di Guglielmo Forges Davanzati
Il problema delle diseguaglianze è oggi al primo posto nell’agenda della ricerca nell’ambito delle scienze sociali ed è al primo posto al centro dell’agenda politica. Ciò a ragione del loro incredibile aumento nel corso degli ultimi decenni e degli effetti di segno negativo che le diseguaglianze producono su crescita economica e coesione sociale. Si tratta di un fenomeno globale, dal quale l’Italia non è affatto esente né lo è il Mezzogiorno. L’evidenza empirica mostra che, a fronte dell’aumento esponenziale delle diseguaglianze distributive (del calo dei salari e dell’aumento dei profitti e delle rendite finanziarie), le diseguaglianze attengono anche ai crescenti divari regionali e, all’interno di questi, all’interno di singole macro-aree.
La crescita delle diseguaglianze è associata a minore mobilità sociale, ovvero alla riduzione della possibilità che un individuo proveniente da una famiglia con basso reddito possa guadagnare (in termini monetari e di status) più dei suoi genitori. Ciò accade a ragione del fatto che le diseguaglianze si trasmettono fra generazioni, prevalentemente attraverso i lasciti ereditari e il trasferimento di proprietà mobiliari e immobiliari. Va chiarito, a riguardo, che, quantomeno nel caso italiano, il fattore che maggiormente conta nella trasmissione intergenerazionale delle diseguaglianze attiene alle reti relazionali: ci si riferisce ai network di conoscenze che la famiglia di origine può utilizzare per garantire ai figli un miglior posizionamento nel mercato del lavoro, anche in modo del tutto lecito.
La mobilità sociale è (e lo è sempre stata) uno dei principali motori della crescita economica e, al tempo stesso, la mobilità sociale è sempre stata più elevata nei periodi di crescita economica. In sostanza, un’economia caratterizzata da un’elevata immobilità sociale (come è, ad oggi, insieme a UK e USA, l’Italia) è un’economia che si configura sempre più come basata su un assetto sociale pre-moderno, nel quale un club ristretto di famiglie orienta le politiche economiche e riproduce la propria condizione di privilegio attraverso la trasmissione intergenerazionale del proprio patrimonio. L’ISTAT certifica che, per la prima volta nella Storia italiana dagli inizi del Novecento, gli individui di età compresa fra i 25 e i 40 anni non riusciranno a migliorare la loro posizione rispetto a quella dei loro genitori, nonostante il fatto che si tratti della generazione in assoluto più istruita nella Storia d’Italia.
La visione dominante fa propria la convinzione che il blocco della mobilità sociale deriva dalla scarsa propensione, nel nostro Paese, ad allocare la forza-lavoro secondo criteri meritocratici. Si tratta di una tesi discutibile dal momento che non tiene conto del fatto che il criterio del merito, almeno nel caso italiano, non è mai stato un criterio diffusamente adottato, che semmai l’aumento delle diseguaglianze oggi si registra proprio in una fase nella quale le politiche messe in atto (soprattutto le ‘riforme’ del mercato del lavoro) sono esattamente finalizzate a promuovere il merito, e, infine, che la mobilità sociale è stata molto intensa in periodi nei quali il tasso di crescita è stato elevato, del tutto indipendentemente dall’adozione (o meno) di criteri di selezione basati sul merito. Vi è poi da considerare che il merito è una variabile multidimensionale, la cui misurazione è sostanzialmente impossibile, e vi è soprattutto da considerare che – come l’evidenza empirica mostra – non è nei Paesi più ‘meritocratici’ che è maggiore la crescita economica e minori sono le diseguaglianze, bensì nei Paesi nei quali è più alta la spesa sociale per servizi di welfare (istruzione, sanità, sussidi di disoccupazione). Si può considerare, a riguardo, che – su fonte OCSE – a fronte del fatto che la gran parte dei Paesi scandinavi ha una spesa sociale in rapporto al Pil intorno al 30% con diseguaglianze estremamente ridotte, gli Stati Uniti, con una spesa sociale inferiore al 20%, fanno registrare il massimo grado di diseguaglianze all’interno dei Paesi OCSE.
In questo scenario, non sorprende il fatto che il Mezzogiorno sia precipitato in una crisi dalla quale è difficile individuare una via di uscita in tempi ragionevolmente brevi. Infatti, oltre ad avere scontato almeno un decennio di riduzione relativa del suo tasso di crescita rispetto al Centro-Nord (anche per effetto delle politiche di austerità, peraltro messe in atto con maggiore incisività proprio nell’area più debole del Paese), il Sud vede la sua condizione peggiorare ulteriormente proprio a ragione della crescita delle diseguaglianze. Che sono anche diseguaglianze interne ai singoli Stati. A ciò si aggiunge il dato rilevante per il quale la riduzione del tasso di crescita al Sud contribuisce ad accentuare ulteriormente anche le diseguaglianze distributive nel Sud stesso, fra gruppi sociali. Ci si riferisce, in particolare, all’aumento delle rendite (soprattutto fondiarie e immobiliari) e alla compressione dei salari. La stratificazione sociale che il Sud ha assunto in questi anni, e che sta sempre più accentuando (rispetto ai periodi di maggiore convergenza con il Centro-Nord: periodi che coincidono con le fasi di industrializzazione dell’area), configura una netta polarizzazione fra rendite – in aumento – e salari – in diminuzione. Poiché le diseguaglianze costituiscono un potente fattore di freno alla crescita, ciò che sarebbe auspicabile per la ripresa di un sentiero di crescita è ridurle attraverso lo spostamento dell’onere fiscale dai redditi più bassi ai redditi e patrimoni più alti. Si tratterebbe di misure non solo efficaci per la crescita economica e dell’occupazione, ma anche rispondenti a un ragionevole criterio di giustizia sociale.