di Luigi Scorrano
C’era una volta il grido. La sua udibilità non giungeva troppo lontano per forte che potesse essere la potenza vocale di chi gridava. Chi riusciva a gridare più forte degli altri sembrava che avesse ragione; chi aveva il grido debole sembrava condannato o a non essere udito del tutto oppure a farsi compatire o deridere per il filo di voce che poteva emettere.
Al tempo in cui il grido era la più alta forma di udibilità, le categorie dei gridanti erano ben distinguibili: chi vociferava era il forte da seguire, chi non riusciva a farsi udire era il debole da isolare. In seguito la tecnologia mise in auge il microfono e gli altoparlanti. Sembrava che cominciasse un’era nuova. Non c’era più bisogno di gridare. Il microfono consentiva di farsi ascoltare anche da coloro che in condizioni normali non sarebbero stati in grado di ascoltare. Ci fu un miracolo, presto diffusosi, e questo ‘miracolo’ fu definito: amplificazione.
Ben presto ci si accorse, però, che quel miracolo in fin dei conti non era stato frutto di qualche geniale intuizione. Al contrario si trattava di una cosa nota che a prima vista non era stata riconosciuta. L’amplificazione c’era già, prima che se ne ottenesse il brevetto, ed era – come si suol dire – antica quanto il mondo. Perché, a riflettere bene, altro non era che un’applicazione della fama; e si sa quanto la fama debba proprio all’amplificazione. Mai lo abbiamo constatato come nel nostro tempo.
Vediamo. Oggi il più squinternato autore d’un romanzetto diventa, se sa destreggiarsi, un produttore di capolavori. E guai a metterlo in dubbio! Basti sapere che si esibiscono carte e diplomi a documentazione di quella fama; illustri accademie sembrano il luogo più adatto ad accogliere i frutti di tanti ingegni in ascesa; quali che siano le opere che qualcuno produce in qualunque campo del sapere intellettuale o delle pratiche artigianali. La Fama era immaginata dagli antichi come una figura femminile che, armata di tromba, cantava virtù e difetti degli eroi di giornata. Né i tempi, sotto questo profilo, sono cambiati di molto.
Corriamo un po’ tutti dietro i fantasmi della Fama; l’amplificazione tocca più o meno anche noi: singolarmente o collettivamente. Tizio è famoso, ma anche la gente è famosa; basta fare un avveduto uso delle parole perché la Fama raggiunga tutto e tutti giustifichi. Se abbiamo avuto la fortuna (sic!) di capitare sotto l’occhio di una telecamera che per un attimo ci isoli in un inatteso primo piano, amici e conoscenti che abbiano visto quel fotogramma ci considereranno dei personaggi in ascesa. Chi ha cantato in un coretto forse improbabile o provvisorio sogna forse di calcare le tavole di palcoscenici famosi, si proietta in un chimerico assaporamento del successo.
Questo è dovuto all’amplificazione, alla risonanza che attribuiamo ad un gesto, ad un’azione insignificante trasformata dalla nostra immaginazione in un fatto decisivo per la nostra vita.
L’amplificazione nasce dalla superbia, dalla presunzione, da una esagerata autostima e conduce lentamente alla convinzione che nulla è mai sufficiente a descrivere, a lodare, a mettere sotto la luce dei riflettori la nostra personalità. È necessario correggere una simile tendenza, per evitare che essa si riversi troppo pesantemente nell’operato di quanti sono chiamati a incarichi di grande responsabilità, nel pubblico e nel privato.
Correggere la tendenza all’amplificazione vuol dire riconquistare una virtù necessaria, oggi troppo disprezzata o cancellata dal numero delle cose utili. Bisogna riconquistare la virtù dell’umiltà, sempre più difficile da comprendere, sempre più impegnativa da esercitare.
Ma che cosa ne sarebbe dell’umiltà se ci lasciassimo tentare dalla luce dei riflettori, dall’ansia di farsi notare, dalla possibilità di esibire le nostre fantasie come qualità rarissime? Cadrebbe anche l’umiltà nei meccanismi dell’amplificazione?