La rappresentazione della realtà nella scienza e nella letteratura

(In margine a: Paolo Maria Mariano, Teatro d’ombra e di luci. Cosa facciamo quando descriviamo il mondo?, Roma, Castelvecchi, 2016)

di Pietro Giannini

Chi pratica con una certa continuità qualche attività volta alla creazione di conoscenze, o comunque chi è interessato al problema della conoscenza, prima o poi è portato a riflettere sui fondamenti della conoscenza e sui modi in cui essa si forma. Per chi è sensibile a queste tematiche il libro di Mariano offre un interessante spunto di riflessione.

L’A(utore) insegna Meccanica dei solidi e Meccanica teorica nell’Università di Firenze e quindi muove da una visione scientifica del mondo. E in effetti i temi più ampiamente trattati sono: la funzione dei modelli matematici nella descrizione dei fenomeni fisici, la necessità della matematica per il discorso scientifico, il contributo della ricerca teorica allo sviluppo tecnologico, il rapporto tra cultura scientifica e cultura umanistica, i problemi della specializzazione e dell’autonomia delle discipline scientifiche. Questi ultimi si configurano più come problemi di storia della scienza, ma la storia della scienza (e della matematica e della fisica in particolare) sono il background su cui si collocano le riflessioni teoriche dell’A. a cui danno il supporto di una documentazione storica dettagliata che offre interessanti excursus narrativi.

Con questi accenni si vuole dare solo un resoconto sommario della ricchezza del lavoro, di cui sarebbe difficile dare una descrizione dettagliata a chi, come me, pur interessato alla tematica generale espressa dal sottotitolo, non pratica i campi di indagine propri delle scienze naturali. E sulla tematica generale intendo qui soffermarmi.

Possiamo dire che punto di partenza delle riflessioni dell’A. sia l’assunto che per operare in modo scientifico sia necessario elaborare un modello matematico dei fenomeni fisici. Che cosa sia un modello matematico l’A. lo chiarisce a p. 13 dove lo definisce “un insieme di relazioni matematiche che hanno funzione descrittiva e predittiva”. Un passo in avanti è compiuto dall’A. allorché identifica il modello matematico con la rappresentazione del mondo (p. 30): ” I modelli…sono una rappresentazione della nostra idea di ciò che possono essere i meccanismi che danno luogo ai fenomeni che analizziamo. Non sono una diretta “fotografia” del fenomeno, semmai un disegno riprodotto dalla memoria dell’oggetto che si considera. In questo senso un modello è una sorta d’intermediatore tra noi che siamo osservatori e il mondo dei fenomeni, che è oggetto della nostra osservazione”.

L’identificazione non è del tutto originale, come riconosce lo stesso A. che a p. 40 cita van Fraassen “che ha fondato aspetti essenziali della sua ricerca sull’idea dei modelli come rappresentazioni del mondo”. Ma è certamente originale l’idea, che da essa l’A. fa discendere, secondo cui, in quanto rappresentazione, il modello matematico non differisce sostanzialmente da altre rappresentazioni del mondo proposte dalla letteratura e dalla filosofia. L’idea è sottesa a tutto il libro, ed è proposta in modo esplicito già al suo inizio (p. 5): “Filosofia, letteratura e scienza esprimono narrazioni di ciò che ci circonda. Gli stilemi adottati e la natura dei risultati sono differenti, così possono esserlo gli argomenti trattati; differente è, inoltre, la fruibilità; la sostanza però è comune; d’altra parte, propongono rappresentazioni del mondo – ciò che percepiamo intorno a noi e quanto immaginiamo come conseguenza della nostra percezione – e come tali trovano la loro comune origine nel provenire dall’essere umano” (corsivi dell’A.).

Il tema dominante, proposto qui in forma sintetica, è poi sviluppato in forma più articolata nel capitolo “Quattro”, che si può considerare il cuore del libro. Qui l’A. muove da una concezione del fatto poetico che può essere sintetizzata così: la poesia è un procedimento discorsivo, gratuito, tendenzialmente non argomentativo, che è latore di un valore estetico, che consiste essenzialmente nella sonorità e nel ritmo delle parole e nella loro capacità di “sollecitare il lato immaginifico del lettore” (p. 60). Proprio quest’ultima funzione della poesia le conferisce un “carattere conoscitivo” (p. 61). Importante la precisazione che segue: “Non si tratta della conoscenza dei meccanismi fisici. Si tratta dell’essere umano e del suo stare nella realtà (almeno quella che crediamo essere tale) come essere senziente, oltre che come oggetto fisico. E questa funzione conoscitiva, che la poesia esercita su chi giudica un valore estetico, può anche essere solo inconscia, ma anche così contribuisce a fertilizzare quel substrato da cui emerge la valutazione. La combinazione di funzione conoscitiva e valore estetico stabilisce fili che collegano il poetare al fare matematica” (corsivi dell’A.). L’analogia tra poesia e matematica è spinta dall’A. sino a coinvolgere il loro processo creativo, che è descritto in questi termini (p. 64): “In principio il gesto del poeta è istintivo, poi si passano intere sere a decidere la pertinenza e la forza di una singola parola nell’ambito di un testo. Istintivo è anche il gesto del matematico nel momento in cui prima sente un teorema e poi s’industria a cercare la strada di una dimostrazione, oppure quando egli vede un modello di un fenomeno fisico e poi si sforza di verificare che esso sia, per così dire, ragionevole. Le analogie tra il poetare e il fare matematico si manifestano sempre più stringenti quando si analizzano i meccanismi interiori nel poeta e nel matematico all’insorgenza di quello che è per lui un atto creativo” (corsivi dell’A.).

Questa nozione di ‘atto creativo’ comune a poesia e matematica può sorprendere il modo di sentire comune che alla matematica (e alla scienza) attribuisce un procedimento legato più alla logica che alla fantasia, con l’obiettivo di produrre verità e non opinioni. Ma questo pregiudizio diffuso è confutato dall’A. con le parole di Pierre-Gilles De Gennes citate a p. 80: “Alcuni filosofi raffigurano i ricercatori come uomini che stabiliscono una verità. Molti di noi però non si riconoscono completamente in questo schema. I ricercatori del nostro tempo non pretendono mai di costruire una verità ultima. Noi costruiamo soltanto, con molte esitazioni e goffaggini, una descrizione approssimativa della natura”.

L’opinione di De Gennes trova una piena rispondenza nelle convinzioni dell’A. che non manca di sottolineare a più riprese il carattere problematico e non ‘oggettivo’ della conoscenza della natura, che risulta essere in tal modo un altro Leit-motiv del libro. Lo dimostrano affermazioni quali “(i progetti tecnologici)…sono sì frutto d’invenzione, ma sono basati su modelli matematici del reale, o almeno di quello che i nostri sensi e gli strumenti – che dei sensi sono estensione – registrano e ci fanno pensare essere reale” (p. 23) o anche, con le parole di Boltzmann, “ritengo che compito della teoria sia costruire un’immagine del mondo esterno che esiste solo in noi, che ci serva da guida in tutti i nostri pensieri ed esperimenti; cioè, per così dire, ci serva da guida nel processo di ragionamento, la cui realizzazione è, in grande, ciò che nella creazione di ogni idea in noi si compie in piccolo. E’ una tendenza dello spirito umano crearsi tale immagine e adattarla sempre più al mondo esterno” (p. 41). Sono posizioni che potremmo definire relative (o relativistiche) e che costituiscono ormai l’asse portante della cultura scientifica (o forse di una parte di essa), ma che non sono correnti in altri ambiti disciplinari e nella cultura diffusa, dove il ‘relativismo’ (con la connessa idea di tolleranza) non è certamente un valore positivo.

Con queste brevi note si è cercato di ripercorrere alcuni punti salienti del libro, di cui si può condividere l’impianto generale, se esso risponde all’esigenza di proporre una teoria unificata delle attività ‘spirituali’ (meglio, forse, psicologiche o mentali), superando distinzioni che erano funzionali ad una diversa concezione dell’uomo. Sul punto nodale della analogia tra rappresentazione poetica e rappresentazione matematica, non va, a mio parere, dimenticato che quest’ultima è “descrittiva e prescrittiva” (come l’A. ricorda a più riprese) mentre la prima non ha le stesse pretese, è soltanto “descrittiva” o, potremmo dire, “evocativa”.

Nel clima di questo accostamento tra attività diverse, mi piace ricordare le interessanti annotazioni sulla psicologia dell’invenzione in matematica elaborate da J. Hadamard, come è ricordato a p. 16, “indica preparazione, incubazione, illuminazione, verifica quali fasi essenziali del pensiero di chi opera con gli oggetti della matematica” (corsivi dell’A.). Per esperienza personale posso testimoniare che queste fasi non sono esclusive del lavoro matematico ma sono comuni a ogni attività ‘inventiva’, inclusa quella che si pratica nella ricerca storica ed in quella filologica in particolare, che della ricerca storica fa parte. Senza dover dare in questa sede una documentazione puntuale e ripercorrendo da vicino l’esposizione esplicativa che segue alla frase citata, si può dire che anche in ambito filologico nella fase della preparazione “in genere si vagola nella letteratura, sfogliando riviste, libri, ascoltando seminari, chiacchierando al bar con qualcuno fino a quando un problema non prende forma nella mente di chi voglia fare matematica, quando non si tratti di una questione indotta naturalmente nei pensieri di costui dai suoi stessi risultati precedenti, ove ce ne siano stati”. Segue poi la fase della incubazione, durante la quale “i pensieri che si erano formulati sul problema in esame si depositano nel subconscio e lì macerano, connettendosi e sconnettendosi con altre idee, perfino a quelle a loro estranee, talvolta solo apparentemente, mentre la mente conscia è impegnata nelle incombenze d’ogni giorno”. Questa fase si conclude con l’illuminazione, “il momento in cui si sente il risultato, non avendo talvolta motivi universali esaurienti a disfavore, ma neanche a favore: il momento della congettura“. Infine la fase della verifica, “che rende il sentire iniziale finalmente un teorema, cioè qualcosa di dimostrato e inappellabile nel sistema di assiomi in cui si colloca e da cui discende. La fase della verifica è quella più lunga, più noiosa, quella in cui nulla deve essere fuori posto…”. Con le necessarie correzioni terminologiche (che escludono le nozioni di congettura, teorema, assioma) il risultato dell”invenzione’ storico-filologica è una teoria (o una tesi) personale che si vuole fornita di una certa solidità dimostrativa. E quanto sia “lunga e noiosa” la fase della verifica, lo attestano gli estenuanti controlli bibliografici e testuali che sono necessari nella fase della redazione di un lavoro filologico.

Potrei spingermi più in là e dire che il metodo adottato dalla ricerca storico-filologica è quello, popperiano, ipotetico-deduttivo, che consiste nel conseguire una ‘verità’ eliminando progressivamente gli errori attraverso ipotesi successive. Ma, essendo anche un metodo scientifico, istituisce una somiglianza che attenua le differenze che discendono dai diversi oggetti studiati e dalle diverse finalità perseguite.

A confermare questa osmosi metodologica mi piace citare a conclusione le parole di un grande filologo dalla mentalità aperta, Giorgio Pasquali: “”La filologia non è né scienza esatta né scienza della natura, ma, essenzialmente se non unicamente, disciplina storica: questo sa qualunque filologo serio che abbia riflettuto un poco sul proprio mestiere. E qualunque filologo non sia perfettamente ignaro dei metodi delle altre discipline, perfettamente privo di cultura generale, perfettamente incapace di pensare chiaramente, sa benissimo che non solo negli studi delle antichità classiche ma, e più ancora, nelle altre discipline le verità importanti sono state, prima che dimostrate, intuite fantasticamente; sa che segnatamente le matematiche esigono dai loro cultori una forza di immaginazione ben maggiore che non la filologia, dalla quale, secondo taluno, filologi scientifici in ossequio alla scienza vorrebbero bandita la fantasia. Senza la fantasia non ci si può raffigurare  solidi, nonché di n dimensioni, di tre; senza fantasia non si può intendere il più semplice teorema stechiometrico” (Filologia e storia, Firenze 19642, p. 50).

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1 risposta a La rappresentazione della realtà nella scienza e nella letteratura

  1. Giovanni Frosali scrive:

    Letto; è molto buono con l’A. arrivando a generalizzare il suo (dell’A.)
    punto di vista.
    Ma io oso di più: il metodo del matematico si può applicare a tutto,
    tutto se vogliamo potrebbe richiedere fantasia e metodo rigoroso di
    ragionamento, ma molti non lo vogliono fare o non lo fanno perché
    richiede fatica.
    D’altronde accanto ad un comportamento che costa fatica e sudore, ce ne
    sta uno vicino meno faticoso quanto uno vuole.
    Gianni

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