice, discendente del Lopresti, ricostruisce in maniera romanzata le vicende carcerarie dell’avo. Il Lopresti, pur su posizioni ideologicamente assai lontane da quelle del Castromediano, riconosce al patriota di Cavallino una incrollabile dirittura morale, esaltando l’atteggiamento da lui tenuto in circostanze difficilissime, definendolo ”il più leale tra noi”. In particolare, il Lopresti rimarca il fermo e fiero atteggiamento assunto dal Castromediano in occasione della sua convocazione a Napoli insieme con altri sei condannati, che in realtà erano agenti infiltrati con il compito di convincere i detenuti a chiedere la grazia al sovrano. Il patriota di Cavallino rifiutò di far domanda di grazia e, dopo un mese, fu ricondotto tra i suoi compagni di prigionia.
La seconda parte del volume è dedicata a Scrittori e scrittrici del Novecento e comprende cinque studi: il primo, che a me pare assai convincente, è intitolato Ada Negri e la «Rivista d’Italia». Giannone ricostruisce qui il rapporto di collaborazione della scrittrice con il periodico nel biennio 1818-1819, alla luce di documenti poco noti, come il fitto rapporto epistolare con Michele Saponaro, scrittore di San Cesario di Lecce. Ma, oltre a ciò, ha il merito di segnalare all’attenzione della critica e dei lettori la delicata sensibilità delle liriche di Ada Negri, per troppo tempo ai margini degli interessi, anche dei più accorti studiosi. Il secondo saggio è dedicato ad un romanzo di ”formazione”, Il fiore dell’amicizia, di Vittorio Bodini, scrittore del quale Giannone si è interessato a fondo, divenendone il massimo esperto; il terzo ai reportage dalla Puglia di Anna Maria Ortese; nel quarto saggio, lo studioso propone le coordinate per una ”rilettura” tra realismo e sperimentalismo del romanzo La malapianta di Rina Durante; infine, nell’ultimo contributo, «Lu senzu de la vita»: la poesia ’filosofica’ in dialetto di Nicola G. De Donno, scandaglia un significativo aspetto della produzione poetica in dialetto del poeta di Maglie, sul quale, peraltro, di recente si è tenuto un interessantissimo Convegno di Studi, i cui Atti, per le cure dello stesso Giannone, sono ora raccolti in un bel volume (Milella, 2016).
Nella terza e ultima parte del volume, vengono sottolineati i fondamentali contributi offerti alla critica da tre dei maggiori studiosi del secolo scorso: Luigi Russo, Mario Marti e Donato Valli. A proposito del Russo e della sua interpretazione della poesia di Vincenzo Monti, Giannone individua la sostanziale differenza tra il primo (1928) e il secondo (1951) giudizio critico sul poeta nella subentrata metodologia storicistica, in base alla quale il Russo ”lega più strettamente l’opera d’arte alla storia, al periodo storico in cui un’opera nasce, al fine di vederne i legami, di tipo ideologico, filosofico, politico, estetico con quello” (p. 175).
Metodo storicistico nel quale eccelle certamente il maestro Mario Marti, al quale Giannone ribadisce di sentirsi professionalmente, metodologicamente e anche emotivamente legato, sin da quando, in anni ormai lontani, cominciò a frequentare assiduamente le sue lezioni presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo leccese. In questo studio, in particolare, il critico analizza a fondo il contributo offerto da Marti agli studi sul Novecento, dal momento degli esordi (1943) e fino agli ultimi saggi su autori e aspetti significativi della temperie culturale novecentesca, sempre nel segno del proficuo e indissolubile nesso regione-nazione, alla luce di un metodo d’indagine sorretto dalla necessità di quella filologia integrale che connota tutta l’attività critica di Marti.
Infine, a conclusione del volume un doveroso omaggio di Giannone al suo maestro, Donato Valli, nei confronti del quale lo studioso manifesta gratitudine, riconoscendo al maestro il merito di essere riuscito a trasmettergli, sin dagli anni Settanta del Novecento, “quella passione per il Salento, per la ’piccola patria’”, mai più dimessa. Proprio alla passione per il Salento, d’altro canto, vanno ricondotti i pregevoli studi di Valli sulla letteratura di una regione periferica e su ”nomi allora ancora poco noti non solo in campo nazionale ma anche locale” (p. 196). Tra questi, spicca senza dubbio Girolamo Comi, con il quale Valli stabilì un duraturo sodalizio, tanto che Giannone non esita a parlare di ”lunga fedeltà”, a far data dal dicembre 1958, allorché sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» venne pubblicato il primo articolo di Valli sul poeta salentino, Vita del linguaggio nella poesia di Comi e fino al volume Chiamami maestro. Vita e scrittura con Girolamo Comi (2008), “l’ultimo omaggio dell’allievo al suo venerato maestro, non uno studio critico ma proprio la storia di questo sodalizio – scrive Giannone – , di questo profondo rapporto umano e intellettuale tra il ’maestro’ Comi e il ’discepolo’ Valli” (p. 198).
Le tre parti del volume potrebbero sembrare monadi a sé stanti, apparentemente slegate o poco coese; tuttavia, subito, a una più attenta lettura esse risultano inequivocabilmente tenute saldamente insieme da sicuro rigore di metodo e filologica passione per i testi. Passione e attenzione per il testo, che – come afferma perentoriamente il critico nell’utile Avvertenza – “purtroppo sembra essere diventato ormai un elemento opzionale della critica letteraria, mentre ne dovrebbe essere sempre il centro, il cuore pulsante” (p. 9). Eccolo, dunque, il potente collante degli undici studi: la costante e irrinunciabile attenzione rivolta al testo, ”ben al di là dei generi a cui appartengono le opere affrontate nel volume: la memorialistica, la poesia, in lingua e in dialetto, il romanzo, il reportage, lo stesso saggio critico” (p. 9). Ciò spiega pure la preferenza accordata da Giannone a scrittori “rimasti un po’ ai margini del lavoro critico, trascurati, se non a volte ignorati, o ad aspetti meno noti della produzione di altri”: percorso faticoso, in verità, ma stimolante e foriero di indicazioni utili a inerpicarsi lungo sentieri nascosti o poco battuti, col gusto e il piacere della scoperta.
[“Presenza taurisanese” anno XXXV n. 4/5 – Aprile –Maggio 2017, p. 6-7]