di Antonio Lucio Giannone
Nel 1954 Franco Antonicelli e Italo Calvino si recarono insieme in Puglia per partecipare alla ‘Settimana del libro Einaudi’, in programma a Bari e a Lecce tra la fine di giugno e il principio di luglio. Le ‘settimane’ avevano lo scopo di far conoscere i libri della Casa editrice torinese attraverso il contatto diretto di autori e collaboratori con il vasto pubblico dei lettori. Ogni sera, per sette giorni di seguito, nelle città prescelte si svolgevano conferenze, incontri, dibattiti, nel corso dei quali venivano presentati le novità librarie, le collane e i programmi einaudiani.
Per Antonicelli quel viaggio rappresentava un ritorno alle proprie radici, in quanto la Puglia era la terra d’origine del padre, nella quale egli non era più tornato dai tempi dell’infanzia, trascorsa per alcuni anni a Gioia del Colle. Scrittore, editore, critico letterario, organizzatore di cultura, amico e sodale di Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Massimo Mila e Norberto Bobbio, Antonicelli era già allora una delle figure più in vista dell’ambiente intellettuale torinese[1]. Di una generazione più giovane, ma già apprezzato narratore, era invece Calvino, che lavorava presso Einaudi come redattore stabile ed era ormai in procinto di diventare dirigente[2].
Questo viaggio ispirò ai due letterati altrettanti scritti, e precisamente a Antonicelli un racconto, dal titolo Finibusterre, e a Calvino un articolo, La ‘Settimana’ a Bari e a Lecce, i quali sono stati a lungo ‘dispersi’ nelle sedi originarie di pubblicazione e solo di recente raccolti in volume, a cura di chi scrive[3]. Essi sono la testimonianza di un’esperienza indimenticabile vissuta sul lato umano, ma al tempo stesso documentano un significativo momento di incontro e di confronto tra due esponenti dell’intellighenzia piemontese e la migliore cultura pugliese degli anni Cinquanta.
Finibusterre[4] si sviluppa all’inizio come un diario di viaggio, steso in una prosa classicamente composta, ricca di similitudini e di aggettivi, spesso in coppia, e prende il via subito dopo aver lasciato la Marche ed essere giunti in Abruzzo. Antonicelli descrive con rapidi tocchi i luoghi visitati o semplicemente attraversati, soffermandosi su qualche particolare o associando spesso città e paesi a personaggi o ad avvenimenti della storia, della letteratura, del cinema. Così succede, per esempio, a Pescara dove sorge spontaneo l’accostamento con D’Annunzio, uno degli scrittori da lui più amati, ma molto meno dal suo compagno di viaggio:
“Arrivammo a Pescara, Pescara, D’Annunzio. Benché a noi due importasse assai poco di D’Annunzio, ci fermammo a bere qualcosa, a guardare i bagnanti passeggiare con le loro ciabatte estive, e a respirare un’aria di spruzzi salati, Poi c’infilammo come per intesa in via Manthonè (un Gabriele anche lui) nella più vecchia, piccola città di poche strade, a cercare la casa dove nacque D’Annunzio. Il mio compagno era molto più giovane di me, e credo che, all’infuori di qualche poesia a scuola, non avesse mai letto nulla del vate. Gli sapeva di cose vecchie, di fascismo, di grancassa, di stonature d’un altro mondo. Quanto a me che n’ero anche stato innamorato, mai m’era avvenuto di interessarmi alla sua vita privata, di credere alla sua intimità. Degli amori qualche volta, degli affetti suoi non cercavo mai le tracce, dubitando di trovarle, benché molte pagine, anche belle, siano dedicate alla sua fanciullezza e alla sua adolescenza. Una cartolina con la firma sola di Giosuè Carducci l’avrei tenuta sempre, una letterona invasa dalla calligrafia di D’Annunzio l’avrei venduta subito. Ma insomma, l’occasione c’era e andammo alla famosa casa, che è ormai monumento nazionale. Ci accompagnò per le stanze a vedere quel pochino ch’è rimasto, una donnetta che zoppicava. Pare che la casa l’abbiano spogliata (chi?) durante la guerra. Ci sono persino dei cassettoni senza cassetti. Ma il colore e l’odore e l’ombra di una vecchia casa di possidenti è rimasta. A me ricordava la mia, dove son nato. Qui D’Annunzio era nato e vissuto, fino al tempo del Cicognini e tornato sposo rapitore di vent’anni. Piccolino, morbidino, inquieto. Signorino”[5].
Altri accostamenti sono istituiti da Antonicelli tra Vasto e Gabriele Rossetti, tra Putignano e Rodolfo Valentino e, ancora tra Barletta e la celebre ‘disfida’. Una volta giunti in Puglia, egli si sofferma anche sulle colture tipiche della regione, che caratterizzano il paesaggio naturale. Ecco allora il grano del Tavoliere: «C’innalzammo tra colline dove splendeva abbacinante il grano mietuto. Questa, pensammo, è la stagione vera della Puglia, non quella del tempo fresco, ma quella della grande vampa. Altrove, nell’Italia di lassù, le messi non rifulgono in questo modo sugli avvallamenti e poi sui piani sterminati»[6]. Subito dopo, a prevalere è invece l’ulivo: «Mica l’ulivo santo e pallido della Liguria e della Toscana, ma un ulivo di verde vivo, vibrante e fastoso e compatto»[7]. E poi, ancora, la vite: «E in mezzo a quel verde ce n’era un altro più fresco e primitivo, quello delle viti, un mare: a pergole, ad alberello, a fitti cespi»[8].
Ma, in verità, fino all’arrivo nel Salento, non c’è niente che colpisca in modo particolare la fantasia e il sentimento dell’autore. L’unico momento di un certo interesse è costituito forse dalla visita a Bari vecchia, che lo impressiona per la sua prorompente vitalità, paragonata a quella di un «formicaio»:
“Bari moderna è, a suo modo, bella. Vale altre città moderne. Se Parigi avesse lu mere… pretende a città capitale, forse lo è. Io cercai all’albergo cartoline di Bari vecchia; dissero che non ne avevano, che i baresi non hanno piacere che si mostri. Capisco. Tutti quei palazzoni moderni del lungomare, quella speranza visibile di grande avvenire, quel sentirsi la perla del Sud o dell’Est d’Italia è come chi si fa ricco e nasconde i suoi vecchi cenci frustati, e i meridionali, si sa, sono nobili orgogliosi. Perché andare a vedere apposta le loro residue miserie, quando la città è diventata un’altra, piena di traffici, di mostre, di forestieri, di belle camere, di locali notturni, di feste di beneficienza? Ma il mondo attorno all’antico S. Nicola è un formicaio ebbro di vitalità. Vecchi cortili sono stanze, vecchie cappelle sono magazzeni, una scala sfonda un muro, un muro alza la testa oltre il soffitto, una colonna che si affaccia a una finestra, un vicolo entra in una camera da letto. Passa con il braccio steso il venditore di pomodori secchi e salati e il suo lamento incomprensibile eccita l’appetito. Allora mille bambini seminudi sporgono il loro pezzo di pane. Mentre la madre pettina la comare, la figlia fa la pasta su una pietra larga, davanti all’uscio di casa. Con un pizzico di pasta mette al mondo altri pupi, ci soffia su: andate a giocare, dice, toglietevi di qui. Così si moltiplica all’infinito la vecchia bari, grazie a Dio, cresce nuova e non muore mai. Là comanda il Catapano, e il Catapano ordina di vivere”[9].
A Bari, intanto, Antonicelli e il suo compagno sono raggiunti da due amici che si uniranno a loro. E se nel personaggio chiamato Carlino, che accompagna l’autore, non è difficile riconoscere Italo Calvino, in quello denominato Vittorio, uno dei due che si uniscono a loro, si intravede chiaramente il poeta leccese Vittorio Bodini. Quest’ultimo era stato invitato nel capoluogo regionale per partecipare alle manifestazioni della “Settimana”, direttamente da Einaudi per il quale aveva tradotto, nel 1952, il Teatro di García Lorca e si accingeva a tradurre il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, che uscirà nel 1957.
Un altro incontro avviene ad Alberobello con due turiste svizzere che resteranno con loro fino alla fine del viaggio in Puglia:
“Erano alte e belle. Non parevano svizzere (o l’idea che noi delle svizzere avevamo, ma danesi, svedesi. Cercammo rapidamente nella memoria una rassomiglianza con attrici cinematografiche, una con Sara Churchill o con la Miranda, l’altra ancora più alla lontana, con Jean Harlow. Ma, straniere e belle, noi come tanti ragazzi alle prime armi, ci rimescolavamo tutti. Volevamo accompagnarle, ma dissero di voler visitare altri trulli, Noi eravamo improvvisamente stanchi dei trulli e ci mettemmo a fantasticare davanti alla nostra macchina, indugiando. Riapparvero. Questo ci dette speranza di riattaccare. Veri italiani, ma non ci vergognavamo”[10].
Con le due giovani donne, chiamate dall’autore coi nomi di fantasia di Ping e Armamengia, i quattro entrano subito in confidenza e, dopo averle ritrovate a Brindisi, le convincono a seguirli fino a Leuca.
Il momento culminante del viaggio, come si diceva, è costituito senza dubbio dalle tappe a Lecce e nelle località visitate del Salento. A Lecce Antonicelli è attratto innanzitutto dalle bellezze architettoniche e, in particolare, dal barocco, che ritiene privo della «drammaticità» e della «gran vena oratoria» di quella del Nord e paragona piuttosto a «un paziente merletto»:
“Il barocco qui è nato col tufo. Quella materia, delicata, friabile, irrita i pollici dei decoratori, anzi tutte le dita, le costringe ad agitarsi, a plasticare, a segnare orme, a rilevare pizzichi, insomma a tasteggiare senza posa. Non c’è nulla di profondo in quel lavoro. Il gioco delle ombre è minimo, è una semiluce, è un’increspatura, cosicché, senza forti contrasti, la drammaticità, o la gran vena oratoria del barocco del Nord lì non esiste. È piuttosto un paziente merletto, che non risparmia un metro di costruzione, facciata, cappella, monumento, colonne, balaustre. La superficie tutta coperta, non si sa quel che prima c’era: gli spazi, le pause che ti fan pensare alla quiete della materia liscia, prima dell’uso.
L’effetto è grigio e armonico. Questa frenesia del plasticare l’hanno ereditata i dolcieri. È arte da dolcieri, infatti: minuta, preziosa, tutta servizievole, ornata galanteria. I più famosi pasticcieri di Lecce, quando vanno in casa di una Duchessa o dei maggiori viticultori delle Puglie, portano personalmente sulle braccia un trabiccolo merlato di quella precisione, altrettanto inesausta, altrettanto fine”[11].
Mostra interesse inoltre per l’artigianato tipico locale, la cartapesta, visitando la bottega di uno scultore. Non trascura nemmeno alcuni luoghi della città, come lo splendido convento degli Olivetani, allora utilizzato come ospizio di mendicità («Vittorio non ci risparmiò nulla: era una sapente guida della sua Lecce. Ci portò al Cimitero, alla Casa dei Poveri, odorosa di oleandri, di frescura, di minestra. Bello era il viale dove i poveri si siedono solitamente sulle panche»[12]). Apprezza infine la vivacità del capoluogo salentino, che definisce «una città di ambiziosa cultura, senza smercio e senza finta generosità»[13].
Dietro alle osservazioni e alle stesse scelte compiute da Antonicelli pare avvertirsi in modo palpabile la presenza di Bodini, il quale, com’è noto, ha messo costantemente Lecce al centro della sua opera, descrivendola in numerosi racconti e dedicandole alcune liriche. Si può dire anzi, ed è questo forse l’aspetto più singolare del racconto, che Antonicelli vede Lecce (e il Salento) con gli occhi del suo amico, il quale gli fa da «sapiente guida» nella propria terra, come egli stesso riconosce nel brano poc’anzi citato. Evidenti, ad esempio, sono le affinità tra i brani citati e alcune riflessioni di Bodini sul barocco leccese, che egli interpreta come «horror vacui», cioè come paura del nulla, della morte, proprio a causa dell’oltranza decorativa (notata anche da Antonicelli), che non lascia libero neanche il più piccolo spazio delle facciate di chiese e palazzi[14]. E sempre dall’autore della Luna dei Borboni derivano sia l’osservazione sull’importanza di una materia docile come il tufo ai fini della nascita di questo peculiare stile architettonico, sia l’attenzione riservata alla cartapesta leccese[15]:
“A mezzogiorno entrammo nella bottega del Cavalier Giuseppe Tigre, scultore in carta pesta. Egli ci mostrò le sue statue, battendole con forza l’una contro l’altra, santi e madonne, per vantare la consistenza della cartapesta. Le rovesciava, esaltando l’eleganza e la finitezza del lavoro, ricercatissimo dai preti e dalle confraternite della provincia. Una serie di piccoli Cristi rosei, con le braccia spalancate, tutti in fila contro una parete, s’intrecciavano fra loro come un corpo di danzatori. Vittorio non ci risparmiò nulla: era una sapiente guida della su Lecce. Ci portò al Cimitero, alla Casa dei Poveri, odorosa di oleandri, di frescura, di minestra. Bello era il viale dove i poveri si siedono solitamente sulle panche”[16].
Ma un carattere inconfondibilmente bodiniano hanno anche le altre tappe dell’itinerario salentino, come la sosta a Otranto per visitare la cattedrale coi mosaici pavimentali
“Sul pavimento della cattedrale i mosaici del monaco Pantaleone ci narravano in sintesi la storia del mondo, l’uomo, le sue fatiche, le sue leggende. Questo è quanto quegli uomini sapevano, i mesi dell’anno, la Torre di Babele, le astuzie e la forza animalesche, Re Arturo. La cultura medievale ha questa impronta di chiarezza e di universalità, che l’Umanesimo intorbidì e spense. Quel linguaggio parlava a noi, ci riafferrava con quell’incastro di scienza e di favola, che non si ritrovò mai più”[17].
E non si dimentichi che Bodini, a proposito di Otranto, in una poesia intitolare Come farò, parla di un «rampante agreste mosaico», in cui «l’universo era già tutto scritto»[18].
Un’altra sosta, al ritorno, è quella a Galatina con l’accenno al fenomeno dei tarantolati (al quale anche lo scrittore leccese fa riferimento in Xanti Yaca: «Uno l’ho visto io / camminare col capo in giù / sul soffitto…»[19]): «Il giorno prima, dicevano, a Galatina c’era stato il convegno e la danza dei tarantolati. In una stanzina, fuori di sé, avevano strisciato per terra e sul soffitto, erano passati come serpi tra le gambe delle seggiole, spumando e urlando»[20].
Tutta bodiniana è poi la riflessione sulla «lontananza», non solo geografica, della Puglia, e di tutto il Sud, rispetto al resto d’Italia, che Antonicelli fa propria con convinzione:
“La bellezza sorprendente e sconosciuta della Puglia, il rossore stranamente sanguigno della sua terra e il manto verde che la copriva, il suo protendersi nel mare aperto, nel glauco mare d’Oriente, e le infinite schiatte in lei sepolte, i nostri vecchi re e i sudditi contadini, le belle ragazze, piccole, soffici, dagli occhi grandi, luminosi e neri, dal volto terreo; e la sua pudica civiltà, quel suo essere ingiustamente lontana, come esule – destino di tutto il Sud – dalla storia dell’Italia ufficiale; tutto questo mal pensato, mal visto, in una corsa vertiginosa, ma anche e soprattutto quell’improvviso bisogno umano di amore che prendeva la sua arcana risonanza da un luogo dove tutto pareva terminare; ecco che cosa era stata Leuca”[21].
La lontananza diventa senso della finitudine proprio a Santa Maria di Leuca: «Arrivare in tempo, prima della fine del giorno, a toccare il termine dell’Italia, a bagnare un piede nel suo mare d’Oriente»[22]; «Bella, singolare era la Puglia, ma la cosa più straordinaria era che correvamo verso un punto preciso, un nome, uno scoglio, in cui con la Puglia finiva anche l’Italia»[23]; «Eravamo arrivati a Leuca ed ecco Leuca era la fine»[24].
Anche a questo proposito, non si può non pensare immediatamente ad alcuni versi di una poesia di Bodini, intitolata non a caso Finibusterre, dove questo sentimento si carica di valenze polemiche ben precise nei confronti di certi sviluppi della storia nazionale dopo l’unità, non certo favorevoli al Sud: «e tornerà / il bianco per un attimo a brillare / della calce, regina arsa e concreta / di questi umili luoghi dove termini, / meschinamente, Italia, in poca rissa / d’acque ai piedi d’un faro»[25].
Proprio a Leuca, dove tutto sembra terminare, nasce, per una istintiva reazione, un prepotente «bisogno di amore»[26], che si impadronisce all’improvviso dei due visitatori e che rende narrativamente più mosso il racconto attraverso l’esile intreccio rappresentato dai rapporti con le giovani donne straniere, anch’esse prese dalla fascinazione del luogo. Con queste ha inizio infatti un sottile gioco di seduzione reciproca:
“Noi cominciammo a stringerci intorno a Ping e Armamengia, e a mugolare e a dar bacini qua e là, sulle spalle, sul collo, sui capelli. Non dicevano nulla. Non è che non ci capissimo, ci capivamo benissimo, ma a un certo momento ci aveva preso la frenesia di quel linguaggio fra selvaggi, fatto di parole oscure, di mugolii e di caldi e lunghi abbracci. In realtà qualcosa ciascuno di noi aveva chiarissimo in mente, ma inesprimibile: ed esse lo comprendevano con la prontezza delle donne. Lasciavano fare, come se quella finta incomprensione bastasse a preservarle, come se la fittizia distanza di stranieri desse a tutto una garanzia d’innocenza o di tollerabile malizia.
Prendevano bacini, parole e carezze sul volto, sulle mani, senza dir nulla, quasi pensassero ad altro e intanto un gatto strofinasse sul loro collo la coda di velluto”[27].
Da questa particolare situazione vissuta a Leuca deriva anche il senso complessivo che assume per Antonicelli il viaggio in Puglia, quello cioè di un’esperienza irrepetibile, quasi di un’uscita dalla normale routine, dalla vita di tutti i giorni:
“Il mondo delle belle ragazze era finito, come ogni altro mondo immaginario. La mia età non permetteva più sorprese. Il mondo degli imprevisti, delle scoperte, Finibusterre, era dietro di me, di noi, lontanissimo. Saremmo risaliti verso l’alta Italia. Ecco…”[28].
Le pagine finali descrivono il viaggio di ritorno attraverso le località principali dello Ionio e poi dell’interno del Salento:
“Sul mare pioviscolava. Nell’orizzonte grigio apparvero lembi di terra deserta, selvatica, su cui si elevavano vecchie torri di guardia, e poi la rosea Gallipoli, dove giravano venditori di spugne, e la striscia di terra di Porto Cesareo galleggiante sul mare violetto. Nardò, Galatone e Galatina splendevano bianche e chiuse nel sole. Sulle terrazze delle piccole case s’ergeva la dentellatura delle scalette che portavano al belvedere, e di lì i possidenti sorvegliano i campi di viti e di tabacco dal fresco e voluttuoso fogliame”[29].
Superato il Salento, i due compagni proseguono il cammino, passando per Gioia del Colle, dove «sentimmo qualcosa di vivo al cuore», e poi Trani, dove ritrovano le due svizzere, Barletta, Margherita di Savoia, fino a giungere a Monte S. Angelo. Qui, insieme alle ragazze, dopo essersi fermati una notte, visitano il santuario:
“Il giorno dopo visitammo la caverna di San Michele, un Mont Saint-Michel italiano, grandioso, rozzo, ipogeo. Una lapide ringraziava la Madonna di aver salvato l’Italia dalla crisi politica e religiosa del 1948. Armamengia ci chiese che cosa volesse dire. Trascinammo le ragazze allo strano monumento della Tomba di Rotari e poi al castello in rovina, tutto pieno di cardi selvatici. Il mare sotto, lontano, era di una celeste beatitudine”[30].
Subito dopo, mentre le due donne decidono di fermarsi ancora in Puglia per visitare il Gargano, i due letterati proseguono sulla strada del ritorno e di abbandonare definitivamente la regione alla quale Antonicelli dà l’addio con un senso di rimpianto:
“Così avevo sentito la notte di Leuca. Avremmo corso senza più un desiderio, una vera speranza. Avremmo lasciato i bei nomi dell’Ofanto, del Fortore, del Biferno, a Foggia le Puglie erano finite; ripresa la nostra strada, di gran corsa, a lunghe tappe, al giallo oro della terra succedendo il verde e poi un colore più pallido di arena, saremmo risaliti verso le Marche, ormai così scolorite, luoghi di malinconia e di grazia, perdendoci e rapidamente dimenticando. Saremmo tornati, è vero, verso la gentilezza e la serenità, verso pensieri più eletti e forme d’arte più sintetiche, verso l’intellegibile e il musicale ordine, ma avremmo perduto la festosa, innocente vitalità, la forza sanguigna e la favolosa decrepitezza”[31].
* * *
Fa da prezioso pendant al racconto di Antonicelli lo scritto di Italo Calvino da noi collocato in appendice del volume citato, La “Settimana” a Bari e a Lecce[32], che non è una semplice cronaca dell’avvenimento[33], ma costituisce anche uno spaccato della cultura pugliese, in un momento particolarmente felice della sua storia, caratterizzato da un notevole fervore di iniziative in ogni campo, che non sfugge certo allo scrittore. L’articolo è tutto impregnato di tensione civile, di spirito resistenziale e antifascista che emerge anche dagli. argomenti delle conferenze tenute a Bari e a Lecce in occasione della “settimana”. Lo stesso Antonicelli tiene una conferenza dal titolo Storia di una Casa editrice che verte «sui reciproci contributi della cultura del Sud e di quella del Nord negli anni duri della Resistenza disarmata»[34]. Mario Sansone presenta invece le Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, che «ebbe – scrive Calvino – un significato non meno importante: era l’incontro della coscienza umanistica della cultura meridionale col grande fatto storico della resistenza armata, un’esperienza che il Meridione visse solo di scorcio, e che ancora oggi in qualche misura diversifica e separa la coscienza civile dell’Italia del Sud da quella del Nord»[35]. Inoltre Gastone Manacorda parla di Gramsci e della sua concezione unitaria della cultura, mentre Luciano Lucignani di Brechtt e dei problemi del teatro moderno.
Uno spazio particolare è riservato all’incontro con Carlo Levi, del quale traccia un gustoso ritratto:
“Poi venne, attesissimo, Carlo Levi. Si sa che l’autore dell’Orologio non possiede quello che si dice il senso del tempo, o meglio ne ha una nozione tutta propria. Si trovava in Lucania, dove girava col regista Pavoni un documentario sui suoi quadri; era atteso per le nove e un quarto; telefonò da Barletta che stava per arrivare; la sala dell’Albergo delle nazioni era piena di pubblico che l‘attendeva. A poco a poco il pubblico si spostò sul lungomare, guardando avvicinarsi i fanali delle macchine, in attesa della sua. Finalmente «don Carlo» arrivò: la sua vista, placida e olimpica, tolse ai più ogni ricordo d’impazienza. A Bari, come in tutto il Meridione, Carlo levi conta innumerevoli amici: la sua non fu una conferenza ma una chiacchierata in una tranquilla atmosfera d’amicizia. Parlò del viaggio, che aveva fatto, degli incontri che l’avevano fatto tardare, di Sannicandro Garganico, il paese convertito all’ebraismo, della Biennale, del Premio Strega, dell’arte e della letteratura realistica che, dopo una battuta d’arresto in questi ultimi anni, oggi sembra raccogliere le forze, riprendere lena. Poi il pubblico interrogò, s’iniziò il dialogo. Più familiarmente ancora che a Bari, il dialogo con Levi si sviluppò a Lecce, dove eravamo riusciti a far arrivare lo scrittore quasi senza ritardo, contrastando il suo continuo desiderio di fermarsi a visitare ogni gruppo di case, a interrogare ogni contadino o ogni donnetta. Con due sole soste, una balneare alla stupenda Polignano e l’altra architettonica e paesaggistica a Ostuni, alta sulla piana verde-azzurra a perdita d’occhio, riuscimmo a portare don Carlo puntuale ai suoi amici leccesi”[36].
Anche a Rocco Scotellaro, morto l’anno prima, dedica un affettuoso ricordo: «E nelle parole di Carlo Levi, che del giovane lucano fu l’amico più affezionato, la cara figura del ragazzo-sindaco-poeta ha dominato le ultime battute della nostra “Settimana”. E non poteva essere una chiusa più significativa, a indicare un impegno culturale che a tutti noi, del Nord e del Sud, sta egualmente a cuore, una via da seguire»[37]. Così pure non manca di ricordare meridionalisti, come Guido Dorso e Tommaso e Vittore Fiore.
Ma soprattutto Calvino, in questo scritto, riesce a cogliere in pieno lo spirito più autentico della “Settimana del libro” svolta in Puglia, che pone emblematicamente «sotto il segno dell’amicizia»[38] tra le due maggiori case editrici di cultura italiane, la barese Laterza e la torinese Einaudi. Significativo è anche l’accenno alla funzione dell’intellettuale meridionale, che non fugge più dal Sud ma «è deciso a restarci per svolgere, con mentalità “nazionale” un’opera che tragga dal proprio paese i motivi ispiratori, il fondamento concreto»[39].
Un riconoscimento va infine ai numerosi fermenti «molto seri e nuovi» che caratterizzano Lecce in campo culturale, e tra questi Calvino, come già Antonicelli, cita «L’esperienza poetica», la rivista letteraria fondata e diretta da Bodini, al quale, una volta ritornato a Torino, scrive una bella lettera di ringraziamento.[40] Una qualche riserva invece è possibile cogliere nella definizione calviniana del barocco leccese («gli sfrenati attorcigliamenti del barocco») che richiama quella dei viaggiatori stranieri della fine dell’Ottocento e contrasta invece con l’apprezzamento incondizionato del suo sempre entusiasta compagno di viaggio.
Note
[1] Sulla figura di Antonicelli cfr. Per Franco Antonicelli. Saggi e testimonianze raccolti da F. Contorbia e L. Greco, Introduzione di G. M. Bravo, Edizioni della Fondazione Franco Antonicelli, Livorno 1988. E si veda pure la Bibliografia degli scriti di Franco Antonicelli, a cura di G. Barbarisi e P. Pellegrini, Presentazione di N. Bobbio, Olschki, Firenze 1990.
[2] Cfr. la Cronologia, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, in I. Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, Mondadori, Milano 1991, vol. I, pp. LXI-LXXXVI.
[3] In F. Antonicelli, Finibusterre, con uno scritto di I. Calvino, a cura di A.L. Giannone, Besa, Nardò 1999.
[4] Con il sottotitolo Racconto fu pubblicato in «Lo Smeraldo. Rivista letteraria e di cultura», a. X, n. 2, 30 marzo 1956, pp. 3-13.
[5] F. Antonicelli, Finibusterre, cit., p. 27..
[6] Ivi, p. 28.
[7] Ivi, p. 29.
[8] Ibid.
[9] Ivi, p. 32.
[10] Ivi, p. 36.
[11] Ivi, p. 40.
[12] Ivi, p. 41.
[13] Ivi, p. 40.
[14] Cfr. V. Bodini, Barocco del Sud, in «Letteratura / Arte Contemporanea», a. I, n. 6, novembre-dicembre 1950, pp.52-54, poi con il titolo Psicologia del barocco leccese, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 2 marzo 1951; ora in Id., Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di A.L. Giannone, Besa, Nardò 2003, pp. 79-83.
[15] Cfr. Id., Il paradiso di cartapesta, in «Omnibus», a. V, n. 16, 24 settembre 1950, pp. 11-12, ora in Barocco del Sud, cit., pp 75-78
[16] F. Antonicelli, Finibusterre, cit., p. 41.
[17] Ivi, p. 43.
[18] V. Bodini., Tutte le poesie, a cura di O. Macrì, Lecce, Besa, 1997 (I ed., Milano, Mondadori, 1983), p. 92.
[19] Ivi, p. 80.
[20] F. Antonicelli, Finibusterre, cit., p. 56.
[21] Ivi, p. 54.
[22] Ivi, p. 45.
[23] Ibid.
[24] Ivi, p. 54.
[25] Ivi, p. 81.
[26] Ivi, p. 51.
[27] Ivi, p. 52.
[28] Ivi, p. 55.
[29] Ivi, p. 56.
[30] Ivi, p. 60.
[31] Ivi, p. 62.
[32] Questo scritto apparve nel “Notiziario Einaudi”, a III, n. 7, luglio 1954, pp. 5-6 e non è compreso nella recente raccolta di I.Calvino, Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995. Sui viaggi di Calvino in giro per l’Italia per le “settimane” einaudiane cfr. la testimonianza raccolta da F. Mora, Calvino in Topolino, Viterbo, Stampa Alternativa, 1993.
[33] Alla “settimana Einaudi e al viaggio in Puglia Calvino accenna anche in un discorso commemorativo di Antonicelli, apparso, con il titolo Amico e maestro, in “L’Indice dei libri del mese”, a. VI, n. 4, aprile 1989, p. 29, dove, a causa di un errore di trascrizione, il nome di Vittorio Bodini è diventato inopinatamente “Vittorio Godini”. Lo stesso errore, purtroppo, si ripete anche in I. Calvino, Saggi, cit., dove quello scritto è stato pubblicato il il titolo Ricordo di Franco Antonicelli, vol. II, pp. 2818-2822.
[34] I. Calvino, La “Settimana” a Bari e a Lecce, in F. Antonicelli, Finibusterre, cit., p. 67.
[35] Ivi, p. 68.
[36] Ivi, p. 72.
[37] Ivi, p.73.
[38] Ivi, p. 72.
[39] Ivi, p. 74.
[40] Nella lettera, datata 12 luglio 1954, Calvino ringrazia Bodini “come einaudiano, per l’aiuto prezioso che hai dato alla riuscita della “Settimana” a Lecce; e come amico, per la non meno preziosa opera di cicerone e per la compagnia nel nostro viaggio”. E poi continua: “Se ripenso alla sera di Leuca mi riprende una irrefrenabile allegria. Anche Antonicelli è ancora tutto entusiasta, e dice che scriverà un pezzo: Finibus Terrae, per “Paragone”, come le due bionde del nord e tutto il resto…”. In una cartolina, spedita da Torino in data 29 novembre 1954, Calvino manda invece a Bodini un messaggio allusivo in stile telegrafico, scrivendo soltanto: “Armamengia!”, vale a dire il nome di una delle due donne svizzere, conosciute in Puglia, che compaiono nel racconto di Antonicelli. Le due missive fanno parte dell’Archivio Vittorio Bodini, che attualmente è conservato presso la Biblioteca Interfacoltà dell’Università del Salento.