di Gianluca Virgilio
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Natalia Ginzburg – Ingmar Bergman
In questo scritto datato 5 dicembre 1971 Natalia Ginzburg (Palermo, 1916) racconta il primo incontro col regista svedese Ingmar Bergman avvenuto qualche giorno prima a Palermo. Ne deriva una riflessione generale sul senso dell’incontro con un “grande”, di cui a lungo si è amata l’opera, desiderando di conoscerne l’autore; ma alla fine questa conoscenza diviene di scarsa importanza, se non addirittura evitabile per gli equivoci o la delusione che potrebbero derivarne. E tuttavia, quale contentezza dopo la stretta di mano col regista svedese, e quale ricordo gentile da conservare nella memoria! L’incontro rientra nella tipologia dell’incontro-convegno.
Rosea cicogna
Quelli che odiano Bergman dicono che dev’essere un uomo odioso. Dicono che ha avuto otto mogli e non so quanti figli. Dicono che ha le orecchie aguzze e un viso odioso. Dicono che dev’essere dispotico e pieno di un’infernale superbia. Quelli che lo amano pensano che è possibile che sia odioso come uomo perché nel nostro tempo assai spesso i grandi sono odiosi. Quelli che lo amano, accettano il fatto che egli possa essere magari odioso come una condanna che pesa sui grandi del nostro tempo.
Anni fa, quando ho scoperto Bergman, avrei dato non so cosa per poterlo incontrare. Desideravo dirgli quanta gratitudine provavo per i suoi film. Adesso, una settimana fa, a Palermo, in occasione di un premio, l’ho visto. Non mi è sembrato odioso. Ha una faccia ovoidale e rosea, la sua figura è quella di una grande cicogna timida. Si scopre a un certo momento della vita che tutti o quasi tutti sono timidi. Inoltre si scopre che le cose accadono sempre quando si è cessato di desiderarle. A me ora non importava più niente di conoscere Bergman perché da un pezzo non mi importa più di conoscerele persone che hanno fatto o scritto le cose che amo. Non me ne importa, perché ho capito che è difficilissimo parlare con i grandi e in generale parlare. Tuttavia sono contenta di aver conosciuto Bergman, di avergli dato la mano, di avergli detto in francese come amavo i suoi film. Sono contenta di poterlo ricordare, grande, rosea e timida cicogna, sulle scale del teatro dove gli è stato consegnato un premio di teatro, sono contenta di poterlo pensare non odioso ma invece pacato e gentile, sono contenta di poter coltivare la sua testa ovoidale negli orti della mia memoria.
Natalia Ginzburg, Vita immaginaria, in Opere II, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1987, pp. 531-532.
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Romano Bilenchi – Rafael Lasso de la Vega Marqués de Villanova
Nel racconto di Romano Bilenchi, uno strano signore spagnolo, l’antifranchista esule Rafael Lasso de la Vega Marqués de Villanova si presenta ad un divertito gruppo di amici (Bilenchi, Delfini, Rosai, ecc). Gli amici in vena di goliardia si scambiano cenni d’intesa, credendo di potersi divertire alle sue spalle, ma poi devono ricredersi: il marchese, malgrado le sue affermazioni azzardate, è un vero poeta e merita (non sempre, per la verità!) d’essere preso sul serio. Siamo a Firenze, una sera di giugno poco prima della seconda guerra mondiale, al caffè delle Giubbe rosse. Lo scritto è datato 1972.
Goethe està un imbèsile
Lo conobbi un po’ avanti la guerra, una sera di giugno al caffè delle Giubbe Rosse. Era seduto con i primi arrivati e parlava tranquillo tenendo il corpo un po’ inclinato, come se fosse stato lì da sempre. Appena io e Franco ci avvicinammo, si alzò e, con un bell’inchino signorile e pieno di grazia naturale, si presentò: Rafael Lasso de la Vega Marqués de Villanova. Portava al dito l’anello col timbro quadrato del blasone di marchese, col quale sigillava la ceralacca sulle lettere più importanti. Aveva la testa completamente calva, e il volto chiazzati di giallo pallido e di un rosa acceso. Sembrava fosse rimasto gravemente ustionato in qualche incidente. Ma aveva gli occhi vellutati, giovani come quelli di un bambino, che dall’ironia passavano al sarcasmo, dall’allegria alla tristezza: gli stessi occhi che in seguito ho notato in Picasso e in molti spagnoli. A osservarlo attentamente, se non fosse stato per quello sguardo sensibile e brillante, avrebbe destato ribrezzo. Lo soprannominammo “Il re peste”.
Appena ci fummo seduti ci chiese: “Scribére anche lei”. “Un po’, ogni tanto”, rispondemmo, “ma senza molto impegno”. “Che cosa scribére?, insistette il marchese. “Racconti” gli dissi. Egli scosse la testa e con una smorfia di dissenso e di compatimento mi chiese: “Libri gruessi, grandi tomi?”. “Almeno per ora no”, gli risposi. “Bene”, disse il marchese, “Tolstoi, Dostoevshij, Goethe scribére troppo. S’è impossibile. Sono imbèsili. Goethe està un imbésile”.
Sul tardi arrivarono anche gli altri amici e a tutti si presentò con il solito inchino e con il suo lungo nome: Rafael Lasso de la Vega Marquéz de Villanova. Rosai, quando giunse, rimase un po’ fermo dinanzi al tavolino, scrutò quell’uomo strano e sconosciuto e poi guardò noi con aria interrogativa, sorpresa e ironica come se gli avessimo preparato uno scherzo. Ma il marchese sembrava non accorgersi delle nostre occhiate sfottenti, delle nostre risatine. Sedeva imperterrito e bonario, con le gambe accavallate e il busto piegato leggermente a sinistra. Indossava un paio di pantaloni di lana di uno strano colore, fra il rosa e il nocciola.
Alle otto venne a prenderlo sua moglie per andare a cena. Era una francese, una alsaziana, dall’aspetto signorile e autoritario. Era una musicista e in seguito sapemmo che componeva ma che nessuno aveva mai accettato di eseguire le sue musiche. Il marchese non doveva ormai possedere più nulla: i suoi abiti erano frusti e vecchi, la sua camicia lisa sul petto e sfilacciata ai polsi. Dal tono con il quale sua moglie gli parlava e dal suo modo di comportarsi si comprendeva bene che il marchese la temeva e che doveva dipendere da lei. Infatti, come sapemmo poi, essa possedeva molte azioni di una fiorente industria francese.
Quando il marchese se ne fu andato Rosai disse: “Ma chi è quel tipo, sembra abbia avuto la peste. Chi l’ha portato? Chi cerca?”. Delfini, che ridacchiava divertito, disse: “Oh sor Ottone, questo è proprio sciolto. Ha sentito il nostro odore ed è finito qui fra noi”. Per qualche giorno, Delfini, Franco, io e gli altri, continuammo a chiamarlo “Il re peste” oppure “Fesso de la Vega”, ma poi ci piacque ogni pomeriggio di più, ci facemmo amicizia e finimmo con il volergli bene.
In effetti era un poeta; […]
Non ho mai saputo né ho voluto sapere né allora né mai, come il marchese fosse arrivato alle Giubbe Rosse. Entrò con tanta naturalezza nel nostro gruppo che nessuno pensò più al primo giorno nel quale lo avevamo conosciuto: era piovuto dal cielo per aiutarci a trascorrere il tempo con un po’ di allegria.
Romano Bilenchi, Marqués de Villanova (Il marchese), in “L’albero”, fasc. XVII- N. 48 – 1972 (n.s.), pp. 150-151, poi in Opere, Rizzoli, Milano 1997, pp. 714-715.
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Gianfranco Contini – Giuseppe Ungaretti
In uno dei famosi epicedi scritti da Gianfranco Contini (Domodossola, Novara 1912-1990), quello di Giuseppe Ungaretti, morto il 2 giugno 1970, leggiamo il racconto di ben tre incontri: uno di Contini con Ungaretti, l’altro di Ungaretti con la scrittrice e poetessa Amalia Guglielminetti (Torino 1881-1941), e infine, en passant, l’incontro con Confucio Cotti; in tutti e tre i casi il critico di Domodossola riafferma la “responsabilità morale della memoria”, secondo l’insegnamento ungarettiano; inoltre, teorizza il significato profondo del racconto del primo incontro con la formula (cfr. l’Introduzione a questa raccolta) del nascere-a-lui. Si noti poi quanta indifferenza ostenti Ungaretti dinanzi alla poetessa amica di Guido Gozzano, Amalia Guglielminetti, e come ella il giorno dopo gli appaia trasfigurata in creatura mitologica: stranezze di poeta, si dirà. Siamo a Torino tra il 1933 e il 1934. La tipologia è quella dell’incontro-convegno. L’epicedio di Ungaretti fu pubblicato per la prima volta due anni dopo la morte del poeta, ne “L’Approdo letterario” del 1972.
Durante e dopo il delirio
Rimasto solo con se stesso e con il suo ricordo, l’amico ricostruisce la nascita-a-lui di Ungaretti, come Ungaretti entrò nella sua vita; la solitudine legittima e anzi impone il pronome ‘io’. Forse sottolinea, ma non enfatizza, certo attributo ctonio di Giuseppe Ungaretti il fatto che io l’abbia incontrato per la prima volta in un delirio. Era il 1933, e non restavano molti anni perché una polmonite, prima di Fleming, elargisse qualche giorno di febbre allucinatoria: nell’accesso ricevetti la visita di Giuseppe Ungaretti, né me ne avanza altro. Fu del resto, se non un sogno, una visione premonitrice, perché di lì a poco Ungaretti mi scriveva una delle sue letterine in inchiostro verde per lodare, e me ne scuso, certe traduzioni da Holderlin allora uscite nell'”Italia Letteraria” (“molto belle”, posto l’uomo, non era una captatio benevolentiae, ma riconosceva che lo stile ne era, com’era, ungarettiano); e per preannunciarmi l’invio di Sentimento del tempo: “vedrà che è il libro più bello di poesia uscito, non dico in Italia, ma nel mondo, in questi ultimi anni”. Credo di rammentare esattamente le parole, anche se il documento è rimasto travolto in un’emergenza che m’investì; e sono attestato di una fiducia commovente (oltre che ben posta) di cui mi trovo a essere solo testimone. Ciò mi ricorda le parole, pungenti a ogni coscienza, per il contubernale africano naufragato a Parigi: “E forse io solo | so ancora | che visse”. Le cito perché non conosco sentenza più lapidaria sulla responsabilità morale della memoria.
Conobbi di persona Ungaretti solo nel 1934, e significativamente non nella sua “sede”, se si può dire che avesse una sede, ma in una tappa precaria del suo peregrinare, a Torino. La memoria si è sbarazzata dell’inessenziale, cioè del pretesto per la visita (forse un discorso, di quelli non da ascoltare ma da leggere, su Leopardi, tenuto salvo errore a l’Ymca), e ha trattenuto l’essenziale, cioè che Ungaretti non si fermava a Torino, sosta ai suoi viaggi in Francia, dal 1914, quando era rimpatriato per la guerra. Conobbi allora un suo compagno di quella preistoria, lo squisito filosofo di stampo vociano Confucio Cotti, intrinseco anche del gruppo milanese Rèbora-Banfi-Monteverdi, oggi nemmeno un nome per il pubblico (“E forse io solo…”); e assistetti a un evento degno di un dagherrotipo: l’incontro, su un piccolo sofà liberty, tra Ungaretti e una silhouette del più accusato liberty, pallida di cipria e longilinea come un levriero, la poetessa amica di Guido Gozzano, Amalia Guglielminetti. L’aneddotica può estendersi fino ad includere un saggio della più caratterizzata fumisterie di Ungaretti. Durante la conferenza, al cenno della ricerca d’un bicchier d’acqua, una giovane gentile s’era precipitata con una rorida caraffa. Dopo la lettura ci sforzammo invano di presentare all’ospite la benemerita: i nostri tentativi scivolavano sulla sua distrazione senza scalfirla. Passata la notte, l’evento apparve registrato, per di più in forma mitologica: “Ieri sera”, diceva Ungaretti, “mentre parlavo, una ragazza ha sentito la mia sete… una ragazza vestita di verde… è venuta a portarmi una bottiglia d’acqua”.
Gianfranco Contini, Ungaretti in una memoria, in Ultini esercizi ed elzeviri, Einaudi, Torino 1988, pp. 343-344, già ne “L’Approdo Letterario”, fasc. 57 – marzo 1972, pp. 78-81.
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Mario Rigoni Stern – Elio Vittorini
Mario Rigoni Stern (Asiago, Vicenza 1921) rievoca nel 1973 le vicende che lo portarono a conoscere Elio Vittorini, scrittore già affermato e consulente editoriale della casa editrice Einaudi; ed è anche la storia della scoperta da parte di Vittorini di uno scrittore (Rigoni-Stern) e della pubblicazione della sua prima opera (Sergente nella neve). Siamo a Milano nell’inverno del 1952. L’incontro rientra nella tipologia della visita. La testimonianza di Rigoni Stern fu pubblicata dalla rivista “Il Ponte”, numero doppio 7-8 del luglio-agosto 1973, interamente dedicato a Elio Vittorini.
Il soldato Sveik
In quel periodo [nel secondo dopoguerra] venne da Milano lo scultore Paganin, anche lui aveva fatto la fame, ed era ammalato. Ci incontrammo, e mi parlava del gruppo di “Corrente”, del “Politecnico”, e, di conseguenza, di narrativa, poesia, politica, arte figurativa, cinema, teatro. La mia ignoranza era immensa e mi sforzavo di cercare nella vita di questo Sveik in congedo che ero, quanto, della mia esperienza, poteva essere vivo e utile anche per gli altri. Per quasi un mese Paganin fu costretto a letto e nei pomeriggi andavo a trovarlo; gli raccontavo di boschi, di legna, di recuperanti; di quello che era fuori la vita del paese. E di guerra anche: Russia, Albania, campi di concentramento tedeschi. Fu così che lessi a lui, per la prima volta, quanto avevo scritto sulle mie vicende. Alla fine mi disse che quando sarebbe ritornato a Milano avrebbe portato a Vittorini quei fogli. Che li scrivessi a macchina. Restai senza parole e confuso, e dopo mi veniva da pensare: “Come potrà Vittorini trovare il tempo e l’interesse per leggere queste cose?”
Eravamo, forse, nel 1948 e nel 1951 Vittorini scrisse a Paganin per sapere se la casa editrice mi aveva scritto per quel libro di ricordi sulla campagna di Russia. Nel testo, diceva, c’erano anche dei difetti e consigliava come si dovesse rivederlo.
Ripresi il manoscritto, comperai un vocabolario e una grammatica e riscrisi tutto dalla prima parola; ma con più fatica della prima volta. Intanto ero diventato avventizio di 3a categoria al catasto e dalle 13 alle 14, per due mesi, ricopiai a macchina due pagine al giorno.
Passarono altri mesi, non pensai più a quel mio lavoro di scrivere e, nei giorni liberi, andavo dai contadini per la fienagione o nei boschi a far legna per l’inverno. Leggevo poco, facevo esercizi di bella calligrafia: ero diventato lo Sveik impiegato al catasto. Fino al giorno che Vittorini mi scrisse di andare da lui, a Milano. Era sul finire dell’inverno 1952, abitava al n. 42 di via Canova e vi arrivai a piedi dalla stazione chiedendo ogni tanto la strada ai venditori di marroni. Feci le scale di quella casa come la prima volta che scalai la Grivola: con timore ed entusiasmo.
Era nel suo studio, mi venne incontro tendendomi la mano e mi fece sedere in una poltrona. Le prime parole che fece fu per scusarsi del caldo dei radiatori, ma né lui né io sapevamo trovare le parole per incominciare. Con un cenno mi chiamò a sedere accosto al tavolo: aveva davanti il dattiloscritto del Sergente e incominciò a leggere: “Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato…”. Ogni tanto faceva un segno, metteva una virgola, mi chiedeva perché avessi usato quell’aggettivo o quel verbo, o perché cambiavo così spesso i tempi, il significato di una parola dialettale, che poi scoprivo avere nella lingua altro concetto di quello che intendevo. Continuammo così forse per un paio d’ore; ogni qual tratto accendeva una sigaretta macedonia: le mie erano troppo forti. Quando arrivammo al punto dove incontro i soldati russi nell’isba, stette silenzioso per lungo tratto. All’ultima pagina guardammo fuori dalla finestra e ci accorgemmo che una neve leggera scendeva tra gli spazi delle case. Mi sembrava d’essere ancora in Russia, finché disse: “Nel vostro paese accendete ancora la legna nelle stufe…”.
Il libro uscì nei Gettoni
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Mario Rigoni Stern, Non andammo in Canada, in “Il Ponte, anno XXIX, nn. 7-8, 31 luglio-31 agosto 1973, pp. 1081-1083.
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Carlo Levi – Natalino Sapegno – Piero Gobetti
Trascrivo di seguito una parte dell’intervista rilasciata da Carlo Levi (Torino 1902 – Roma 1975) e Natalino Sapegno (Aosta 1901 – Roma 1990) a Carla Gobetti, Paolo Gobetti e Giuseppe Risso, realizzata a Roma, nella casa studio di Carlo Levi a Villa Ruffo il 13 e 14 giugno 1973, nella quale gli intervistati raccontano il loro primo incontro con Piero Gobetti (Torino 1901 – Parigi 1926). Considero come un unico racconto le due testimonianze (anche se due sono i narratori), poiché esse, rispondendo ad una medesima richiesta degli intervistatori, sono insieme finalizzate a restituire ambienti e circostanze dell’anno 1918 e a ritrarre Piero Gobetti. Di Levi riporto in nota anche la prima versione della testimonianza, risalente al 1956. In entrambe le versioni, a distanza di molti anni, emerge lo stato d’animo di chi, dopo molto fantasticare, rinviene in un coetaneo (Levi è di un anno più giovane di Gobetti) un maestro ed un amico, il direttore di “Energie Nove”. Segue la testimonianza di Natalino Sapegno. Il futuro storico della letteratura italiana alla fine d’una prova d’esame riconosce in una traduzione dal greco portata a termine in un quarto d’ora il segno distintivo che decise della loro amicizia. Gli incontri rientrano nelle tipologie della visita (Levi) e dell’incontro scolastico (Sapegno).
Un giovane straordinario
PAOLO GOBETTI: “Intanto per cominciare, vorrei chiedere il ricordo del primo incontro con Piero”.
CARLO LEVI: “Ci sono moltissime persone, moltissimi amici, di cui non ricordo il primo incontro, ma di Piero Gobetti, invece, lo ricordo con precisione, intanto perché è stato l’inizio di un’amicizia per me fondamentale, che ha contato più di ogni altra nella mia vita, e anche perché è stato dovuto ad una mia iniziativa, che non ho mai ripetuto in nessun altro caso: eravamo nell’autunno del ’18 e avevo visto il primo numero di “Energie nove”, che mi aveva entusiasmato al punto di farmi prendere la penna in mano e scrivere al direttore – che non conoscevo – di questa rivista dicendogli tutta la mia ammirazione e chiedendogli un incontro. Al che il signor Piero Gobetti mi rispose immediatamente, dandomi un appuntamento in casa sua in via XX settembre, 60, al III piano. E io, col cuore che mi batteva perché non sapevo chi fosse questo Piero Gobetti – credevo che fosse un personaggio importante, e vecchio, rotto alla vita, e pieno di esperienze – andai e salii con molta trepidazione e timidezza i tre piani di scale che portavano alla casa Gobetti, suonai il campanello: vidi un ragazzo come me, alto, con capelli ricciuti sulla fronte, con gli occhi vivaci, e pieni di un’energia straordinaria, e gli chiesi: “Sta qui il signor Gobetti?” – “ma sono io”. Così conobbi Piero Gobetti. Quella scala l’ho poi rifatta infinite volte in vita mia, ma non mi è mai mancato il ricordo di quel primo incontro, e anche la sorpresa: di trovare un qualcuno che aveva un anno più di me, che era un ragazzo, ma che aveva una tale forza interna, una tale luminosità intellettuale, capacità di comunicazione… era il massimo di energia vitale che abbia incontrato in vita mia. Questo è stato il mio primo incontro con Piero”.[1]
NATALINO SAPEGNO: “Il mio è stato più strano, forse più curioso, perché c’incontrammo in occasione dei concorsi che si facevano per le borse di studio per i Collegi delle province a cui tutti e due partecipavamo. Il concorso consisteva di tre esami scritti: uno di italiano, un componimento latino e una traduzione dal greco. Fu proprio in occasione della traduzione dal greco: noi, dopo un quarto d’ora, uscimmo, avendo tradotto questo brano dal greco senza guardare una parola sul vocabolario -allora il greco si studiava ancora nelle scuole- e c’incontrammo, così, per la scala, ci presentammo e facemmo conoscenza, e subito… ebbi l’impressione di questo straordinario giovane, così fervido, così ricco d’interessi, così pronto a entrare immediatamente in relazione con gli altri, a cercare il rapporto con le altre persone. Poi ci conoscemmo anche attraverso le letture di “Energie nove”, la collaborazione alla rivista“.
Gli anni di “Energie Nove”, Intervista di Carlo Levi e Natalino Sapegno, a cura di Carla e Paolo Gobetti e Giuseppe Risso, in “Mezzosecolo”. Materiali di ricerca storica, pubblicati dal Centro studi Piero Gobetti, Editore Guanda, Torino 1975, pp. 465-466.
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Claudio Marabini – Eugenio Montale
Il critico letterario Claudio Marabini, previo appuntamento telefonico, si reca in visita a casa di Eugenio Montale per incontrare il celebre poeta. Appena entrato, attraverso lo spiraglio d’una porta lasciata semiaperta, involontariamente ha modo di vedere ciò che la squisita cortesia di Montale volentieri gli avrebbe tenuto nascosto: un uomo che, turbato nella sua pace domestica, cerca la fuga come un animale braccato, e prende tempo prima di presentarsi “in pubblico” con la maschera dell'”arguto signore” e “colto borghese”. Siamo a Milano nel 1969. Lo studio critico di Marabini è del 1973.
Animale in fuga, ovvero le pantofole del poeta
La prima volta che l’incontrai [Montale], vi ricavai un’immagine che vi s’inquadrò singolarmente e non la posso dimenticare.
Fu a casa di Montale e fu l’immagine di un momento. M’ero annunciato con una telefonata, a cui aveva risposto lo stesso Montale con signorile familiarità. Arrivai puntuale, uscendo dall’ascensore dopo aver seguito alla lettera le istruzioni ricevute. Suonai e mi aprì una donna. Mi trovai in un corridoio poco illuminato che sulla destra metteva in un vano pieno di luce, forse un soggiorno, attraverso una porta socchiusa. Dallo spiraglio, abbastanza aperto in verità, vidi scivolare via Montale, come uno che fugge. Restai un momento col cuore sospeso e d’istinto cercai di guadagnare tempo. La donna si apprestava ad annunciarmi. Dentro di me cercavo di smaltire una curiosa sensazione, come se avessi assistito alla fuga di un vecchio e grosso animale che, sorpreso nella sua tana, cerca il ripostiglio più sicuro o forse la fuga. Avevo notato la testa bianca, il grosso corpo fasciato in una giacca di lana dal colore spento, le pantofole molli e silenziosissime.
La donna mi precedette e spalancò. M’apparve un vestibolo pulito ma disadorno, illuminato da una ampia finestra. Pochi passi a sinistra, un varco, e Montale mi attendeva seduto in una poltrona. Mi attendeva come se non si fosse mai mosso di lì, sorridente, cordiale e subito ciarliero. A me durava quella sensazione e adesso mi pareva che l’animale avesse trovato il suo angolo e lì potesse non solo attendere ma anche combattere senza paura. Perché assieme a quella era nata un’altra sensazione: dell’assedio e della prigione, della battaglia che non è mai cessata.
Ricordo che faticai a tirar fuori le domande per le quali ero lì. Si conversò a lungo tra letteratura e ricordi, bevendo un buon caffè e talora anche ridendo. Capivo benissimo tutti coloro che avevano descritto Montale come un arguto signore, un colto borghese, forse uno degli ultimi esemplari di una fauna antica e in via di estinzione. Ma non potevo cavarmi da dentro, né potrò mai, l’immagine del grosso animale in fuga verso il proprio angolo mentre l’estraneo, il nemico forse, ha già messo un piede dentro la soglia.
Claudio Marabini, La chiave e il cerchio. Ritratti di scrittori contemporanei, Rusconi Editore, Milano 1973, pp. 19-20.
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Claudio Marabini – Mario Tobino
Claudio Marabini sul finire degli anni Sessanta va a trovare lo scrittore Mario Tobino (Viareggio, 1910 – Agrigento 1991) nell’ospedale psichiatrico di Lucca di cui è direttore, e si trova immerso in un’atmosfera allucinata che lo confonde e lo turba. Lo soccorre il grande senso di umanità di Tobino e l’aria di libertà che promana dalla sua persona in cui il critico rinviene la chiave d’accesso al mondo artistico dello scrittore viareggino[2]. La tipologia dell’incontro è la visita. Lo studio critico è del 1973.
Tra i matti
Fu a Lucca, al manicomio. M’ero annunciato dalla portineria, al principio del viale che sale a “esse”. Di passaggio da quelle parti avevo deciso improvvisamente di fermarmi un momento, spinto dalla curiosità di quella verifica e vincendo una forte ritrosia per il luogo di pena. Salivo con la macchina lentamente incontrando uomini spicciolati e a gruppi, vestiti, mi pare, con camicie e casacche grigie (era estate). Mi chiedevo se erano malati, matti mi dicevo, o inservienti. Li scrutavo e solo in alcuni trovavo qualcosa di diverso, come una fissità, un’assenza, una luce distorta e puntuta. Girai la curva a gomito, ebbi a sinistra il muro dell’edificio che da quell’angolo domina imponente come una fortezza o come un monastero. E fui sul piazzale. Appena il tempo di parcheggiare, e Tobino usciva dalla porta ad arco e scendeva verso di me.
Nel gesto aperto, nel generoso saluto verso l’ospite sconosciuto, nello sguardo sorridente, sentii quell’aria di libertà[3], come se gli alitasse intorno. E ricordo che mi venne in mente una sua immagine: dei nostri sogni che escono dal capo e ronzano intorno come uno sciame. Quell’aria gli stava intorno allo stesso modo.
Poche parole, una stretta di mano e fui dentro. Preso dalla novità dell’ambiente, ricordo che restai confuso. Tobino mi precedeva attraverso un chiostro: mise sportiva, calzoni leggeri, camicia a quadrettini aperta sul petto, il passo che non capivo se molto elastico o leggermente claudicante. Mi guardavo intorno, chiedendomi se le facce che spuntavano qua e là, quelle persone grigie, erano i matti. Ci fermammo all’inizio di un corridoio bianco e Tobino mi studiò, valutando la mia complessione e informandosi dei miei anni. Lo fece da medico; ma io trovavo conferma di un mito che avevo colto nei suoi libri: il mito della forza fisica, che coincide con un ideale di classicità, con una virile tensione all’eros, alla buona cucina e al buon vino.
Quel giorno non visitai il manicomio. Vidi soltanto le due stanzette dove Tobino vive, in cima a una scala stretta, al primo piano, all’inizio di un corridoio ancora più stretto. Erano piccole e buie. Una spessa tenda scura celava la finestra. Si stette alla luce di una lampada. C’erano libri e giornali per terra e sull’unico divano, quadri, una piccola libreria alla parete e una scrivania vecchia. Nell’altra stanza feci in tempo a intravvedere un cassettone con lo specchio, il letto, un lavandino. Potevano essere le stanze di un monaco. In alto, sulla scaffalatura, c’era il modellino di una barca, una tartana: uno scampolo di Viareggio, un pezzo del vecchio cuore marinaro dello scrittore.
Promisi a Tobino e a me stesso che sarei tornato per visitare il manicomio. Partendo Tobino mi aveva fatto affacciare al chiostro dei malati. Avevo visto donne sotto il portico, vestite di blu, sole o a gruppi di due o tre. A quella più vicina rivolse la parola. La donna si fermò, fece uno strano sorriso, in cui però splendeva la luce inconfondibile della gratitudine, forse dell’amore. Non disse nulla. Restò lì ferma con un impaccio infantile.
Tempo dopo tornai a Maggiano. Posso immaginare Tobino sulla spiaggia di Viareggio, in mezzo alle barche, o anche sul mare; posso immaginarlo, fantastico e autobiografico tenente Marcello, nel deserto libico, carezzato dalla morte; oppure chiuso nelle due stanze, assediato dai ricordi dei Biassoli e della madre (undici poesie sulla madre, del 1952, sono uscite un paio d’anni fa sulla “Rassegna lucchese”). In ciascuna di queste immagini posso ritrovarlo, perché significano un momento della vita. Ma il luogo dove soprattutto sento Tobino, il dottor Anselmo di tante pagine, dove vive la più parte dei suoi giorni e dove quell’aria di libertà diviene umana condizione di vita, penosa conquista, allucinata ed estremistica realizzazione, amore infine, è tra i matti, tra le ombre lente e oscure che avevo intravisto.
Claudio Marabini, Il dono della libertà, in La chiave e il cerchio. Ritratti di scrittori contemporanei, Rusconi Editore, Milano 1973, pp. 84-87.
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Valentino Bompiani – Cesare Zavattini
Valentino Bompiani (Ascoli Piceno 1898 – Milano 1992) e Cesare Zavattini (Luzzara, Reggio Emilia 1902 – Roma 1989) dànno vita ad un simpatico racconto a due voci che costituisce una vera e propria narrazione esemplare. Dapprima l’editore nelle sue memorie dal titolo Via privata (1973) racconta l’incontro nel 1931 con Cesare Zavattini che gli presenta la sua opera prima dal titolo Parliamo tanto di me. Bompiani coglie l’occasione per schizzare un efficace ritratto dello scrittore emiliano; ma quel che importa è lo strano rapporto che s’instaura tra i due: l’editore ingannato dalle movenze scomposte e disordinate di Zavattini, pensa che non valga la pena di affrettarsi a leggere il dattiloscritto; si ricrederà solo dopo aver letto qualche riga dell’opera che aveva abbandonato in un canto. La tipologia dell’incontro è quella della visita.
Segue una testimonianza televisiva di Cesare Zavattini. Qualche anno dopo la pubblicazione delle memorie del Bompiani, Zavattini, seduto comodamente su un divano di giunco in compagnia di un divertito Bompiani, si prende sull’amico la rivincita; ricorda cioè, ma dal suo punto di vista, lo stesso episodio (e lo colloca nel 1930), con un seguito inaspettato, dal forte sapore aneddotico: l’editore, diventato autore, sconta il suo contrappasso.
L’editore e lo scrittore
Cesare Zavattini (1931)
Quando Zavattini venne da me, non lo conoscevo neppure di nome. A vedermelo davanti grosso e timido non mi ispirava fiducia. Si era seduto e taceva, intento a strapparsi con metodo le sopracciglia. Tirò fuori dal taschino o forse dalla manica un rotoletto di ritagli. Li posò sul tavolo e vi accennava col mento come se si trattasse di ciambelle che mi invitava ad assaggiare: era il suo primo libro.
Io mi sentivo offeso. Aspettavo Stendhal e dovevo perdere tempo con le leccornie paesane. Gli proposi di scrivere un racconto per ragazzi. Mi diceva di sì, con la testa un po’ storta e la bocca appuntita. Racimolò i pezzetti di carta e se ne andò.
Dopo quindici giorni tornava con un rotolo di fogli scritti a macchina.
Ogni tanto balbettava. Erano gli stessi pezzi ricopiati, forse non ci aveva aggiunto neppure una parola o aveva tolto qua e là una virgola. Il manoscritto rimase in un angolo dello scrittoio. Un giorno, sfogliandolo, l’occhio mi cadde su di una frase: “Il capo ufficio diceva all’impiegato: “Le proibisco di pensare alla morte nelle ore d’ufficio””. Saltai sulla sedia. Andai avanti a leggere. Chiamai Zavattini e lui tornò. Alla terza parola scomparve un’altra volta con i suoi fogli arrotolati. Ci lavorò un paio di mesi andando a spasso, al varietà, il cappello storto, la sigaretta spenta fra le labbra. “Lavori?” “Sempre.”
Era vero. Zavattini deve essere nato in piazza come un fatto pubblico. Per la strada, ampio e svolazzante, sembra una campana. Mille amici, mille appuntamenti al volo, un’aria di sommossa lo accompagna: la sua popolarità è in quel vento. Quando parla, ti afferra e si curva come se dovesse resistere alla bufera, poi si spalanca come un agitatore. La sua ora è quella che precede il temporale e la natura si fa umana e scoperta.
Valentino Bompiani, Via privata, Mondadori, Milano 1992 [1973], pp. 76-77.
***
Lo scrittore e l’editore
Zavattini: “Quando mi sono presentato a lui, nell’autunno del 1930, con la prima stesura del mio primo libretto (facciamo i modesti, una volta tanto)….”.
Bompiani: “Parliamo tanto di me”
Zavattini: “…allora, sai, guardò questo materiale con calma e disse: “Bene, bene, bene, però ci lavori su ancora un poco”. Io mi sono alzato, l’ho salutato e me ne sono andato. Dopo quindici giorni sono ritornato con l’altra stesura, lui gli ha dato un’occhiata, e ha detto: “Si stampi”.
Adesso faccio un salto e arrivo al 1970, e forse anche prima. Valentino disse: “Senti, ci ho qui un dattiloscritto, una cosa sulla quale ho lavorato tanto, è la mia vita di editore”. Subito ho preso in mano questo dattiloscritto, l’ho guardato, l’ho sfogliato, ho detto: “Bene, bene”. Ho ripetuto proprio le antiche sue parole: “Bene, bene, ma però ci devi lavorare su ancora un poco”. Ti dico che lui se n’è andato, e sai cos’è passato da quella volta prima che lui l’ha pubblicato? Sono passati cinque anni, ci ha lavorato su cinque anni, lui, hai capito?”.
L’aneddoto è raccolto dalle telecamere della RAI alla fine degli anni Settanta ed è stato citato nel corso di un programma televisivo dedicato all’editore sabato 22 maggio 1999 alle ore 22.30, dal titolo Sfogliando una vita. Libri, ricordi e racconti di Valentino Bompiani, condotto da U. Eco (Raidue). La trascrizione è mia.
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Giuseppe Prezzolini – Edmondo De Amicis
Giuseppe Prezzolini (Perugia 1882 – Lugano, Svizzera 1982) ricorda su “Il Resto del Carlino” del 9 gennaio 1974 il suo primo incontro con Edmondo De Amicis avvenuto a Novara addirittura 76 anni prima, nel 1898! De Amicis in visita dal suo vecchio amico, il padre di Prezzolini, allora prefetto di Novara, incontra per strada un ragazzino, Giuseppe Prezzolini, che volentieri fornisce all’uomo le informazioni richieste. Il De Amicis già da tempo si è accostato al socialismo, ed è sorvegliato dalla polizia. Per questo motivo un “incartapecorito, bigotto e timoroso” Provveditore agli Studi finge di non conoscerlo. La tipologia è quella dell’incontro fortuito.
Tornando da scuola
Una mattina di non ricordo quale giorno, tornando da scuola incontrai un signore che mi chiese dove fosse la Prefettura. Era alto, con grandi occhi, baffi bianchi e sopracciglia grosse scure, ben vestito con un colletto svasato, una cravattina nera a farfalla, e un cappotto col bavero di velluto. Mi ricordo anche un bel cappello a cencio, della forma che allora si chiamava “lobbia”. Gli dissi che proprio ci andavo, e lo accompagnai fin là; salimmo insieme per lo scalone e lo consegnai ad un usciere. Era De Amicis che si recava a far visita a mio padre.
Fu invitato a colazione. Confesso che non ricordo affatto che cosa si dissero a tavola. Ai ragazzi importa poco quello che si dicono i vecchi. Probabilmente parlarono degli anni in cui a Firenze s’erano incontrati nel salotto della “signora Emilia”. Ma certamente non parlarono di politica. Mio padre era un “liberale” ma “conservatore”, e De Amicis era diventato “socialista”. A quel tempo questa parola faceva paura a molti. Non credo, però, che De Amicis fosse già stato nominato a Torino deputato per il Partito Socialista nelle elezioni di ballottaggio di quell’anno. Non lo sentii chiamare “onorevole”.
La situazione era un po’ complicata. De Amicis, appunto perché socialista notorio, era sorvegliato dalla polizia. Mio padre dovette invitare il delegato di servizio a sospendere per quel giorno la sorveglianza; e gli disse sorridendo: “Il signor De Amicis sarà sotto la mia sorveglianza; rispondo per lui”.
Mio padre era un liberale, non soltanto in politica, ma anche nella vita; era un uomo di spirito. Dopo colazione volle accompagnare il suo amico alla stazione, senza prender una vettura (allora non c’erano automobili), ed attraversò fieramente con lui e con me tutta la città, fino alla stazione. E poi si trattenne con lui passeggiando sulla banchina aspettando l’arrivo del treno per Torino (dove De Amicis abitava), lo accompagnò al vagone, lo salutò e lo abbracciò; e anche si baciarono, come a quel tempo si usava fare fra amici.
Ma si sorprese che, avendo sullo scalone della Prefettura incontrato il Provveditore agli Studi, mio padre volle presentarlo al De Amicis, allora già celebre per i suoi libri. Quel vecchio funzionario disse di non conoscerlo! Mio padre non si alterò per quella apparente straordinaria ignoranza d’un Provveditore agli Studi. Più tardi mi spiegò che era un incartapecorito personaggio, bigotto e timoroso, ed aveva voluto dimostrare di non partecipare alle idee del De Amicis.
Giuseppe Prezzolini, A colazione con Edmondo De Amicis, in “Il Resto del Carlino”, 9 gennaio 1974, poi in Incontriamo Prezzolini, a cura di Giuliano Prezzolini e Margherita Marchione, Editrice La Scuola, Brescia 1985, pp. 57-59.
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Alfonso Leonetti – Antonio Gramsci
Alfonso Leonetti nella sua autobiografia racconta il primo incontro con Antonio Gramsci (Ales, Oristano 1891 – Roma 1937) avvenuto nella Torino operaia del luglio del 1918. Il giovane intellettuale pugliese va a trovare il futuro leader rivoluzionario con un biglietto di presentazione di Giuseppe Scalarini, “il caricaturista dell’Avanti”. La visita ad Antonio Gramsci suggerisce che la sua fama di intellettuale e di leader socialista aveva già raggiunto la lontana Andria contadina.
Pia Carena, la collaboratrice di Gramsci, segue in silenzio il colloquio, attenta e discreta. Ed è l’inizio di un lungo comune cammino.
Un giovane capelluto
Salendo al secondo piano [del palazzo dell’A.G.O.(Associazione Generale degli Operai) in Corso Siccardi 12], quella mattina di luglio 1918 – una giornata caldissima – non mi parve di notare una grande affluenza di lavoratori. L’atmosfera di lutto creata dai fatti di agosto 1917, per i quali proprio in quei giorni si stava celebrando il “processone” davanti al tribunale militare di Torino, e il regime di restrizioni che la guerra faceva pesare sulla città e nelle fabbriche, contribuivano certamente a diradare i frequentatori di Corso Siccardi. Ma il cuore dei proletari torinesi batteva in quel palazzo, pronto ad infiammarsi, come verrà dimostrato nei mesi successivi.
Quando finalmente fui entrato nella sala di redazione dei due giornali [dell’Avanti e del Grido del Popolo] – una sala ampia, illuminata da due grandi finestre -, ebbi l’impressione di aver fatto il viaggio a vuoto. Le due scrivanie che si fronteggiavano mi apparivano deserte: l’una, a sinistra del visitatore, era un tavolo sgombro d’ogni carta, su quattro colonnine che non lasciavano dubbio sulla assenza dell’occupante. L’altra, invece, a destra, vicino al muro, era un mobile ottocentesco, massiccio e compatto, con tiretti dai due lati fino a terra e, davanti, alti palchetti carichi di libri e di giornali, che non permettevano alcuno sguardo sulla persona che vi si fosse seduta dietro, specie se di piccola statura. Solo mi parve presente una minuta brunetta, seduta a un tavolo con macchina da scrivere e con innanzi un giornale francese, che stava evidentemente leggendo. Saprò poi che si chiamava Pia Carena. A lei chiesi di Antonio Gramsci e di Ottavio Pastore. Avevo appena finito di pronunciare i due nomi che vidi sorgere dalla scrivania di destra un giovane capelluto, un po’ più basso di me, con occhiali e pince-nez, in maniche di camicia, avambracci e petto scoperti per il gran caldo. Mi avevano parlato di un gobbo. E infatti il corpo di questo giovane – era schiacciato, con lievi sporgenze nel dorso e allo sterno: una gibbosità che a me parve irrilevante. La testa fiera, saldamente piantata su due ampie spalle, la dominava e quasi la cancellava. Questa fu la mia prima impressione e tale essa è rimasta nella mia memoria. Il giovane di cui parlo era evidentemente Antonio Gramsci. […]
Ecco l’uomo che ero andato a incontrare e con cui dovevo percorrere un lungo e difficile cammino. Ci presentammo; ci stringemmo per la prima volta la mano e molto cordialmente – Gramsci non era uomo di grandi effusioni – cominciammo a discorrere della mia venuta a Torino. Macchinalmente gli diedi il biglietto scritto da Scalarini [caricaturista dell’Avanti]. Lo scorse con rapidità, indovinando il suo contenuto. In effetti, non giungevo nuovo ad un uomo che seguiva con tanta attenzione non solo la stampa socialista, ma anche i giornali e riviste come l’Humanitas di Bari ed Il Grido di Napoli. Che cosa ci dicemmo? Che piega prese il nostro discorso? E’ difficile ricostruirlo a distanza di tanti anni. Ricordo che la conversazione fu lunga e che essa terminò con un arrivederci, segno che il dialogo iniziato poteva continuare, come difatti continuò.
Durante tutta la conversazione tra me e Gramsci, la piccola bruna seduta vicino alla finestra, dietro la macchina da scrivere, rimase silenziosa, assorta apparentemente nella lettura del giornale francese che aveva davanti a sé. Dico apparentemente, perché, come seppi dopo, nulla sfuggì della nostra conversazione a quell’attenta giovane collaboratrice di Gramsci.
Alfonso Leonetti, Da Andria contadina a Torino operaia, Argalìa Editore, Urbino 1974, pp. 173-177.
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Luigi Heilmann – Giacomo Devoto
Nel necrologio scritto in onore del linguista Giacomo Devoto (Genova 1897 – Firenze 1974) Luigi Heilmann (Portalbera, Pavia 1911 – Bologna 1988) rievoca il momento in cui capì (nel 1957) quale importanza avesse avuto per lui il suo primo incontro nel 1935 a Milano con il maestro, la scoperta della linguistica moderna, diSaussure e di Trubeckoj. Ma solo quando il maestro, parlando di sé, mette a nudo la sua umanità, l’allievo supera ogni imbarazzo dinanzi a lui, e la collaborazione diventa proficua. L’incontro rientra nella tipologia dell’incontro-convegno.
In un caldo pomeriggio estivo
Mi sia concesso di prendere le mosse da un ricordo personale.
Al Circolo Linguistico Fiorentino, nella sede di piazza S. Marco, modestissima e pur tanto ricca di ricordi, Giacomo Devoto, cui facevano corona colleghi, discepoli, ospiti di fuori, parlava di se stesso: era il venerdì pomeriggio del 19 luglio 1957 alla vigilia dell’ottavo Congresso internazionale dei linguisti di Oslo. Devoto sessantenne parlava, sereno, lucido, incisivo come sempre, senza vano orgoglio, senza inutile modestia; in una atmosfera a Lui cara e congeniale tracciava il bilancio della propria vita, quel bilancio che, col titolo “Per una critica di me stesso”, si legge in testa al primo volume degli Scritti minori. Ascoltandolo riandavo col pensiero al primo incontro con Lui; era il 1935, laureato da poco mi ero trovato, quasi per caso, ad assistere, alla Università Cattolica di Milano, ad una sua conferenza sugli sviluppi più recenti della linguistica: saussurianismo e fonologia. Rimasi affascinato dalla personalità dell’oratore e dalle idee che Egli presentava al suo uditorio. Completamente nuove per me, mi spinsero a meditare Saussure e Trubeckoj e segnarono una tappa fondamentale nella mia formazione. Da quel momento mi sentii, idealmente, anche Suo discepolo, e pure, per molti anni, non mi fu possibile superare, ogni volta che lo incontravo, un senso paralizzante di imbarazzo. Devo confessare che il Suo austero distacco mi affascinava e, al tempo stesso, mi feriva quasi scostante freddezza.
In quel caldo pomeriggio estivo, ascoltando la sua pacata indagine introspettiva, il ritratto di Devoto si veniva progressivamente mutando. Da quel momento ebbe per me inizio la vera dimestichezza con Lui, approfondita in incontri sempre più frequenti e cordiali, rinsaldata nel lavoro comune per l’Associazione Italiana di Cultura Classica, sanzionata nella preparazione e nel compimento dell’undicesimo Congresso internazionale dei linguisti del quale abbiamo vissuto insieme le ansie e le fatiche, le difficoltà e le soddisfazioni. Perciò io credo che ricordare Giacomo Devoto non si possa senza partire da quelle pagine che ho citato; esse ci forniscono la chiave per penetrare nel suo animo schivo, per intendere a pieno la sua opera scientifica non tanto negli aspetti esteriori e fattuali, quanto piuttosto nelle motivazioni interne, oserei dire nella soggiacente, personale filosofia.
Luigi Heilmann, Ricordando Giacomo Devoto, in “Atene e Roma”, 1975, n.s. XX – fasc. 3-4, pp. 113-114.
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Attilio Bertolucci – Pier Paolo Pasolini
Ad un anno circa dalla morte di Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 – Roma, 1975), Attilio Bertolucci (San Lazzaro di Parma, 1911 – Roma 2000) commemora per il quotidiano “la Repubblica” (del 29 ottobre 1976 con il titolo Quando per vivere faceva la comparsa) Pier Paolo Pasolini, ricordando il suo primo incontro con lo scrittore friulano, presentatogli da Giorgio Bassani a Roma nella primavera del 1951. Pasolini per sbarcare il lunario è costretto a ricercare la raccomandazione di Luigi Malerba per un ruolo di comparsa a Cinecittà o a scrivere sulla terza pagina di un giornale monarchico un articolo in cui intuisce la vera essenza della poesia di Bertolucci: non idillio, ma nevrosi. Suggella il racconto l’incontro appena accennato in conclusione tra Pasolini e l'”adorato” Carlo Emilio Gadda. La tipologia è quella della presentazione (intermediario Bassani).
La gavetta del poeta
Nella tarda primavera del ’51, tiepida, piovosa e odorosa di caffè in grani che molti bar tenevano in vista dentro grandi sacchi aperti, stavo “in prova” a Roma. Non insegnavo più, scrivevo i parlati dei documentari di Antonio Marchi, molte ore al giorno le passavo con lui in moviola, alla Fonoroma. Abitavamo al Tritone, in un appartamento aereo, ma senza ascensore, che Anna Banti ci aveva affittato. Viveva con noi anche Malerba, allora un po’ Bonardi: il suo vero, rassicurante cognome, da lui abbandonato per il tenebroso Malerba.
Avevo da pochi giorni pubblicato La capanna indiana quando una mattina arrivò su Giorgio Bassani con un giovane non tanto alto, che non portava la giacca, come tutti in quegli anni, ma un maglione vagamente norvegese. Non che fosse timido, era riservato, parlava poco, sorrideva come da chissà dove. Si chiamava Pier Paolo Pasolini. Dissi a Bassani che mi sentivo molto triste lontano dai miei, lui rispose che se tenevo duro un anno era fatta. Ho tenuto duro ma non è fatta neppure oggi. Eravamo tutti esiliati dal Nord in quel tiepido, piovoso maggio del Centro Sud. Pasolini continuava a scrivere bellissime poesie in friulano, ma si preparava a comporre Le ceneri di Gramsci.
A un certo punto entrò Malerba con la sua bottiglia del latte, ne beveva moltissimo. Aiutava Lattuada che stava girando un film in cui Silvana Mangano doveva fare la suora. Pasolini si fece coraggio, cavò fuori un tesserino da comparsa cinematografica che teneva unito a quello dell’abbonamento al tram (immagino che lo mostrasse, pateticamente muto, ai bigliettai stralunati delle circolari notturne con già addosso la sua apetencia de muerte, la sua fame di immagini e di parole nuove, eccitanti per lui venuto da fuori). Malerba promise con gentilezza di farlo lavorare. Prima di andarsene Pasolini mi lasciò un giornale, pregandomi di non guardare la prima pagina, secondo lui “orrenda”. Non era che comica, cioè monarchica. In terza c’era una sua recensione al mio libro. Aveva capito tutto, ero commosso e quasi spaventato. Prima di lui avevano parlato soltanto di idillio, lui parlava acutamente di nevrosi.
Pasolini era molto povero, tanto da dover fare la comparsa e scrivere su quei giornali, ma volle che andasse a pranzo a casa sua, a Ponte Mammolo, dove ci sono le carceri di Rebibbia, abitazione provvisoria di tanti suoi meravigliosi personaggi, ragazzi allegri e tragici, inventati dal vero con piglio caravaggesco. Gli portai Carlo Emilio Gadda che non conosceva e adorava.
Attilio Bertolucci, Primo e ultimo incontro con Pier Paolo, in Opere, Mondadori, Milano 1997, pp. 1134-1135.
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Piero Gadda Conti – Antonio Baldini
Piero Gadda Conti (Milano 1902 – ) racconta il suo primo incontro con Antonio Baldini, scomparso quindici anni prima, per i lettori della “Nuova Antologia”, di cui Baldini dal 1931 è stato redattore capo e poi direttore letterario. Gadda Conti ci trasporta a Milano, dopo l’esperienza della “Ronda”, attorno al 1925. Con un vero e proprio inganno letterario egli si segnala al già famoso e più anziano di lui (di tredici anni) Antonio Baldini. Ed è l’occasione non solo per rivendicare il ruolo storico della “Ronda” nel panorama delle lettere italiane del primo dopoguerra, ma anche per tracciare il percorso intellettuale di Baldini, per dire cioè come Baldini divenne “Michelaccio”[4]. La tipologia è quella dell’incontro-convegno.
Vanitas vanitatum
Il mio primo incontro con Antonio Baldini è rimasto assai vivo nel mio cuore perchè è legato a un sentimento tenacissimo: la vanità letteraria. Eravamo al Circolo del Convegno di Enzo Ferrieri, al piano terreno del palazzo Gallarati Scotti, in via Borgospesso. Su una lunga tavola, davanti ad un maestoso camino di marmo scuro, erano allineate le riviste letterarie di allora (attorno al ’25): “La Ronda”, “Il Primato”, l'”Esame”, il “Quindicinale” e lo stesso “Convegno”: nonché la “Nuova Antologia”. Tranne quest’ultima sono tutte scomparse. E proprio della “Nuova Antologia” il Baldini sarebbe divenuto segretario di redazione nel 1931, sotto le blande direttive di Luigi Federzoni, che aveva allora più importanti compiti, tra i quali (ad esempio), presiedere il Senato.
Accadde dunque quel giorno, al Convegno, che Baldini mostrasse di avere preso per buona (e ne fui molto fiero) parlandomi del mio racconto Il vecchio Capitano, la canzone che vi figura: “Va per oceani e mari / il giovin capitano / ma troppo va lontano / più della fedeltà” e che termina (dopo una dozzina di strofe altrettanto popolaresche) “il fulmine sospeso / in cielo per buon cuore / ratto discende e muore / il vecchio capitan”. “Chi abbia villeggiato in quelle estati sulla riviera di Levante” (dicevo) “ricorderà forse un certo foglietto arancione – pubblicato a La Spezia, dalla tipografia Navarrini, a spese dell’autore”. La poesia che Baldini aveva ingoiato con tanto candore era un mio pastiche e la storia del foglietto arancione una mia invenzione.
Baldini, come ricorderà chiunque lo abbia conosciuto, era un uomo delizioso. Rievocandolo la prima cosa che mi sorge nella memoria è il suo sorriso: un sorriso di benevola attesa, consona al personaggio di Michelaccio, al quale Baldini sarebbe, negli anni seguenti approdato. Ma quando lo incontrai quella prima volta al Convegno egli era ancora circonfuso dal prestigioso alone che irraggiavano “quelli della Ronda”. Questa rivista di Bacchelli, Cecchi, Cardarelli, Montano e pochi altri, oltre che sua, era stata una affermazione dei valori più durevoli e profondi della nostra tradizione letteraria mentre era in atto una dilagante moda di volgarissimi autori, oggi dimenticati, come Mario Mariani e Pitigrilli.
La “Ronda” cessò alla soglia del ’23 e ognuno dei suoi collaboratori proseguì per una propria strada: Baldini divenne “Michelaccio”.
Piero Gadda Conti, Ricordo di Baldini, “Nuova Antologia”, Gennaio 1977, pp. 44-45.
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Dario Bellezza – Sandro Penna
Nel necrologio scritto in occasione della morte di Sandro Penna (Perugia 1906 – Roma 1977), Dario Bellezza (Roma 1944-1996) ne ricorda la figura sulle pagine di “Nuovi Argomenti”, ed in particolare racconta il primo incontro con lui avvenuto a Roma negli anni 1967-68. Dopo una sorta di approssimazione al poeta, letto la prima volta durante una gita a Tarquinia, Elsa Morante (Roma 1915-1985) glielo presenta.
Riporto di seguito parte di una conversazione avvenuta nel gennaio 1981 tra Dario Bellezza e il critico Gualtiero De Santi, da cui apprendiamo qualcosa in più, e cioè, che l’incontro tra Bellezza e Penna avvenne in un ristorante romano, il Biondo Tevere, cui Bellezza è legato da ricordi tristi e gai (“dove Pasolini andò con il Pelosi” prima di morire e dove Visconti girò Bellissima). Gli argomenti di discussione non mancano: si va dall’aneddotica gaddiana, ai giudizi su Joyce, Proust e Gide. Ma si noti soprattutto come Bellezza ci tenga a sfatare il pregiudizio molto diffuso di un Penna ingenuo, incolto, disinformato, per accreditare, invece, l’immagine di un poeta in lotta contro la “barbarie culturalistica”.
Una gita a Tarquinia
Lessi le sue [di Sandro Penna] poesie, il volume del 1957, che mi provocò un delirio di vecchie sensazioni d’infanzia e il riconoscimento di un mio sesso provvisorio, nel 1963. La mia educazione sentimentale è avvenuta, languida, sterile, smentita, su quelle poesie, sul loro profumo. Me le donò un ragazzo incontrato per caso, in Trastevere, un giorno fortunato in cui, insieme a qualche compagno – ero allora iscritto al PCI – avevamo deciso di fare una gita verso Tarquinia. E cominciai a leggerle in macchina, fino ad un comizio, in una piazza piena di contadini. Nella poesia di Penna c’è un amore creaturale, senza ideologia manifesta, per il popolo: “L’odore casto e gentile della povertà”. Ad Elsa Morante chiesi una volta, un po’ di tempo dopo, di presentarmelo. Elsa, come ho già accennato, diceva che Sandro era un grande poeta, quasi “Dio”. I due si conoscevano da quarant’anni, erano quasi coetanei, avevano in comune l’amicizia per Saba. Il loro rapporto era molto complicato, ineffabile, talvolta litigioso e competitivo, ma c’era una stessa idea della poesia: la poesia della vita difesa contro ogni barbarie culturalistica. Diceva, Elsa, che Penna era grande per motivi tutti diversi da quelli legato all’omosessualità, dall’eros indisciplinato, come aveva scritto Anceschi.
Dario Bellezza, Ricordo di Sandro Penna, “Nuovi Argomenti, n. s. n. 53-54, Gennaio-Giugno 1977, pp. 158-159.
***
Al Biondo Tevere
[De Santi] Come hai conosciuto Penna?
[Bellezza] Io non ho molta memoria. Però il ricordo di come ho conosciuto Penna è vivido in me perché stranamente è legato al Biondo Tevere, che è il ristorante dove Pasolini andò con il Pelosi; il ristorante sul Tevere dove anche Visconti girò Bellissima. E l’ho conosciuto così: avevo sentito parlare di lui, avevo letto le sue poesie quando ero ragazzo e le amavo molto; però, da quello che leggevo, anche da cronache mondane, si sapeva che Penna era una persona molto appartata, che era difficilissimo vedere. Un giorno, casualmente, ad Elsa Morante che mi chiese quali fossero i poeti che mi piacevano di più, risposi: “Penna”. “Ah, Penna: è un mio amico.” Non sapevo che Penna fosse amico della Elsa. Allora le dico: “Me lo fai conoscere?”, penso; o forse lei m’ha proposto di conoscerlo. insomma, sta di fatto che me l’ha presentato Elsa Morante e subito andammo al Biondo Tevere. E mi ricordo che lui – era uscito un mio testo su “Nuovi Argomenti” che era un po’ gaddiano – mi raccontò un sacco di storie e di episodi spiritosissimi su Gadda. Allora c’era la voga di Gadda, della neo-avanguardia…
Era pressappoco quando?
Era il ’67. L’ho conosciuto nel ’67-’68. Mi raccontò delle cose su Gadda divertentissime, e poi parlammo di Joyce. Mi ricordo che lui – che passa appunto per un poeta non molto colto – era invece informatissimo. Per esempio conosceva benissimo l’Ulisse perché mi disse delle cose su questo mio testo che era anche un po’ joyciano. Intelligenti, insomma: era un uomo intelligente. Che arrivava a dire che Gide era un grande scrittore e che Proust non gli piaceva. Per dire.”
Su Sandro Penna. Conversazione di Gualtiero De Santi con Dario Bellezza, in Gualtiero De Santi, Sandro Penna, La Nuova Italia, Firenze 1982, p. 3.
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Gianfranco Contini – Pier Paolo Pasolini
Dalla testimonianza di Gianfranco Contini relativa al suo primo incontro nel 1946 con Pier Paolo Pasolini emerge un rapporto tra il critico e il poeta caratterizzato dalla distanza e dal puro scambio intellettuale. Il primo passo nel 1942 (quando il “disastro [è] vicino a consumarsi”) è fatto da Pasolini con l’invio delle Poesie a Casarsa al critico che avverte immediatamente l'”odore irrefutabile della poesia”. Segue una frequentazione a distanza fino al 1946, anno in cui Pasolini va a trovarlo nella sua casa di campagna. Qui Contini deve fronteggiare lo “spiegamento di timidezza” di Pasolini, sventato dalla subita intuizione del critico che lo conduce all’aperto, dove l’umile e l’autentico della natura avrebbero soccorso il poeta in difficoltà. Il brano è parte della Conversazione inaugurativa del convegno-rassegna su Pasolini svoltosi a Novoli (in Firenze) il 28 marzo 1980, pubblicata su “Il Ponte”, XXXVI (1980), pp. 339-345 e poi negli Atti a cura di A. Panicali e P. Sestini, 1982, a cinque anni dalla morte di Pasolini.
Un’amicizia de lonh
Insegnavo allora in un’università straniera, e facevo il pendolo fra quella sede e una piccola città di confine. Uno dei miei fornitori librari (fascette e fatture integralmente autografe) si rifletteva nella tenuità delle cifre, era un piccolo antiquario di Bologna, chiamato Mario Landi […]. Un giorno del 1942 la posta mi recò un plico iscritto dalla bella e arcaica lettera di Mario Landi, ma non conteneva poche lire di Bodoni o di Romagnoli-Dall’Acqua, bensì, per la prima ed unica volta, un libretto stampato sotto la ragione editoriale del Landi stesso. Ignoto l’autore, Pier Paolo Pasolini, di aspetto onomastico inconfondibilmente ravennate, e ignota la veste linguistica di quelle Poesie a Casarsa, friulano ma “di cà da l’aga” (cioè il Tagliamento), quindi un’eccezione nell’eccezione. L’odore era quello irrefutabile della poesia, in una specie inconsueta, per di più in una di quelle non so se dire quasi-lingue o lingue minori che era mia passione e professione frequentare. Allora tutto il tempo era mio, niente ostacolava, quando insorgeva, il pronto desiderio di scrivere. All’uopo adibii un giornale del Ticino, tra perché le sedi italiane stavano crollando nel disastro vicino a consumarsi e perché la censura invigilava che non si osasse dir troppo bene di cosa scritta in dialetto (“Primato”, infatti, rifiutò il pezzo). Fu quella in sostanza la mia unica scoperta. […] Cominciò allora una lunga amicizia (non molto prima della sua morte mi scrisse, con incontenibile affetto, di aver viaggiato con addosso una mia lettera in Levante e negli emirati del Golfo, i luoghi assoluti e desertici dove amava “girare”: un’amicizia il cui vero senso fu di essere, com’egli diceva con la parola di Jaufre Rudel, de lonh; un’amicizia di “lei”, come molte delle mie amicizie migliori (in “lei” o nell’equivalente straniero). Ci siamo incontrati poche volte, e la prima dopo un lungo indugio, durante il quale incontrai, o lui mi mandò, suoi “messaggeri” (ricordo una notte bolognese con la grecista Giovanna Bemporad e altri suoi amici, alla ricerca dell’Aposa e del suo fruscìo sotterraneo). Venne a trovarmi la prima volta, se ricostruisco bene, nel ’46 (molto dopo la cesura introdotta nella sua vita tutta tragica dalla morte del fratello Guido, massacrato nella guerra partigiana; e anche allora lo portava un’occasione drammatica, cioè una visita a un’amico malato di mente nei paraggi della mia città). Non credo di avere mai assistito a un tale spiegamento di timidezza: tanto che a un certo momento, per alleviare l’onere della conversazione (eravamo nella mia casa di campagna), gli proposi un’esplorazione della natura circostante, oggi ecologicamente molto deteriorata, ma a quei tempi ancora incorrotta. Allora non potevo rendermene esatto conto, e in fondo lo capisco pienamente soltanto ora, che un bilancio totale è possibile: o il caso o l’istinto mi aveva suggerito la soluzione più conforme alla virtù preclara di Pier Paolo Pasolini, che fu l’amore dell’umile e dell’autentico; e tale era il paesaggio che ci circondava, “se avendovi passata (è la cautela avanzata dall’autore del Fermo e Lucia) una gran parte della infanzia e della puerizia, e le vacanze autunnali della prima giovinezza, non riflettessi che è impossibile dare un giudizio spassionato dei paesi a cui sono associate le memorie di quegli anni”.
Gianfranco Contini, Testimonianza per Pier Paolo Pasolini, in Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Einaudi, Torino 1988, pp. 389-391.
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Maria Antonietta Macciocchi – Louis Althusser
Illuminata dalla recente lettura di Per Marx di Louis Alhusser (Bimmandreis, Algeria, 1918 – Le Mesnil Saint Denis, Parigi, 1990), Maria Antonietta Macciocchi cerca l’incontro col filosofo francese e, dopo una telefonata tormentata ma dall’esito felice, ottiene il permesso di andarlo a trovare all’Ecole Normale. Qui conoscerà anche Hélène, la premurosa consorte di Althusser. La conversazione si anima poi durante la cena in un ristorante vietnamita dove il maestro sottopone la Macciocchi ad un vero e proprio interrogatorio, durante il quale nasce tra i due un’amicizia che non avrà più termine. Il racconto autobiografico della Macciocchi è in terza persona. L’incontro rientra nella tipologia della visita. Siamo a Parigi nel 1965.
L’astro di Althusser
La voce della donna era ilare e vitale, una voce intatta, di una che ha trascorso la vita nella fiducia della rivoluzione. Qualcosa di marino e di aurorale.
“E lei” disse al telefono la voce di Macciocchi, “il signor Althusser”? come se lo cercasse da tutta una vita.
“Sono io” rispose guardingo, insospettito, e soprattutto stupefatto il signor A.
“E lei chi è, che vuole da me?” col tono di uno che dice: “Perché mi disturba nei miei pensieri?”.
“Lei non mi conosce, sa, io non conto nulla, faccio solo la giornalista.”
“Non do interviste, non parlo coi giornalisti”: il tono definitivo come la lama di una ghigliottina.
“Vede, non sono soltanto una giornalista ma anche una comunista italiana” disse la voce, “per questo sono interessata a lei e vorrei conoscerla.”
“Non sono da conoscere” disse cupo il signor A.
“Vede” riprese la voce ilare, più appassionata che mai: “Ho letto il suo libro Per Marx. Ecco, dirò che non tutto il libro mi ha colpita allo stesso livello, ma la prefazione, quella sì, là dove si interroga sullo sbocco da dare ora alla nostra vita di comunisti, di militanti, dopo tanti anni. La cerco da un anno e più…”.
“Sono stato ammalato” confessò la voce dell’uomo con una prima incrinatura nel sospetto, un cedimento nell’ostilità.
“Allora vede” disse la voce, “è proprio da allora che vorrei incontrarla. Ero ai giardini del Lussemburgo, avevo il suo libro, ho letto la prefazione e capii che dovevo conoscerla.”
“Non do interviste né dichiarazioni. Lei si interessa per caso a Régis Debray? Non ho nulla da dire.”
“Ma no, mi interesso a lei, unicamente e solamente a lei.” E la voce vibrata come un violino. Il professor Althusser abbisogna di un rapido schizzo. Che abbia 50 anni conta poco, come il resto delle sue particolarità somatiche. Quel che conta è il suo mondo interiore. Tanto desideroso di celebrità, quanto ansioso di non averne alcuna. E’ in perenne contraddizione con se stesso fra questi due poli inconciliabili: è sconvolto fino alla nevrosi all’idea di diventare un personaggio ufficale, eppure cade in crisi depressive quando la cultura filosofica e politica gli rifiuta un ruolo primario, come interprete di Marx. Terrorizzato dalla battaglia politica che gli fa non poca paura, è al tempo stesso ossessionato dal primato da dare alla politica nella sua vita filosofica. Incerto dunque tra il limbo filosofico e “la guerra politica filosofica”; tra il suo definitivo ritiro in Marx, e la lotta aperta per scacciare il filosofo socialdemocratici Garaudy dal seggio ufficiale che occupa alla direzione del Pcf, per rigettarlo nell’inferno di Kautski. Questo era il professor A. che stava per incontrarsi con Macciocchi dalla voce ilare, che l’aveva violentato nel suo torpore di gatto soriano. Quell’onda sonora che l’aveva raggiunto al telefono pareva soprattutto interessarlo per la sua appartenenza politica al Pci, una voce comunista italiana. In rapporto al suo “primato della politica” e alla sua ricerca di nuovi alleati nella lotta contro il revisionismo francese.
“Va bene, venga nel mio studio alla Ecole Normale” le accordò infine il filosofo. “Alle 18. Entri nel giardino, prenda a destra, c’è una scaletta e un portoncino, giri a destra ancora, suoni a lungo.”
“Grazie” disse la voce. “La mia riconoscenza non ha limiti.”
E così la donna spensierata e stordita – perché da sempre cercava il rigore tecnico-morale negli uomini – si incamminò di buon passo verso Saint Michel, che rigurgitava di piramidi di libri sui marciapiedi. Lo spettacolo la inteneriva quasi più di ogni altro a Parigi, perché le sembrava che ogni sasso stillasse pensiero. Si diresse verso il Pantheon, dietro cui c’era la sede della Ecole Normale, nella Rue d’Ulm.
Il celeberrimo A. aprì la porta personalmente, in pullover e camicia, senza cravatta. Fece sedere l’ospite su una poltrona, giusto davanti alla scrivania, che rigurgitava di libri e dossier, tra pacchetti di Gitanes e portacenere sporchi. Si capì subito che l’uomo voleva restare fedele alla sua immagine diffusa dai mass-media di intellettuale proletarizzato, o di proletario dell’intelletto.
“Che vuole da me?” la interrogò ancora.
Ma non c’era più diffidenza, solo curiosità nel suo viso, e il desiderio di inìziare un “ascolto psichico-politico”, come poi lo avrebbe chiamato.
“Quando presi il suo libro” disse la donna, ripetendo quello che gli aveva detto al telefono, ma meglio, “ero ai giardini del Lussemburgo e mi sentii come nelle raffigurazioni sacre, una di quelle Sante illuminate da una luce non terrena. Io sono atea. Non terrena per me vuol dire non parigina, non mondana, senza la megalomania, la grandeur e il dogmatismo del discorso politico francese. Leggevo nella prefazione che lei accusava la Francia di provincialismo. Gettare questa verità, così, sul muso di tanta intellighentia, togliere ogni paludamento ipocrita all’intellettuale, tutto questo lo leggevo per la prima volta. Mi parvero più che parole, addirittura un messaggio.”
Il professore la guardava con curiosità, ascoltava con tutto il corpo proteso sulla scrivania, ma non le rispondeva.
“Noi comunisti, adesso che dobbiamo fare?” lo interrogò infine Macciocchi. “Continuare nell’attivismo o tornare, come lei, al rigore dello studio?”
La donna italiana aveva posto le domande in fretta, arrossendo irrimediabilmente. Come se avesse una malattia endemica. E aggiunse: “Tanto spesso, Parigi appare un deserto, politicamente. E’ buffa questa espressione, ricorda la Traviata, no? Voglio dire che, per uno straniero, è una città difficile per la sua presunzione intellettuale, e allora mettersi a leggere una cosa come la sua, scombussola. D’altra parte, c’è questo suo modo di sentirsi comunista non solo francese, ma internazionalista…”
Il Grandissimo A. la fissò con gli occhi chiari e stupefatti, da lontani lidi. Ma sembrava ammansito, rifletteva.
La donna si lasciò trasportare – come sul lettino dello psicoanalista benché fosse seduta sull’orlo della poltrona a rischio di cascare – e osò librarsi ancora ad altre riflessioni.
“Credo che dopo aver letto la sua prefazione a Per Marx, ho cominciato a interrogarmi sul senso della vita di tutti noi. Sa, avevo le lacrime agli occhi al Lussemburgo, seduta sulla panchina. Chiusi il libro e mi dissi: “Ecco non ho capito tutto, anzi quasi niente, ma forse Parigi è adesso, soprattutto, una città dove vive e lavora un uomo come Althusser, come lei”.”
- non replicò. Diventò gentile, offrì una Gitane alla visitatrice che si mise a fumare con impeto. Ma il tabacco era forte, tossì e la testa le girava. L’ombra calava sullo studio e dalle finestre si distinguevano appena le foglie degli alberi dietro le tendine polverose. Il grande astro era lì, che stava ancora riflettendo sul da farsi, come imbalsamato dietro la scrivania. L’alta fronte bianca pareva la sola cosa luminosa. Poi interruppe il silenzio, e disse bruscamente:
“Che ne dice: se andassimo a cena fuori?” Più esattamente usò l’espressione popolaresca: casser la croute. “Continueremo a parlare.”
La donna rispose con slancio: “Ma certo, sì”. Pronta a partire per l’Alaska, e non solo verso un bistrot del quartiere, col Signor A. Questi si alzò -era alto e massiccio – e le disse:
“Aspetti un momento, voglio farle conoscere Hélène.”
Aprì una porta dietro cui c’era una donna, come in attesa di entrare. Le sembrò più vecchia di lui, col viso scarnito, coperto da rughe sottili e i capelli chiusi in un nodo da qualche forcina, il tutto in contrasto con i blues-jeans che indossava.
Il grande A. disse: “Hélène ama molto l’Italia. La conosce bene, conosce il suo partito e… molte altre cose”. Come se accennasse a una misteriosa sapienza da sibilla.
Hélène si rivolse all’italiana con voce flautata, come fa una persona esperta della vita e delle cose del mondo con una più giovane. E la donna italiana voleva subito piacere anche a lei, disposta alla fiducia dall’età, dal senno, e dalla premura che la donna manifestava per ogni gesto di Althusser. Si avviarono tutti e tre verso un ristorante vietnamita. Il piatto di Macciocchi restava sempre pieno, con le pietanze raffreddate, perché il celebre A., sotto la vigile sorveglianza di Hélène, le fece un minuzioso interrogatorio politico personale, che sarebbe anche potuto apparire indiscreto e invece diede a Macciocchi un supplemento di fiducia, perché aveva la possibilità di dimostrare, nel dettaglio, che, in tutti gli anni della sua milizia politica, aveva mantenuto la passione rivoluzionaria, fra traversie di ogni genere.
Dopo cena, dietro lo studio, raggiungemmo l’appartamento che Althusser occupava nella scuola. Hélène nel soggiorno estrasse da un vecchio mobiletto tarlato bibite, liquori colorati d’erbe aromatiche. In quel momento Macciocchi capì che i suoi rapporti col filosofo erano più intimi di quanto avesse immaginato a prima vista.
Maria Antonietta Macciocchi, Duemila anni di felicità, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1983, pp. 353-356.
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Norberto Bobbio – Renato Guttuso – Umberto Morra
Tra tutti i primi incontri di questa antologia, eccone uno raccontato, oltreché per iscritto da Norberto Bobbio, anche da un celebre disegno di Renato Guttuso (Bagheria, palermo 1912 – Roma 1987) che immortalò l’evento. Siamo a Cortona nel 1939, in casa di Umberto Morra (Firenze 1897-1981), giornalista e studioso di Piero Gobetti. Protagonisti sono un gruppo di amici che discutono e vanno preparando la resistenza al fascismo: Capitini, Morra, Calogero, Luporini, Bobbio e Guttuso. La tipologia è quella dell’incontro-convegno. Il contesto letterario è uno studio storico-critico nel quale Bobbio ricostruisce gli ambienti e ritrae i personaggi del “mondo di Gobetti”.
Renatus pinxit
Non ricordo più chi mi avesse fatto conoscere Umberto Morra. Aldo Capitini? Guido Calogero? Piemontesi tutti e due la nostra amicizia non nacque di certo in Piemonte. Avendo insegnato all’Università di Camerino dal 1935 al 1938, e poi a Siena dal 1938 al 1940, da torinesissimo ‘bougia nen’ quale ero sempre stato, ero diventato un viaggiatore malgré moi, sempre in giro, da vero chierico vagante, tra Camerino e Perugia, tra Siena, Firenze e Roma. E mi ero felicemente e durevolmente ‘spiemontizzato’: ‘durevolmente’, anche se non ‘definitivamente’. Mi dicono alcuni amici, dopo aver letto i miei scritti recenti di ricordi torinesi, che mi sto ‘ripiemontizzando’. Forse è una questione d’età.
E’ probabile che il primo incontro sia avvenuto proprio qui a Cortona in una memorabile giornata, tramandata casualmente alla storia e fissata per sempre in una immagine ormai nota, nel modo che sto per raccontarvi.
Quel giorno non precisato del 1939 Morra aveva accolto in casa sua, nella villa di Metelliano, e non era la prima volta, un piccolo gruppo di ‘cospiratori’ (mi piace usare questa parola che suonava già allora anacronistica ed ora appare persino un po’ comica), due dei quali, Capitini e Calogero, erano stati gli ispiratori e i fondatori del movimento liberalsocialista, nato, come tutti sanno, alla Normale di Pisa. Gli altri due, affiliati allora allo stesso movimento, erano Cesare Luporini ed io. Entrati nella stanza dove avrebbe avuto luogo la riunione, il padrone di casa ci presentò un suo ospite: “E’ un giovane pittore – ci disse -, un giovane di talento che farà parlare di sé: si chiama Guttuso”. Poi aggiunse: “Se credete, può partecipare alla riunione. Potete fidarvi”. Durante la riunione il giovane pittore, senza che noi ce ne accorgessimo o vi dessimo la minima importanza tratteggiò su un pezzo di carta la scena e i personaggi seduti intorno al tavolo. Molti anni più tardi, il disegno fu esposto nella prima grande esposizione di Guttuso a Parma. Mio fratello che abitava a Parma, visitando la mostra, vide il disegno in cui spiccava il mio profilo (inconfondibile) e anche il mio nome (che, ho ragione di credere, sia stato aggiunto insieme con quello degli altri più tardi). Mi avvertì. Lo venne a sapere per conto suo anche Luporini, il quale si fece regalare dall’autore e me ne diede una copia. Eccovela: da sinistra a destra, ci sono io, poi Luporini, poi Capitini che ha dinnanzi a sé un foglio con su scritto “non-violenza”, poi Morra; dall’altra parte del tavolo, Calogero che ha il dito alzato in atto di fare la lezione (l’altro parlante sembra Capitini), e ha sottocchio un foglio dove si legge “liberalsocialismo”; di schiena, o meglio di nuca, senza nome, il pittore (ma “Renatus pinxit”). In alto la data: “Cortona 1939”.
Norberto Bobbio, Umberto Morra e Gobetti, in Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Passigli Editori, Firenze 1986, pp. 157-158, già in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di lettere e filosofia” Serie III, vol. XIV, 1, Pisa 1984, pp. 169-170.
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Lucio Modestini – Giuseppe Catanzaro
Il primo giorno di scuola non rappresenta forse il primo incontro tra una classe e i propri insegnanti? e non è forse tanto importante da decidere spesso del rapporto tra studenti e professori per lungo tempo? Routine scolastica, si dirà. Eppure anche una semplice presentazione può riservare delle sorprese: lo abbiamo appreso leggendo il racconto del primo incontro di Salvatore Spinelli con Eugenio Donadoni e ce lo confermerà l’incontro Camilleri-Cassesa.
Lucio Modestini racconta nel 1984 il momento in cui il suo professore di latino e greco del Liceo classico di Assisi, Giuseppe Catanzaro, si presentò alla Ia liceale, e come questa classe lo accolse. Siamo nella stagione di Only You, la celebre canzone dei Platters del 1956.
Il primo giorno di scuola
Indimenticabile primo giorno del primo anno di liceo! Arriva il professore di latino e greco, sale sulla predella della cattedra e, dopo una pausa, che accentua attesa e curiosità, esordisce dicendo: “Io mi chiamo Giuseppe Catanzaro”. Sarà stata la tensione del momento, ma nel silenzio che seguì la presentazione, risuonò dal fondo dell’aula un roco e sillabato “e chi se ne frega!?”. Quell’insegnante ebbe tanto tatto da non volere udire. Fu subito uno dei nostri: aveva accettato il gioco. Credo sia stato il professore più amato e rispettato.
Lucio Modestini, La stagione di “Only You”, in AA.VV., Il liceo classico di Assisi nel bimillenario di Properzio, Assisi 1984, p. 81.
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Gianni Granzotto – Leonida Repaci
Il giornalista Gianni Granzotto (Padova 1914 – Roma 1985) racconta il suo primo incontro, all’incirca nel 1962, con Leonida Repaci (Palmi, Reggio di Calabria 1898 – Viareggio 1985), il fondatore nel 1929 del premio Viareggio. L’incontro memorabile (“mi apparve nei viali di Viareggio vestito di bianco, veemente, pavesato di giovinezza…”) è preceduto in giovinezza dall’assidua lettura del suo romanzo dal titolo Fratelli Rupe (1932-1973). Con Repaci, si sa, siamo nel bel mezzo della letteratura intesa come spettacolo e mondanità. Ragion per cui, chi si meraviglierà se in questo ricordo vediamo la famosa cantante Mina sedere sulle ginocchia dell’ottuagenario Ungaretti, mentre lo ascolta recitare poesie come fossero canzoni d’amore? Del resto era questa la “magia di Repaci, la sua vitalità” (art. cit. in basso, p. 96); e la sua capacità illusionistica. La tipologia è quella dell’incontro-convegno. Questo racconto è parte di un discorso celebrativo degli 86 anni di Leonida Repaci. Fu letto a Palmi nel 1984.
Il fascino della letteratura
Lo [Repaci] lessi prima di conoscerlo. Quando uscì la grande saga calabrese dei fratelli Rupe – ma che dico calabrese? E’ un’epopea universale, la storia dell’uomo nei suoi dolori, nei suoi amori, nelle sue speranze inestinguibili – quando uscirono i primi volumi dei fratelli Rupe io ero poco più che ragazzo. Ero assetato di conoscere, di sapere; di confrontare quella che stava appena disegnandosi come la mia vita con la vita che narravano gli scrittori. Tenevo un quaderno con le riflessioni che le mie letture mi inducevano a fare. Ce l’ho ancora quel quaderno. E’ del 1937. […].
Lo incontrai per la prima volta un quarto di secolo dopo. Ricevetti una sua lettera, nella quale mi proponeva di far parte della giuria del Premio Viareggio. Come non accettare? Come non sentire dentro di me il fremito che mi legava così intimamente a quel personaggio della mia giovinezza, e che mi chiamava nella sua casa, con la semplicità con cui si ospita un amico di sempre, invitandolo a spezzare con lui il pane e a gustare con lui il sale?
Il Premio Viareggio di quegli anni – gli anni Sessanta ormai mitici di tante ricchezze – aveva un parterre prodigioso di menti creative, in ogni campo della cultura: un parterre de rois, che andava da poeti come Ungaretti, Montale, Caproni; a scrittori come Piovene, Bonaventura Tecchi, Bevilacqua; a critici come De Benedetti; a critici d’arte come Roberto Longhi, il grande Longhi; a musicisti come Goffredo Patrassi; e via via a queste altezze, con altri nomi illustri che vorrei ricordare se non temessi di dilungarmi in un elenco più nominale, mentre è di Repaci che voglio parlare. Di Repaci che mi apparve nei viali di Viareggio vestito di bianco, veemente, pavesato di giovinezza come una nave in porto e che gli usciva da ogni poro della pelle, con la sua criniera candida al vento, dominatore delle discussioni con l’autorevolezza di chi già allora da più di trent’anni era al timone della letteratura italiana, e con quell’estro veloce di cui Francesco Flora era estasiato. Repaci esplorava, Repaci convinceva, Repaci organizzava, Repaci esplodeva, Repaci s’infuriava, Repaci comunicava; a mezzogiorno in bikini rosso sangue si tuffava nelle acque della Versilia e nuotava gagliardamente; alle quattro radunava la giuria e la induceva a decidere prima di sera, a scegliere i nomi giusti per la gloria del Premio, che non fu mai attribuito ai soliti illustri sconosciuti; e la notte tutti alla Capannina o alla Bussola, luoghi di spassi e conversari, con la Mina che si sedeva sulle ginocchia di Ungaretti e si faceva declamare le più belle poesie del Novecento come se ascoltasse canzoni d’amore, e lo sciame dei giornalisti a caccia di indiscrezioni, di giovani scrittori alla ricerca del loro futuro, di belle donne sedotte dal fascino della letteratura, dell’invenzione, delle creazioni dello spirito.
Donne e letteratura sono sempre andate a braccetto. Repaci dice che fondò il Premio Viareggio, all’inizio degli anni Trenta, più di mezzo secolo fa, perché vedeva sulla spiaggia nugoli di femmine belle e provocanti, e non sapeva come attirarle, come rendersi interessante ai loro vezzi. Non aveva danaro, non possedeva automobili, non poteva offrire gioielli come i granduchi al pascolo dell’amore. Si promise di conquistarle con la letteratura dove andò spavaldo.
Gianni Granzotto, Ricordo di Repaci, in “Coscienza storica”, III, 8, 1993, pp. 92-94.
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Silvio Guarnieri – Alfonso Gatto – Eugenio Montale
Il critico letterario Silvio Guarnieri (Feltre, 1910) è testimone dell’accoglienza piuttosto fredda riservata da Montale e dagli altri “solariani” al giovane Alfonso Gatto (Salerno 1909 – Orbetello, Grosseto 1976) che, insieme a De Libero e a Muscetta, accompagnati da Carlo Bo, era giunto a Firenze nel 1932 per conoscere il poeta degli Ossi di seppia. Solo negli anni seguenti, a seguito di una quotidiana frequentazione, la freddezza cederà ad un rapporto di amicizia, non turbato dalla diversa concezione politica dei due poeti. Montale passa qui dalla tipica assenza[5] all’ironia canzonatoria dei versi improvvisati il giorno dopo; del resto, ci sorprenderebbe la sua eccessiva cautela dinanzi a chi ha viaggiato molte ore per poterlo incontrare, se non conoscessimo, per dirla ancora col Guarnieri, “quella ritrosia, quella scontrosità che spesso improntavano l’atteggiamento di Montale nel suo primo approccio con gli altri”[6].
Una fredda accoglienza
Incontrai per la prima volta Alfonso nel 1932. Egli aveva appena pubblicato un volumetto di poesie che era stato segnalato da una recensione favorevole di Ungaretti – sempre attento e pronto a cogliere una vibrazione lirica nella prima produzione di giovani sconosciuti – ed era giunto a Firenze con Muscetta e De Libero per conoscere Montale. Accompagnati da Carlo Bo, il quale studiava Lettere e già lo aveva incontrato altre volte, gli si presentarono alle Giubbe Rosse, il caffè dov’egli approdava sul mezzogiorno, dopo la chiusura del Gabinetto Vieusseux. Intorno ai tavoli di quel caffè sedevano, come al solito, altri collaboratori di “Solaria”, Franchi, Bonsanti, Vittorini, Loria e Nannetti; i giovani forestieri dopo lo scambio dei saluti, sedettero anch’essi ma la conversazione stentava ad avviarsi; poche domande poneva Montale, il quale, come spesso gli accadeva, si dimostrava distratto e chiuso in sé; i “solariani”, dopo un breve scambio di parole, parevano avere esaurito ogni loro curiosità, ogni interesse per i nuovi venuti. Io mi sentivo a disagio; avrei voluto incoraggiarli, ravvivare la conversazione, ma non avevo la forza e la capacità di coinvolgervi Montale; il quale al solito a quegli inviti reagiva lasciandoli cadere, sottraendovisi, ed il mio fervore un po’ forzato rendeva ancora più evidente la freddezza noncurante degli altri.
A compensare quell’atteggiamento di cautela e distacco, quando al tocco ci si alzò per lasciarci, io proposi a quelli che consideravo degli ospiti di accompagnarsi a me per desinare in una di quelle trattorie dai pasti di poco prezzo che frequentavo, e, mentre mangivamo, la conversazione fra noi si avviò, trovammo argomenti famigliari a loro come a me, interessi comuni e comuni predilezioni; ma fu soprattutto con Alfonso che mi legai; a lui mi attiravano la sua disarmata schiettezza, l’esigenza di darsi agli altri, l’effusione del suo parlare nell’ansia di farsi conoscere e di conoscere il proprio od i propri interlocutori. Ove lo si stimolasse, lo si provocasse dandogli fiducia, mostrando di seguirlo nel suo discorso, si accalorava, si concedeva senza riserve, nel desiderio di suscitare consenso, di essere compreso ed accettato, in un bisogno evidente di sodalità, di amicizia.
Quell’incontro al caffè, improntato alla freddezza, li aveva probabilmente delusi; d’altra parte né Montale né gli altri “solariani” li avevano in qualche modo sollecitati ad un altro incontro; Montale, il giorno seguente, tamburellando con le dita su di un tavolo del caffè, si divertiva a scandire, come talvolta faceva, un versetto fortemente ritmato: “Gatto, De Libero, Muscetta, Bo” concludendo con una rima forzata: “popopò, popporopò”; e questa fu la sola traccia ch’essi avessero lasciato; difatti erano ripartiti il giorno stesso del loro arrivo né mai ripeterono quella loro spedizione. Ma io ad Alfonso mi ero legato di amicizia e mantenni i rapporti con lui.
Silvio Guarnieri, Alfonso Gatto: sotto il segno della contraddizione, “Il Ponte”, a. XLIII, n. 3, maggio-giugno 1987, pp. 99-100.
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Gianfranco Contini – Carlo Emilio Gadda
Gianfranco Contini, primo “acceso partigiano” del gran lombardo, rievoca il suo primo incontro con Carlo Emilio Gadda a Roma l’11 (circa) maggio 1934. Si consideri il giudizio del critico su Emilio Cecchi, del cui “neorondismo” Gadda è l'”antipodo”. Né si trascuri l'”eccesso di deferenza” attribuito a Gadda, un vero topos dell’aneddotica gaddiana. La tipologia è quella della presentazione (intermediario Enrico Falqui).
Con i giornali in mano
Conobbi Carlo Emilio Gadda nella prima metà del maggio 1934, direi verso l’11. Quest’incontro mi era raccomandato dagli amici di Solaria, estasiati dal raro figurino dell’ingegnere-scrittore (che si realizzava a nostra insaputa anche fuori d’Italia, con Musil, a suo tempo con Robbe-Grillet). Per autodenuncia, io che ero destinato a diventare un acceso partigiano di Gadda, confesserò la mia irritazione alla prima lettura, che fu di Polemiche e pace nel direttissimo sull’Italia Letteraria; e che alla sua causa fui guadagnato da Montale. Accadde così che, passando io da Firenze, Bonsanti ebbe l’idea di darmi da recensire per Solaria il libro fresco uscito nelle sue edizioni, Il castello di Udine. Proseguendo per Roma, chiesi a Falqui di propiziare l’incontro: poiché Gadda stava allora per preparare uno studio sulle novità “ingegneresche” ed elettrotecniche introdotte da Pio XI in Vaticano.
Ci demmo appuntamento, con i giornali in mano per segnale, in un punto di corso d’Italia vicino a porta Salaria, press’a poco dalle parti di Cecchi. Così variano le cose del mondo: l’introduttore sarebbe stato un giorno critico acerbo dell’ultimo Gadda, in effetti l’antipodo del suo neorondismo; mentre ho ancora nelle orecchie le lodi illimitate che Cecchi, già tiepidissimo, tesseva, una delle sue domeniche, della puntata del Pasticciaccio, “una bambolotta, ma che bambola!”; e almeno del primo Gadda fu cauto fautore l’altro rondista Bacchelli (del quale Gadda non ebbe pace finché non divenni amico anch’io). Ci riconoscemmo con Gadda a primo sguardo: alto il mio interlocutore, poco meno che austero nell’abbigliamento, una spolverina ripiegata su un braccio. E scendemmo verso il centro, avvolgendomi lui da sinistra, per eccesso di deferenza, ma anche per mutua simpatia lombarda.
Gianfranco Contini, in Carlo Emilio Gadda, Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario (1934-1967), Garzanti, Milano 1988, pp. 7-8.
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Gaetano Afeltra – Mario Missiroli – Maria Callas
Nel volume Famosi a modo loro, pubblicato nel 1988, il giornalista-scrittore Gaetano Afeltra raccoglie molti dei suoi scritti apparsi sul “Corriere della sera” negli anni precedenti, perlopiù ritratti di uomini politici, scrittori, artisti e uomini di cultura in genere, che hanno lasciato una traccia nel secolo XX. La narrazione è condotta sempre con spiccato gusto dell’aneddoto e del particolare essenziale[7]. I protagonisti di questo racconto del primo incontro sono il sovraintendente alla Scala Antonio Ghiringhelli, il giornalista e scrittore Mario Missiroli (Bologna 1886 – Roma 1974) e il soprano di origine greca Maria Callas (New York, 1923 – Parigi, 1977), tutti e tre frequentatori assidui del caffè Biffi a Milano nella seconda metà degli anni Cinquanta. La Callas, detta familiarmente “la Maria”, desidera conoscere il direttore del “Corriere della Sera” e Ghiringhelli combina l’incontro (primo, sebbene Missiroli e la Callas in precedenza si siano più volte visti e cortesemente salutati) in un modo assai naturale. Bello il commento di Afeltra: “Fu un incontro degno del Settecento, come quando i grandi prelati s’inchinavano alle regine”. La tipologia è quella della presentazione.
Incessu patuit dea
La Callas allora viveva più al Biffi che a casa. Il famoso caffè, data la sua vicinanza alla Scala, ne era diventato una dépendance. Quando era libera da impegni da lavoro, alla Callas piaceva girare per i negozi e fare acquisti. Non si sottraeva alle occhiate della gente e se qualche sconosciuto la salutava rispondeva con molta familiarità.
La cantante spesso alla sera pranzava al Biffi. Il vecchio proprietario, il signor Biffi, anche a locale pieno, teneva sempre tre tavoli riservati: uno, all’angolo destro entrando, era per Ghiringhelli; l’altro, a sinistra, alle spalle della vetrata che divide il bar dal restaurant, per la Callas; e uno in fondo, nella sala grande, ben protetto dalla curiosità degli altri avventori, era destinato a Missiroli, direttore del “Corriere della Sera”. Andassero o non andassero, i tavoli era sempre tenuti a disposizione. Come il Cambio di Torino conservava il posto fisso per Cavour, il Biffi Scala riservava tre tavoli per i suoi ospiti di prestigio (fatte, s’intende, le dovute proporzioni). Per il locale era una specie di privilegio, come per quelle ditte che si fregiavano del titolo “fornitore della Real Casa”. La presenza della Callas, di Missiroli e di Ghiringhelli, anche se i primi due non erano clienti assidui, costituiva per il signor Biffi una distinzione di quel genere.
L’unico frequentatore puntuale di tutte le sere alle 8, era Ghiringhelli, igienista scrupoloso e obbediente ai consigli dei medici. Missiroli si alternava tra Biffi, Savini e Santa Lucia. Le sere in cui Missiroli, entrando, vedeva la Callas al suo tavolo, accennava un inchino e passava via. La Callas ringraziava con un piccolo, riguardoso sorriso. Missiroli incuteva soggezione. Questo signore esile, dallo sguardo assorto, dal cranio calvo e lucido, timido fino all’inverosimile, incuriosiva la cantante. Voleva conoscerlo. Espresse tale desiderio a Ghiringhelli, che disse: “Combinerò io l’incontro”. E’ a questo punto che, nella persona di Missiroli, entra in scena l’outsider. Missiroli aveva l’abitudine di far telefonare al ristorante, dalla segreteria del “Corriere”, perché gli preparassero i quadrucci in brodo. A mezzanotte, usciva per andare a cena, facendo poi ritorno in via Solferino per leggere le ultime bozze e per dare il via, alle due, alla chiusura delle pagine. Venti minuti dopo, arrivavano le prime copie fresche di stampa.
Una sera Ghiringhelli fece tardi a bella posta, aspettò Missiroli e l’invitò al suo tavolo. Il piano riuscì alla perfezione. Missiroli voleva bene a Ghiringhelli per l’entusiasmo con cui si dedicava alla Scala. Non si vedevano molto a causa degli orari differenti: si incontravano nelle grandi festività a pranzo dai Nodari, grande nome dell’industria milanese.
Improvvisamente apparve la Callas. Entrava bella, alta, un po’ rigida, magra, quasi tagliente. Ghiringhelli esclamò: “Ah! La Callas!” e si alzò. Si alzò anche Missiroli. Ghiringhelli invitò la cantante con un gesto. La Callas si avvicinò. Tutto appariva naturale. Era appena finita una prova e la Callas arrivava per pranzare. Fu un incontro degno del Settecento, come quando i grandi prelati s’inchinavano alle regine. La Callas, che sulla scena era stata regina, imperatrice, sacerdotessa e maga, quella sera recitò la sua parte. Missiroli, diafano nel suo completo di grisaglia grigio, leggermente curvo, la calvizie smagliante, prese la mano della Callas e la strinse con le sue dita sottili e nervose, accogliendola con il famoso verso di Virgilio: Incessu patuit dea.
“Che vuol dire?” disse Ghiringhelli divertito per animare l’approccio. “Vuol dire” rispose Missiroli, alludendo all’ingresso della Callas “che col suo passo si è rivelata dea.” La donna che veniva definita “metà tigre, metà strega”, quella sera divenne mansueta, impacciata, ma sicuramente incantata. La conversazioen fu brillante, talvolta frivola, spesso sostanziosa. Gli aneddoti e gli aforismi missiroliani colpivano la Callas come frecce. L’originalità dell’uomo, la sua cultura, il suo gusto, la chiarezza dei suoi pensieri l’affascinavano. La Callas ascoltava, chiedeva. Aveva un’espressione nuova, curiosa. Parlatrice anche lei, sicura, senza complessi, schietta, quella sera desiderava solo di sapere. I suoi gesti erano vivaci: si notavano i polsi gentili e le mani lunghe, tenere e forti. A un certo punto Missiroli guardò l’orologio. La Callas con improvvisa confidenza gli toccò la mano e gli disse: “Un quarto d’ora ancora”. Il fascino di Missiroli l’aveva conquistata. Ma anche Missiroli era stato sedotto. Nell’ora tarda, in quella sorta di “giardino dei ciliegi”, vagavano angelici pensieri. Da quel momento anche per il direttore del “Corriere” la Callas divenne “la Maria”. Il quarto d’ora era passato: la Callas accompagnò Missiroli in via Solferino, e l amacchina di Missiroli riportò la Callas alla sua casa, in via Buonarroti 40.
Gaetano Afeltra, Famosi a modo loro, Fabbri Editori – Corriere della Sera, Milano, 1995 [1988], pp. 53-55.
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Manlio Cancogni alle Giubbe Rosse
Il famoso caffè fiorentino delle Giubbe Rosse potrebbe dare il titolo a un intero (e forse a più di uno) capitolo della poesia e della cultura italiane del Novecento. Ne documento l’importanza come luogo d’incontro (primo, naturalmente) dando la parola allo scrittore Manlio Cancogni (Bologna 1916), del quale riporto alcuni estratti dal suo articolo (1992) in cui racconta con dovizia di dettaglio e con spiccato gusto dell’aneddoto il primo incontro di non pochi poeti ed artisti della Firenze degli anni Trenta. Si va dall’incontro tra il pittore Ottone Rosai ed Eugenio Montale (autopresentazione), a quello (fortuito) tra Leone Traverso (Bagnoli di Sopra, Padova 1910 – Urbino, Pesaro 1968) e Tommaso Landolfi (Pico, Frosinone 1908 – Roma 1979), per finire con l’incontro (fortuito) tra questi ultimi e Oreste Macrì (Maglie, Lecce 1913 – Firenze 1998), il futuro critico-teorico dell’ermetismo appena giunto dalla nativa Maglie. Alle tipologie su indicate si sovrappone quella dell’incontro-convegno.
Ottone Rosai – Eugenio Montale
Una mano sulla spalla
La storia dell’amicizia di Rosai con i solariani merita d’essere raccontata. Al tempo del “Selvaggio”, Rosai era amico di Maccari, frequentava il Paszkowski e trovava ridicoli quei signori che entravano nel caffè di fronte scivolando silenziosi fra i tavolini. Qualche volta passando davanti alle Giubbe in compagnia di un amico si li era fatti indicare. “Quello grosso che somiglia a Hitler, chi è?”. “E’ Gadda. Scrive dei romanzi”. “E quello col viso rosa e i capelli biondi?”. “E’ Bonsanti. Scrive anche lui romanzi”. “E quello che si sta stuzzicando il naso?”. “E’ Montale”. “O che fa?”. “E’ un poeta. Ha scritto Ossi di seppia“. “Gli ossi di che?”. Rosai rideva. Gli pareva strano che quell’uomo dall’aria dimessa un po’ goffa, fosse un fratello di Carducci, di Pascoli e di D’Annunzio.
Una sera trovandosi nella redazione dell'”Universale” (il giornale di Berto Ricci, propugnatore d’un fascismo di sinistra che avrebbe tratto in inganno molti giovani sinceramente desiderosi di un rinnovamento della società e della cultura italiane) si sorprese a ricordare l’immagine del poeta intravisto nella penombra del caffè. In pochi minuti, scrivendo a matita, tirò giù un articoletto dall’ironia plebea che consegnò, senza rileggere, all’amico direttore.
Quando l’articolo apparve col titolo Il poeta pitale, Romano Bilenchi amico del “Selvaggio” e di Rosai, se la prese col pittore. “Che t’è saltato in testa?” gli disse. “Quello è il più grande poeta italiano vivente”. Rosai rimase interdetto. “Avresti dovuto dirmelo prima”, fece.
Era sinceramente costernato, e un giorno, in via del Corso, attese che Montale passasse e gli andò risolutamente incontro a chiedergli scusa. Montale vedendosi davanti quel gigante dal viso contratto che agitava le mani grosse e nodose, non sapeva che cosa rispondere. Balbettava parole incomprensibili e lanciava intorno occhiate inquiete. Montale rispondeva con un sorriso imbarazzato al suo saluto, poi i due uomini tacevano. Montale fumava una nazionale dietro l’altra, giocherellava col manico della tazzina; Rosai lo guardava, intento, con gli occhi inteneriti. “Tu sei un gran poeta”, gli diceva battendogli una mano sulla spalla.
In seguito, quell’amicizia si sarebbe consolidata.
Leone Traverso – Tommaso Landolfi
Sul Lungarno
Leone Traverso e Tommaso Landolfi s’erano incontrati la prima volta sul Lungarno, di notte. Forse s’erano già visti all’università (studiavano tutti e due lettere) o al caffè San Marco, mai avevano prestato l’attenzione l’uno all’altro.
La loro amicizia cominciò con una commedia. Traverso camminava lungo la spalletta del fiume discorrendo con una collega dell’università. Landolfi gli veniva incontro col bavero del cappotto nero tirato fino al mento. Quando s’incrociarono, Traverso udì quello sconosciuto che dopo avergli lanciato un’occhiata tragica, da eroe di melodramma, borbottava tra sé, con voce stranamente accorata: “Quelli parlano perché hanno mangiato”
Traverso stette subito al gioco. “Misero…”, fece, “devo credere che tu non abbia nemmeno una lira per la zuppa?”. “No, signore,” rispose Landolfi fermandosi a sua volta e girandosi con dignitosa lentezza, “non ho nulla perché ho perso tutto…”. “E come può dirsi un simile triste caso?”. “Sappia signore, che ho giocato tutti i miei averi…”.
Da quella sera i due cominciarono ad uscire sempre insieme.
Oreste Macrì – detti
Tra due litiganti
Se Landolfi e Traverso litigavano, il che accadeva spesso, continuavano a uscire insieme senza rivolgersi la parola. Anche in trattoria sedevano accanto, divisi da un posto vuoto, rigidi e silenziosi, attenti a non tradirsi nemmeno un istante. Un giorno si sedette in mezzo a loro un ragazzo (sembrava avesse smesso da poco i calzoni corti) piccolo e bruno, che vedevano per la prima volta. Subito ebbero la tentazione di coinvolgerlo nella loro commedia. “La prego” gli diceva Landolfi con aria molto severa, “di chiedere al signore che siede alla sua destra di non far troppo rumore con la bocca”. “Favorisca riferire”, replicava Traverso, “al signore che siede alla sua sinistra che il suo modo di soffiare nel cucchiaio m’è oltre modo sgradevole…”. Il nuovo venuto, superata la prima meraviglia, mostrò una grande prontezza di spirito e seppe così bene stare alla parte che i due, alla fine, decisero di adottarlo. Si chiamava Oreste Macrì, ed era arrivato proprio quella mattina a Firenze da Maglie, nell’estrema punta delle Puglie. La carrozza che aveva preso in piazza della stazione, lo aveva scaricato davanti a quella trattoria, nel cuore delle lettere fiorentine.
Manlio Cancogni, Quei frequentatori alle Giubbe Rosse, in “Nuova Antologia”, Ottobre-Dicembre 1992, pp. 229-237.
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Geno Pampaloni – Giaime Pintòr
In questo scritto del 1976, poi incluso nella sua autobiografia, il critico letterario Geno Pampaloni (Roma 1918) ricorda il primo incontro con Giaime Pintòr (Roma 1919 – Castelnuovo al Volturno 1943) nella camerata degli allievi ufficiali della caserma di Salerno. L’incontro fortuito, alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel 1939, segna per il critico un momento importante della sua vita, e soprattutto la presa di coscienza “di essere prigioniero” “di un paesaggio desolasto e sconvolto” (op. cit. in basso, p. 74), di cui Pintòr (o Pìntor) fu sensibilissimo interprete.
Allievi ufficiali letterati
Ho ricordo preciso, come di cosa che segna un momento di svolta nella mia vita, dell’articolo con cui Giaime Pintòr si congedò dai lettori di “Oggi”, il settimanale diretto da Benedetti e Pannunzio. Lo rivedo, Giaime, calvo e arguto, tanto più maturo della sua età (forse la giovinezza, i vent’anni, si rivelavano soltanto nella svelta eleganza con cui indossava la casacca di tela grigia che portavamo in caserma). E rivedo la sala buia e disardorna dello “spaccio” della caserma di Salerno, ove durante le ore morte di fine pomeriggio ci rifugiavamo a scrivere. Teneva su “Oggi” una rubrica, “Atlante”, di commento culturale e, nei limiti allora possibili, criptopolitico, firmando “Mercutio”. Ad un certo punto, verso la fine di agosto (del 1939, alla vigilia dello scoppio della guerra e della seconda finis Europae) si accorse che quel raffinato esercizio di chiaroscuro non gli bastava più, e decise d’interromperlo.
Eravamo capitati accanto (nel corso allievi ufficiali accelerato, concesso agli iscritti ai Guf), nelle prime due brande della camerata a sinistra entrando. “Sono Giaime Pintòr”, mi disse presentandosi, “o anche Pìntor, come molti dicono. Vivo a Roma ma sono sardo. Faccio Lettere”. Aveva un sorriso accattivante, reso più prezioso da un sospetto di distaccata ironia. Quasi del tutto calvo, pronunciato naso aristocratico, zigomi forti, incarnato bruno; occhi vivacissimi, di una benevola ma vigile curiosità; e le mani magre, sottili, direi impazienti, sempre in movimento, quasi accennassero al personale alfabeto di un ininterrotto discorso con gli altri. Aveva il gusto, e il dono naturale, dell’amicizia; un gusto e un dono, peraltro, controllati da una misura illuministica; le amicizie in cui si trovava a suo agio erano amicizie per dir così culturali, non limitate al semplice impulso del sentimento. La nostra trovò infatti conferma e garanzia non appena seppe che anch’io studiavo Lettere, e soprattutto che venivo dalla Normale di Pisa, ove era stato convittore, se non ricordo male, anche suo zio Fortunato, bibliotecario del Senato, al quale egli era molto legato.
Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie, Garzanti, Milano 1992.
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Federico Zeri – Bernard Berenson
Federico Zeri (Roma 1921 – ivi 1998) racconta il primo incontro con Bernard Berenson, soprannominato “Il Bibi”. L’incontro avviene nella ricca residenza di campagna del Berenson, I Tatti, all’incirca nel 1946; e segna per il giovane critico d’arte l’inizio della frequentazione di un’altra cote rispetto a quella rappresentata dal Longhi. Qualche pagina prima nella sua autobiografia Zeri racconta il suo primo incontro con Roberto Longhi che riporto in nota[8]. Del Berenson e del Longhi Zeri traccia due ritratti (impietoso quello del Longhi) che ne definiscono e limitano gli insegnamenti[9]. Si noti come, dinanzi al giovane allievo, entrambi fingono qualcosa: Longhi si spaccia per “il signor Saibene”, Berenson finge di non conoscere l’italiano per meglio dominare il colloquio (sic!). La tipologia è quella della visita.
Il Bibi
Mentre frequentavo ancora Toesca ero regolarmente invitato dai Longhi a Firenze. Ci andavo con delle valigie gonfie di fotografie, sulle quali io e Longhi discutevamo e lavoravamo. Furono visite durante le quali appresi moltissimo e delle quali sono grato a Longhi. Toesca lo considerava una specie di canaglia, benché geniale, e si rifiutava di frequentarlo, ma non era contrario a che io di quando in quando lo incontrassi.
Fu in occasione di uno di questi viaggi a Firenze che Toesca mi scrisse una lettera di presentazione per il più famoso degli storici dell’arte della prima metà del nostro secolo. Bernard Berenson, che regnava da sovrano nella sua principesca dimora, I Tatti, e con il quale Longhi aveva avuto una relazione piuttosto burrascosa. Al mio arrivo a Firenze comunicai a Longhi la lettera di Toesca ed egli, con stupefacente generosità, mi propose di andare da Berenson usando la bicicletta di Anna Banti. Fu così che conobbi “Il Bibi”.
Quella giornata è rimasta scolpita nella mia memoria nei suoi minimi dettagli. Già fui stupefatto dalle modalità dell’appuntamento: telefonai, dissi della mia lettera di presentazione e mi venne risposto che il Maestro acconsentiva a ricevermi fra le ore 16.32 e le 16.54, dati i suoi molti impegni. Arrivai a I Tatti, dove fui colpito dall’arredamento eccezionale di cui tutti parlavano e del quale conoscevo molti elementi: quando però vi si entrava c’era da perdere il respiro. L’atmosfera era caratterizzata da un silenzio sepolcrale… Esattamente alle 16.32, dopo aver atteso vicino a un Trittico del Sassetta, fui introdotto nel sancta sanctorum. Riconobbi immediatamente il quadro sulla parete davanti a Berenson, quadro sulle cui riproduzioni avevo tante volte meditato: la meravigliosa Madonna col Bambino di Domenico Veneziano. Invece mi ci volle un po’ di tempo per identificare lo strano oggetto sul quale Berenson era seduto: sulla sedia rinascimentale si trovava infatti una bizzarra forma circolare, ricoperta di antico velluto azzurro pallido, che solo più tardi riconobbi per una ciambella, richiesta da alcuni dolori localizzati in luoghi impropri.
Ci mettemmo a parlare. Bibi parlava un italiano stentato, come lo parlano gli stranieri che non sono perfettamente padroni di una lingua. Ma dopo qualche istante mi resi conto che, al contrario, egli era padrone di tutte le sfumature della nostra lingua: semplicemente faceva finta di non conoscerla, pronunciava degli errori fabbricati. Era un modo per poter essere il padrone dello scambio verbale. A un certo momento si interruppe per domandarmi: “Lei è ebreo?” Al che risposi di no. Al che egli proseguì: “Allora lei è ariano?” (come si sa, si era a poca distanza dalla scoperta di Auschwitz e degli orrori dell’antisemitismo nazista). “No”, gli risposi, “io sono siriano”, e questa battuta mise fine all’interrogatorio sullo spinoso soggetto.
Federico Zeri, Confesso che ho sbagliato. Ricordi autobiografici, Longanesi & C., Milano 1995, pp. 32-33.
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Fernanda Pivano – Ezra Pound
Il libro di Fernanda Pivano (Genova 1917) Amici scrittori con sottotitolo Quarant’anni di incontri e scoperte con gli autori americani è una vera e propria autobiografia intellettuale della scrittrice, una miniera di incontri. Riporto soltanto il racconto del primo incontro con il poeta americano Ezra Pound (Hailey, Idaho 1885 – Venezia, 1972) avvenuto nell’ospedale psichiatrico St. Elizabeth, a Washington, nel 1956. La Pivano, su suggerimento di Hernest Hemingway, si reca dal grande Ezra Pound e si trova di fronte un nostalgico del fascismo (di qui l’equivoco da parte di Pound sul senso della visita della scrittrice italiana) che il tempo ha rinchiuso in una corazza di fanatismo ideologico nel quale è lecito sospettare una sorta di autodifesa psicologica. L’incontro, incorniciato in un curioso caso di “spionaggio”, peraltro senza conseguenze di rilievo, rientra nella tipologia della visita.
Nostalgie
Hemingway parlava tranquillo, sentendosi al sicuro dalle indiscrezioni e dalla malevolenza. Mi raccontava di sua madre, dei suoi figli, di Fitzgerald, di Geltrude Stein. Con Ezra Pound aveva giocato a tennis negli anni Venti e gli aveva insegnato la boxe. Era un grande poeta, mi disse, e un grandissimo uomo di cultura. Dovevo assolutamente andare a conoscerlo.
Così quando andai la prima volta in America chiesi al dipartimento di Stato di combinarmi un incontro con Ezra Pound, senza sospettare che mi sarei trovata protagonista di una specie di servizio di spionaggio.
Mi organizzarono un appuntamento all’ospedale St. Elizabeth, a Washington, dove era ricoverato il grande poeta e controverso economista dal quale ero attratta per la sua storia letteraria e respinta per le vicende politiche.
Si sapeva delle centocinquanta trasmissioni realizzate per la radio fascista in piena guerra e si sapeva della spietata punizione subita a Coltano, si sapeva delle petizioni firmate da tutti gli intellettuali d’America per farlo uscire dal manicomio. Dall’interrogatorio al quale fui sottoposta al ritorno dal St. Elizabeth mi resi conto che volevano da me, italiana, una testimonianza sulle posizioni politiche del poeta: in altre parole se era ancora fascista e se la sua pazzia era soltanto un pretesto per evitare pene più gravi.
Per fortuna, di questa mia funzione venni informata dopo la visita, sicché andai lì trepidante per l’emozione di incontrare il maestro di Hemingway e soffocando in nome della poesia le mie idee antifasciste. Lo trovai in un minuscolo padiglione e Pound mi accolse con felicità, forse perché ero italiana, forse perché lo avevo avvertito della benevolenza di cui mi circondava Hemingway. Indossava un grosso pullover e cominciò subito a passeggiare nervosamente nel giardino dove si aggiravano gli scoiattoli, spettacolo consueto nei campus americani ma per me ancora insolito, Pound aveva le tasche piene di noccioline e le gettava agli scoiattoli da lontano per attirarli e insieme per spaventarli.
La moglie – Dorothy Shakespear, alla quale era permesso di restare con lui fino al tramonto – stava facendo una lunga sciarpa di cui le biografie non recano traccia e che aveva l’aria di essere una specie di di tela di Penelope, di quelle che non finiscono mai per offrire un pretesto di lavoro per l’indomani. Nelle tre ore in cui rimasi con loro parlò soltanto per chiedere al marito se aveva freddo, se aveva sete, se aveva fame, con devota pazienza e un vago distacco.
Pound invece parlò continuamente, senza interruzioni, mescolando l’italiano all’americano e al francese, con gli occhi penetranti come due lame e una specie di ansia che non lo abbandonò mai. Mi raccontò di Hemingway e di Alice B. Toklas per mettermi a mio agio e conquistarmi, mi chiese di Rapallo convinto che fosse ancora un villaggio a dimensione umana, alzò la voce per tessere le lodi dell’Accademia Chigiana, disse che desiderava molto ritornare a Venezia e a Sant’Ambrogio.
Che la sua mente funzionava alla perfezione era evidente. Ma d’improvviso mi si avvicinò con aria cospiratoria e mi diede un foglietto verde dove erano scarabocchiati dei nomi e degli indirizzi. Mi disse che quelli erano suoi amici, persone fidate, potevo andarli a trovare a nome suo. Gli occhi che avevano guidato le più grandi rivoluzioni poetiche del nostro secolo diventarono stretti come due punte di spillo e, annichilita, mi resi conto che Pound mi riteneva una nostalgica. Mi raccomandò di non perdere gli indirizzi, di scrivere a Dorothy appena avessi incontrato i suoi amici; che naturalmente non incontrai mai.
Di questi indirizzi non parlai al dipartimento di Stato quando mi interrogarono. Dissi che Dorothy era una legal guardian, una tutrice, deliziosa, che Pound era lucidissimo, che gli intellettuali italiani avrebbero certamente vinto qualsiasi rancore politico pur di riavere vicino questo colossale uomo di cultura.
Ma quando Pound, finalmente liberato, arrivò a Napoli, prima dello sbarco a Genova, si rivolse ai giornalisti con il saluto fascista e affermò che i tredici anni passati al St. Elizabeth erano stati un martirio anche più grave di quello subito nei sei mesi a Coltano.
Fernana Pivano, Amici scrittori, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1997 [1995], pp. 58-61.
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Maria Corti – Gianfranco Contini
Il critico letterario Cesare Segre presenta un’intimidita Maria Corti (Milano 1915) al già famoso Gianfranco Contini. La Corti ricorda la comicità del primo incontro, avvenuto a Roma nel 1952 a casa di Segre, e in fondo si consola della sua goffaggine pensando al dotto cartoncino di Contini che da Friburgo si augura di rivederla ancora. Il contesto narrativo di questo breve racconto è un’autobiografia sotto forma di intervista rilasciata a Cristina Nesi nel 1995.
Un’allieva impacciata e maldestra
L’incontro nel 1952, a pensarlo ora, mi pare nei miei riguardi abbastanza comico. Ero appena guarita dall’influenza e non uscivo ancora di casa. Contini, giunto da Friburgo, era a Milano in casa di Cesare Segre, collaboratore dei due volumi continiani Poeti del Duecento, che sarebbero usciti dalla Ricciardi nel 1960. Telefonata di Segre: “Se sei guarita, prendi un taxi e vieni a conoscere Contini”. Così feci. Entrando nello studio di Segre ero alquanto emozionata, sicché mi impigliai col piede nel filo elettrico di una lampada della scrivania che si rovesciò proprio in direzione di Contini, al che conturbata urtai col gomito una pila di libri facendoli cadere tutti a terra. Contini pareva divertito. Segre un po’ interdetto. Qualche giorno dopo ricevetti da Friburgo un cartoncino in busta, che naturalmente conservo, sul quale in scrittura minutissima si leggeva: “Spero che l’uscita superrogatoria sia stata innocua. Mi auguro dietro il pronao di ieri di costruire la navata”.
Maria Corti, Dialogo in pubblico. Intervista di Cristina Nesi, Rizzoli, Milano 1995, pp. 71-72.
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Maria Corti – Carlo Emilio Gadda
In questo secondo brano dell’intervista a Cristina Nesi, Maria Corti rievoca il primo incontro con Carlo Emilio Gadda, avvenuto nella casa dello scrittore a Roma nell’ anno 1971. Nessuna impressione, nessuna descrizione meticolosa, come ci saremmo attesi, ma solo il profilo appena abbozzato di un signore in poltrona che ricostruisce la storia d’ogni acquisto librario. Il fatto è che la Corti è tutta presa da un altro più importante ricordo: la perdita dei nastri in cui il collega Angelo Stella aveva registrato “novanta minuti di intervento dello scrittore”. Se si considera che l’incontro è avvenuto due anni prima della morte di Gadda, non si può non pensare con rammarico che quella rassegna di libri abbia rappresentato per il gran Lombardo anche un ultimo congedo da essi. La tipologia è quella della visita.
Un signore in poltrona
Devo dire che ho conosciuto personalmente Carlo Emilio Gadda tardi, ai tempi della neoavanguardia. Mi scrisse che gli era molto piaciuto il mio articolo Le orecchie della “neocritica”, uscito nel 1967 in “Strumenti critici”, dopo di che lo incontrai a Roma. Un vero contatto si è creato piuttosto tardi, nel 1971. La ragione dell’incontro fu questa: l’amico Roscioni, a cui spesso mi rivolgevo affinché mi desse notizie sulla biblioteca di Gadda, utili per le tesi di laurea dei miei allievi, notizie riguardanti i libri di mineralogia posseduti da Gadda o i testi degli Scapigliati o i Luigi di Francia, un giorno mi suggerì di catalogare in qualche modo la biblioteca di Gadda. Allora al mio antico allievo e poi giovane collega Angelo Stella, che avevo pregato di accompagnarmi a Roma e aiutarmi, venne la felice idea di portare con sé un registratore.
La cosa riuscì eccezionalmente utile perché, mentre noi registravamo titoli, edizioni, libri postillati, Gadda assisteva da una poltrona e commentava la lettura, l’origine dell’acquisto, le donazioni materne, esprimendo alcuni giudizi suggestivi. Ritornati a Pavia ci siamo resi conto che sui nastri, oltre alla descrizione dei libri posseduti da Gadda, c’erano novanta minuti di intervento dello scrittore.
A questo punto è nato un giallo: […] tre dei quattro nastri scomparvero dal fondo. Non era mai successo niente di simile.
Maria Corti, Dialogo in pubblico. Intervista di Cristina Nesi, Rizzoli, Milano, 1995, pp. 28-29.
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Carlo Bo – Lalla Romano
Nella rievocazione autobiografica dell’ottuagenario Carlo Bo (Sestri Levante, Genova 1911) rivivono i luoghi di ritrovo degli artisti nella Milano del secondo dopoguerra, il caffè Craja, le Tre Marie, il Savini, già frequentati nell’anteguerra dall’intellettualità cittadina (e non solo). Ritornare in quei luoghi alla fine della seconda guerra mondiale, epoca alla quale si riferisce questo ricordo, significa riprendere un discorso interrotto, riallacciare antichi legami, fare nuovi incontri, insomma, ricominciare a vivere. Tutto questo racconta nel 1996 Carlo Bo quando rivede nella memoria Lalla Romano, una signora, una poetessa, “una professoressa che si intendeva di letteratura”, mentre compare inaspettatamente una sera nel piccolissimo bar di Via San Paolo. La tipologia è quella dell’incontro-convegno.
Con pochi amici
Ripenso alla storia della mia amicizia, lunga amicizia, con Lalla Romano e in base a queste ricorrenti rievocazioni di un tempo ormai lontano e perduto, riparto sempre da una prima immagine: dal nostro primo incontro. Erano gli anni del dopoguerra, non ricordo esattamente la data, e alla sera ci si ritrovava con pochi amici, Solmi, Sereni, Ferrata e pochi altri, in un caffè di Via San Paolo. Un locale piccolissimo, una specie di bar che aveva dietro una saletta. Tutto in un palazzo ancora diroccato e privo di qualsiasi comodità. Lo avevano scoperto Solmi e Sereni, memori di un’antica abitudine d’anteguerra, quando scrittori e artisti usavano ritrovarsi al caffè Craja o più tardi alle Tre Marie e alla sera al Savini. Ed è lì che una sera vidi comparire una signora di cui conoscevo soltanto vagamente l’esistenza letteraria per aver letto il suo primo libro di poesie. Era entrata in quel piccolo circolo più come una professoressa che si interessava di letteratura, questo anche perché ignoravamo tutto del suo passato torinese e quindi ci mancava tutta una prima parte della sua mirabile carriera.
Carlo Bo, Lalla, voce spavalda del nostro secolo, in “Corriere della Sera”, martedì 5 novembre 1996.
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Giovanni Macchia – Elena Croce
Il critico letterario Giovanni Macchia (Trani, Bari 1912) nel necrologio di Elena Croce (Napoli 1915 – Roma 1996) ci fornisce un ritratto psicologico della figlia di don Benedetto, conosciuta nel 1944 a Roma. La testimonianza di Macchia sembra alludere alla fine di un’intera epoca storica, l’Italia giolittiana, di cui Croce e Casati erano stati protagonisti. Il critico significativamente inserisce nel necrologio il compianto da parte di Elena del figlio di Alessandro Casati, Alfonso. Ed è sempre Macchia a suggerire l’equazione: Elena sta ad Alfonso come don Benedetto sta ad Alessandro Casati. Come dire, la fine di un ciclo storico è anche nella morte dei figli di coloro che ne furono i protagonisti. La tipologia dell’incontro è quella della visita.
Come se tutto fosse distrutto…
Ho conosciuto Elena Croce a Roma allora ed è difficile che io possa dimenticarlo. Viveva nella sua luminosa casa di via San Nicola dei Cesarini, di fronte al teatro Argentina, nel pieno centro di Roma. E la prima volta che varcai la soglia della sua casa era un mezzogiorno assolato dell’estate del 1944. Mi accompagnava un amico, ex allievo dell’Università di Pisa, Antonio Russi. E mi trovai di fronte una signora attraente, snella ed elegante, dalla voce squillante, con grandi sorrisi, che improvvisamente scomparivano su un volto un po’ triste. In quel giorno caldo, già estivo, non portava calza. Notai che aveva bellissimi piedi. Ma durante la conversazione, in cui si parlò di molte cose, e anche di scrittori, venne fuori il nome di Rilke che mi parve ella non amasse, dando pienamente ragione a suo padre. Ma subito dopo il suo volto si oscurò. Ci rivelò a bassa voce una notizia che l’aveva sconvolta e che forse fin allora aveva tenuta nascosta, come le cose profonde che non devono venir annunciate nel corso di una conversazione, a una persona conosciuta solo pochi minuti prima. Si trattava della morte di Alfonso Casati, giovane figlio di Alessandro Casati, forse un suo amico di giovinezza. Rimanemmo in silenzio per pochi secondi, senza interromperlo con parole di circostanza. E più di una volta, nella mia lunga amicizia con Elena, ho assistito a quei silenzi improvvisi, in cui pareva s’immergesse, senza più badare alle persone e alle cose che aveva d’intorno, come se tutto fosse distrutto.
Giovanni Macchia, Elena. L’impegnata di casa Croce, in “Corriere della Sera”, giovedì 21 marzo 1996, p. 31.
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Gianni Celati – Italo Calvino
In questa lettera ai curatori della rivista “Riga 14” datata da Brighton, novembre 1997, Gianni Celati (Sondrio 1937) ricorda quando, poco più che trentenne, incontrò per la prima volta Italo Calvino ad Urbino nell’estate del 1968. “Nessuna data può meglio segnare l’incontro tra i due”, scrive Marco Belpoliti (cit. in basso, p. 27). Malgrado la rivista mancata e la diversità di vedute, è l’inizio di una feconda collaborazione.
Una rivista mancata
Nell’estate del 1968, a Urbino c’era un convegno con molti nomi celebri. Io ero nei paraggi e ci sono andato per incontrare Calvino, che era tra gli invitati. Per tre giorni abbiamo parlato quasi ininterrottamente e lui era ancora eccitato da quello che aveva visto durante le giornate di maggio a Parigi. Ne parlava con straordinario entusiasmo; diceva che era andato in giro per le strade con un senso di liberazione; e mi raccontava che gli psicoanalisti parigini durante quelle giornate avevano perso tutta la clientela; e infine mi spiegava la sua sensazione di essersi levato dei pesi di dosso, e che adesso si sentiva di “voltare pagina”.
Poi l’ultimo giorno mi ha spiegato che l’editore Einaudi gli aveva proposto di riattivare la rivista diretta da Elio Vittorini e rimasta sospesa dopo la sua morte. Ma lui aveva in mente di fare una cosa molto diversa, con un gruppo di persone fuori dai giri ufficiali e orientate verso varie discipline. Per questo aveva pensato di avviare la cosa rivolgendosi a me, Guido Neri e altri. Io naturalmente ero emozionato e confuso dalla sua proposta; ma poi quell’estate sono andato a trovarlo a Cinquale, e ho cominciato a conoscerlo meglio”.
Gianni Celati, Il progetto “Alì Babà”, trent’anni dopo. Lettera di Gianni Celati, in “Riga”, n. 14, 1998, la rivista è un numero monografico interamente dedicato ad “Alì Babà” progetto di una rivista 1968-1972, a cura di Mario Barenghi e Marco Belpoliti, Editore Marsilio y Marcos, Milano, pp. 313-314.
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Marcello Sorgi – Giulio Einaudi
E’ il necrologio di Giulio Einaudi, pubblicato dal giornalista Marcello Sorgi (Palermo, 1955) sulla “La Stampa” (da lui diretta) il giorno dopo la morte dell’editore torinese avvenuta il 5 aprile 1999. L’incontro tra Einaudi e Sorgi in casa di quest’ultimo segue di poco l’intervista telefonica rilasciata al giornalista dall’editore sui tentativi secessionistici della Lega Nord nel settembre 1996. Un libro che Einaudi prende a caso dagli scaffali di casa Sorgi riporta uomini e cose al tempo passato, al “caso Dolci”[10], del quale il padre del giornalista, Nino Sorgi, era stato avvocato difensore nel 1956, quando nessuno mai si sarebbe sognato di richiedere un’intervista sul tema della secessione ed anzi le migliori energie torinesi scendevano in campo per difendere gli ultimi braccianti del Sud. La tipologia è quella dell’incontro-convegno.
Un grande italiano
Giulio Einaudi l’ho conosciuto tardi, era già un uomo anziano. Gli chiesi un’intervista sulla prima manifestazione della Lega Nord lungo il Po per la secessione. Lui prese posizione contro, duramente. E nel titolo, mi venne di scrivere: “Einaudi, un grande italiano…”. Appena uscì l’intervista, Einaudi mi telefonò. E mi chiese: “Lei è sicuro che io sia un grande italiano?”. Lì per lì rimasi sorpreso. Un titolo è sempre un titolo, ma non mi sembrava di aver esagerato. Ci scherzammo su, decidemmo di incontrarci. E qualche sera dopo venne a pranzo a casa.
Ricordo che rimase un po’ in piedi a guardare gli scaffali della libreria. Poi si fermò su una vecchia edizione Einaudi del ’56, intitolata “Processo all’articolo 4”. Era una raccolta di articoli, lettere, interventi, dedicati al “caso Dolci”.
Il 2 febbraio del 1956, il sociologo Danilo Dolci aveva organizzato a Partinico una manifestazione di contadini che chiedevano lavoro. Furono arrestati per occupazione abusiva del suolo e resistenza a pubblico ufficiale. In una Sicilia che i giornali del tempo definivano eloquentemente “Africa in casa” la condotta di Dolci fu considerata “indizio manifesto di spiccata capacità a delinquere”.
Di lì nacque il caso e il libro che raccoglieva gli interventi di intellettuali, politici e giornalisti che si mobilitarono: Norberto Bobbio, Piero Calamandrei, Vittorio Gorresio, Lucio Lombardo Radice, Elio Vittorini, nonché mio padre, Nino Sorgi, che fu l’avvocato di Dolci al processo che ne seguì.
Bobbio, Gorresio, La Sicilia, La Stampa, e il modo particolare della famiglia Einaudi, della casa editrice e in definitiva di Torino di prender parte e avere un ruolo civile nella comunità italiana: con Einaudi quella sera parlammo di questo. Non credo di aver sbagliato titolo, gli dissi salutandolo. E lui ne sorrise.
Marcello Sorgi, Torino e un grande italiano, in “La Stampa”, martedì 6 aprile 1999, p. 1.
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Goffredo Fofi – Armando Borghi
Nella sua autobiografia dal titolo Le nozze coi fichi secchi, il critico Goffredo Fofi (Gubbio, 1937) rievoca un episodio indimenticabile della sua giovinezza, lo schiaffo datogli dal vecchio anarchico Armando Borghi, che lo punì dopo averlo sorpreso mentre fingeva di cantare in coro l’inno dell’Internazionale. Solo i traditori e le spie, infatti, simulano in quel modo una conoscenza che non hanno. L’equivoco, subito dissipato, dà luogo all’incontro, ed è l’occasione di una nuova esperienza per il giovane critico.
Siamo a Roma, alla fine degli anni Cinquanta, nell’ambiente de “Il mondo”. La tipologia è quella dell’incontro-convegno.
Lo schiaffo dell’anarchico
Dopo la guerra, l’Internazionale la sia sentiva molto poco. E’ probabile che Togliatti la considerasse troppo “connotata”, e gli preferisse la più generica e nazionalpopolare Bandiera rossa, cantabile e, nei festival dell’Unità, perfino ballabile. Fatto sta che dell’Internazionale io sapevo la musica e non le parole, che nessuno mi aveva mai insegnato e che anzi mai avevo veramente sentito cantare. Questa mancanza mi valse una piccola mortificazione e un breve ma non dimenticabile incontro. “Il mondo”, il settimanale diretto da Pannunzio, aveva organizzato a Roma, al ridotto dell’Eliseo, attorno al ’58 o ’59 o ’60 le prime “lezioni sull’antifascismo”, poi imitate anche a Milano e Torino, utilissime ad accostare una generazione come la mia alla storia recente del Paese, vituperata e nascosta nel decennio democristiano. Vi erano dei testimoni e vi erano dei relatori, scelti nell’area ciellenistica. […]
Ero seduto vicino a un uomo di età avanzata, vivace e anzi irrequieto, di cui ignoravo il nome. Proprio quest’uomo si alzò, a lezione conclusa, e a voce alta, anzi molto alta, invitò tutti a levarsi in piedi e cantare in coro l’Internazionale. Sì, doveva essere l’ultima sera, l’ultima lezione. Tutti si alzarono e tutti cantarono l’Internazionale, e questo mi stupì molto, perché non credevo che i borghesi del “Mondo”, accusati di solito di snobismo, la sapessero e cantassero, e appresi solo dopo, da uno di loro, che prima del fascismo e prima della stessa Rivoluzione russa, l’Internazionale era considerata patrimonio comune, di tutti, finanche dei mazziniani. Tutti la cantarono, dunque… meno io che non la sapevo. E che vergognandomene fingevo di cantarla, muovendo a caso le labbra.
L’anziano signore irrequieto al mio fianco mi lanciò sguardi irati e di sbieco (era, mi pare, più basso di me), pur continuando a cantare con impegno e passione. Il mio disagio aumentò. Poi, quando l’inno terminò tra gli applausi, lo sconosciuto mi rifilò all’improvviso un ceffone, uno schiaffo non proprio sonoro, ma che bastò a farmi diventare rosso come un pomodoro. “Perché non hai cantato l’Internazionale?”, mi chiese indignato. E io, quasi balbettando, e con una mano alla guancia: “Perché non la so”. “E perché non la sai?”. “Perché nessuno me l’ha insegnata”. Si rabbonì, e mi trascinò fuori dal flusso degli uscenti, divertitissimi dalla scene specialmente i pochi che mi conoscevano, e scarabocchiò un indirizzo su un pezzo di carta dicendomi: “Vieni a trovarmi domani pomeriggio, e chiedi di Borghi”. Chi era? Di Armando Borghi, confesso, non sapevo nulla, ma qualcuno mi disse all’uscita che era un vecchio anarchico, con tutta una grande storia alle spalle.
Il giorno dopo mi recai incuriosito all’appuntamento, nella sede di non so più che. Ho creduto di ricordare che fosse la sede di “Umanità nuova”, il giornale che Borghi dirigeva; ma poi ho saputo che la sede non poteva essere quella. Fatto sta che Borghi mi accolse con espansiva cordialità, e anche con bene accetto paternalismo, e mi regalò libri e opuscoli a volontà. Tra questi c’era un libretto di canzoni che si apriva con il testo dell’Internazionale e conteneva molti testi di Pietro Gori. Mi regalò anche un libro uscito da poco, le sue memorie prefate da Salvemini e intitolate Mezzo secolo di anarchia, che ovviamente divorai.
Goffredo Fofi, Le nozze coi fichi secchi, L’Ancora, Napoli 1999, pp. 104-106.
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Gianni Riotta – Leonardo Sciascia
Nel decimo anniversario della scomparsa di Leonardo Sciascia (Racalmuto, Agrigento 1921 – Palermo 1989), Gianni Riotta racconta il primo incontro (cui seguirono altri due, che tralasciamo) con lo scrittore siciliano, avvenuto nel luglio del 1971 durante i suoi esami di maturità. La stretta di mano con cui Sciascia si complimenta col diciottenne futuro giornalista e scrittore ha il sapore di un’investitura. Per questo si trattò proprio di “un esame indimenticabile”. La tipologia è quella dell’incontro scolastico.
Una stretta di mano indimenticabile
Ho incontrato Leonardo Sciascia solo tre volte ma, per un gioco del caso, sempre quando la mia vita cambiava.
La prima volta durante il mio esame di maturità, nel luglio del 1971. Con il mio amico Gabriele Profita avevamo deciso di “saltare” la terza liceo, vale a dire ritirarci da scuola nella primavera della seconda liceo e presentarci da privatisti agli esami. Un azzardo: malgrado la riforma della maturità, i privatisti dovevano comunque essere interrogati su tutte le materie, come negli esami di una volta.
Un giorno dei micidiali esami “All’antica” aspettavo il mio turno fingendo di non essere intimidito: sarebbe stato inconcepibile, un riconoscimento alla “scuola borghese” che noi, ragazzi uguali a quelli di Vittorini nel Garofano rosso non ci saremmo mai perdonati. Il rischio c’era: i privatisti venivano falcidiati, mentre gli studenti “normali” passavano senza sudare.
Improvvisamente mi sentii chiamare. “Ma non è il mio turno,” dissi a Antonino Noto, nostro mitico “membro interno”, uno dei pochi filosofi che abbiano insegnato filosofia nei licei d’Italia. “Sì”, rispose impeccabile, “ma il giornale L’Ora ha mandato Leonardo Sciascia a seguire gli esami e mandiamo te, che hai una buona media. Tranquillo”.
L’esame fu tranquillo, come Noto voleva. Sciascia seguiva da dietro, seduto su una sedia, sghembo, vestito di lino chiaro, o almeno così mi sembrava di intravedere. Non ebbi modo di preoccuparmi di lui, ero concentrato sui miei “commissari”. Ma la sua presenza era lì. Interrogato su Pasolini, sulla questione meridionale, cercavo di ragionare, per non – massimo reato per uno studente palermitano aspirante intellettuale – “fare cattiva figura” davanti a Leonardo Sciascia.
Ad un tratto mi chiesero di astronomia, e lo stesso Sciascia mi fece una domanda: “Sa il nome dell’astronomo che scoprì da Palermo gli asteroidi di Giove?”. Era Piazzi, lo sapevo, mio padre mi aveva mostrato tante volte il suo osservatorio, sopra la più bella porta di Palermo. Non ci fu stupore, in nessuno: per i commissari avere Sciascia “collega” era gratificante. A me, il suo tono affabile distese i nervi, che dovevo fingere di non avere tesi. Per lui fu una domanda pacata, forse si sentì tornato insegnante, per un attimo. Lo scrittore in lino mi strinse la mano e fece gli auguri. Dopo di me era candidato un frate cappuccino, sessant’anni, in saio e sandali, accompagnato da una donna, silenziosa e nervosissima. Nel pomeriggio L’Ora pubblicò le foto del mio anziano, e bizzarro, compagno di esami. Sciascia lo scrutava intento, certo per capire che storia avessero dietro quel monaco e quella signora. Un esame indimenticabile. Sciasciano.
Gianni Riotta, Io, studente, giudicato da Sciascia, in Leonardo Sciascia – La memoria, il futuro. “Almanacco 1999”, Bompiani Milano 1999. La testimonianza di Riotta è riprodotta nella rivista “L’Esopo”, n. 77-78, marzo-giugno 1999, pp. 33-34 (da cui cito).
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Francesco Adorno – Manara Valgimigli
In viaggio per Milano sul treno “Bramante”, Francesco Adorno è incuriosito da un “gentile lettore”, l’avvocato Gian Carlo Rivolta, intento nella lettura di un libro di Manara Valgimigli, La mula di don Abbondio. Ma non è tanto questo l’incontro che importa. Un flashback riporta Adorno al passato remoto, un giorno d’un anno imprecisato della sua giovinezza nel quale fortuna e studio volle che incontrasse Manara Valgimigli, l’allievo del Carducci (si veda in questa raccolta l’incontro Valgimigli-Carducci), bibliotecario della Classense di Ravenna. Si noti lo stupore per l’incontro fortuito col Valgimigli, il piacere del conversare all’aria aperta con chi rappresenta un pezzo di storia letteraria italiana, sorseggiando un “serio” lambrusco in un’osteria del porto di Ravenna. E, dietro Valgimigli, Carducci!
“Valgimigli Valgimigli?”
In treno: sul “Bramante” diretto a Milano. Un signore di gentile aspetto legge, sereno, assorto, un libro di piccolo formato. Una sbirciata professionale, per amor di libro, ma anche per un’attenzione a quello che ora si legge. Sfugge la Val di Chiana. Il libro, una sorpresa: La mula di Don Abbondio di Manara Valgimigli.
Un ritrovato incontro: nella memoria vedo la Biblioteca Classense di Ravenna, molti e molti anni or sono, e là Manara Valgimigli. Non dico l’anno: nella fantasia è oggi.
L’incontro fu a causa di un altro libro: un manoscritto del Quattrocento, da me letto e trascritto, nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, il De libertate di Alamanno Rinuccini, composto all’indomani della congiura dei Pazzi (1478), quando Lorenzo de’ Medici trasformò definitivamente la res-publica fiorentina (oligarchica, ma sempre res-publica) in res-privata, in Signoria. A Firenze, le tensioni tra le fazioni opposte, tra l’oligarchia fiorentina e Cosimo il Vecchio, volto ad assumere il “primato” della Città, si erano sopite con il ritorno di Cosimo dall’esilio veneziano. Aveva detto Niccolò da Uzzano che, nel conflitto per assumere la “signoria”, meglio dell’aristocratico Rinaldo degli Albizi sarebbe stato Cosimo, ma aveva aggiunto: “che Dio guardi questa città che alcuno diventi principe” (da Machiavelli, Ist. flor., IV, 1433). Seppi che un codice di copia, di molte opere di Alamanno Rinuccini, un tempo appartenuto agli Strozzi, poi trafugato, era stato collocato alla Classense. Necessaria, prima di pubblicare il De libertate, una collazione.
Partendo da Firenze ad ora prestissima. Ravenna. La Classense: lo splendido edificio che fu il monastero eretto dai Camaldolesi di Classe, costretti a trasferirsi a Ravenna dopo il sacco francese del 1512. La persona che si occupava dei manoscritti e ne aveva la chiave era assente. Sembrò un viaggio inutile. Pochi, allora – anche ora -, i quattrini in tasca. Giovane, mi arrabbiai. Chiesi, con insistenza, del direttore. Forse dorme, mi dissero. E’ di là, abita in Classense. Il direttore venne. Un camice bianco da medico; un’ampia nuca, che mai scorderò. “Ha ragione”, mi disse, “provo a telefonare a casa dell’impiegato; forse è andato a caccia”. A caccia: la cosa mi apparve, allora, ancora, molto suggestiva. Avevo letto Per chi suona la campana di Ernest Hemingway: il partigiano spagnolo, inviato per una missione di guerra, e che invece si ferma a cacciare conigli e lepri: più che la guerra poté la poesia della caccia, tra le stoppie bruciate. Il direttore dice: “Pronto! Sono Valgimigli”. Parla, si mette d’accordo. Chiude. Lo guardo con meraviglia: “Scusi, ma Lei è Valgimigli Valgimigli?”. Tra parentesi e sottovoce: avevo letto e studiato i libri di Valgimigli, da Il nostro Carducci del 1935, ai suoi lavori sulla Poetica di Aristotele, alle sue traduzioni da Platone; ne avevo discusso con alcuni miei maestri, sia di greco sia di letteratura italiana, in polemica con alcuni aspetti crociani e più ancora gentiliani del Valgimigli. Ma certo splendido restava, per me, il carducciano “saper scrivere” di lui, vicino alla “forma” del mondo classico. Ebbene, per me, allora, Valgimigli era un “libro”, di là dall’essere persona viva. “Sì”, rispose, “sono Valgimigli Valgimigli”.
Per non farmi perdere tempo – le chiavi degli armadi dei manoscritti giunsero in ritardo – m’invitò a lavorare nel suo studio. Dopo aver insegnato letteratura greca a Messina, a Pisa e a Padova, direttore poi della Classense, allora, in biblioteca, Valgimigli preparava l’edizione dell’Epistolario del Carducci, ch’era stato, a Bologna, suo maestro, soprattutto di metodo, di cultura, di umanità.
Mi dette aiuto. Poi, insieme, andammo al porto di Ravenna, in una bella osteria, come, purtroppo, non ce ne sono più. La pergola, il mare, e un “lambruschino” serio – interessante, direbbe un caro amico bolognese -, non quella specie di gazzosa, come oggi viene “propinato” (dato a bere) il lambrusco. I suoi racconti a tavola: Carducci, Severino Ferrari, Alfredo Panzini, Renato Serra. Un mondo.
Un mondo che per me era già passato storicamente e criticamente, emergeva vivo, detto da un vivo, in un sognante parlare classico, anche per lui in fantasia. Il suo dire, non per cliché, senza saccenteria, essenziale.
Altri incontri ebbi con lui.
Francesco Adorno, Sul “Bramante” diretto a Milano: un incontro con Manara Valgimigli, in “Nuova Antologia”, Luglio-Settembre 2000, pp. 77-78.
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Andrea Camilleri – Manuele Cassesa
Intervistato da Marcello Sorgi (Palermo, 1955) sui suoi professori liceali, Andrea Camilleri (1928) ricorda in particolare il professore di italiano, Manuele Cassesa, con cui il primo incontro, e ciò che ne seguì, fu veramente memorabile. Il professore, difatti, con un escamotage pedagogico ben camuffato sotto l’apparenza di uno smodato lassismo, induce i suoi allievi a richiedergli lezioni accurate e approfondite, che lui, all’apparenza costretto, puntualmente tiene con grande successo didattico. La scuola, ludus non solo per gli antichi, appare qui come la palestra di “un giocatore di grandissima razza”, qual era il professor Cassesa. La tipologia è quella dell’incontro scolastico.
Gioco d’azzardo
Cassesa era mio professore di italiano al liceo. Uno straordinario uomo che al primo liceo, in piena epoca fascista, quando bisognava portare la camicia nera, arrivava con il cappotto, l’impermeabile abbottonato fino al collo perché si vergognava a indossarla. Al primo giorno si presentò così: sentite, ho fatto i conti, per quello che io valgo, e per quello che mi passa lo Stato, io non vi posso fare più di sei lezioni l’anno. Quindi io vi faccio sei lezioni e poi basta. Siccome gioco molto – era un giocatore di grandissima razza – ho bisogno di recuperare sonno, facciamo patti chiari e amicizia lunga: io arrivo in classe, voi chiudete le finestre e io dormo. Voi fate quel casino medio, sopportabile, in maniera che si capisca che io sono in classe. Fece le prime sei lezioni spettacolari, straordinarie, capii tante cose della nostra lingua e della nostra letteratura. Così metà della classe rimase in sospeso quando annunciò: con ciò finiscono le mie lezioni. E no professore, si ribellarono i miei compagni, lei non può fare in questo modo. Lui disse: ci possiamo mettere d’accordo, mi pagate. Professore, ma noi non abbiamo soldi. Vi tassate e mi fate trovare sulla cattedra un pacchetto di Milit, erano le sigarette di allora, le peggiori; e noi gli facevamo trovare le Milit.
Io non ho mai capito, se non nell’età adulta, il meccanismo di questa richiesta. Neppure uno psicoanalista avrebbe potuto pensarla così fine. Noi a quel punto pretendevamo la lezione fino all’ultimo minuto, perché l’avevamo pagata noi. E così andammo avanti per tre anni al liceo. Se sono in grado di spiegare Dante ai miei figli o divertirmi a farlo all’Accademia Nazionale dell’Arte Drammatica io lo devo a Manuele Cassesa, papale papale. E a lui devo alcuni miei personaggi, oltreché parecchie lezioni di vita.
Marcello Sorgi, La testa ci fa dire. Dialogo con Andrea Camilleri, Sellerio Editore, Palermo 2000, pp. 100-101.
NOTE
[1] Quando uscì il primo numero di “Energie Nove” e, non so come, mi capitò in mano, con la sua copertina di carta grigio azzurra, i vecchi caratteri tipografici del testo, e, dopo una certa esitazione che mi veniva dal titolo, che mi suonava un po’ strano e ricercato, ebbi cominciato a leggerlo, andai innanzi fra quei programmi e quei concetti astrusi e astrusamente esposti, con sempre maggior rapimento. Mi pareva di trovarci, espresso in parole esplicite, rilevato, diventato comunicabile e chiaro, tutto il vago ineffabile che era in me, tutta la energia indeterminata, e così nuova che non sapeva neanche di esistere, tutta la potenza diffusa e inconsapevole. […] Mosso da non so quale determinazione, presi la penna e scrissi […] una lettera al direttore il cui nome rividi stampato sulla copertina: Piero Gobetti – Via XX Settembre, 60. Una lettera che non ricordo, ma che certamente era piena di ammirazione e insieme, suppongo, di riserbo e di superbia […] Con mio grande stupore ricevetti, il giorno dopo, una letterina di risposta dove Piero Gobetti mi scriveva, in poche righe, che desiderava conoscermi e che mi aspettava a casa sua. Credevo che il direttore della rivista fosse un vecchio, o almeno uno di quelli che allora consideravo dei vecchi, un uomo di almeno vent’anni, pieno di quei misteriosi poteri della cultura e della sapienza a cui non mi ero neanche per un attimo affacciato; e il cuore mi batteva quando salivo le quattro rampe delle scale […] Suonai il campanello con estrema esitazione e venne subito ad aprirmi un ragazzo alto, magro, con una gran testa di capelli scarruffati biondo-castani, un paio di occhiali di metallo sul naso aguzzo, e occhi vivacissimi e penetranti dietro le lenti. Volevo chiedergli se c’era in casa il signor Pietro Gobetti, che pensavo dover essere suo padre; ma egli, credo capì dal mio viso il mio dubbio e subito mi disse: “Gobetti sono io, tu sei quello che mi ha scritto, sei Levi?”.
Carlo Levi, Gli anni di Energie Nove, “Il Contemporaneo”, III, 7, 18 febbraio 1956, p. 3.
[2] E’ convinzione di Claudio Marabini che opera e uomo non siano due entità separate, e che sia possibile dall’una risalire all’altro e viceversa, alla ricerca del segreto dell’opera. Egli scrive nella Prefazione a La chiave e il cerchio, Rusconi Editore, Milano 1973, p. 7: “Ho sempre desiderato di conoscere l’autore di un libro quando il libro mi è piaciuto”. E poco oltre: “(…) l’opera è bella e interessante, vediamo allora l’uomo che l’ha prodotta, cerchiamo di avvicinarci, se è possibile, al suo segreto”. Ne deriva che nella pagina di Marabini studio critico e conoscenza diretta dell’autore coincidono.
[3] Nella pagina precedente dell’op. cit. Marabini aveva scritto: “La pagina di Tobino è libera come quella di un antico rapsodo, non conosce schemi”.
[4] Il racconto Michelaccio apparve a puntate nell'”Idea nazionale” (1920) e poi in volume per le edizioni della “Ronda”, Roma 1924.
[5] A questo proposito, ecco come Antonio Barolini ritrae Eugenio Montale alle “Giubbe Rosse” nel 1938-’39: “Montale, alle “Giubbe Rosse”, stava seduto contro il muro e non parlava mai, o quasi, a monosillabi: era presente e assente. Il suo volto che, oggi, mi è così umanamente caro, era avvolto in una nebbia di sigarette, tra l’Arturo Loria e lo spilungone inquieto di Ottone Rosai (sottaccio deliberatamente gli altri cari e operosi amici di ieri e di oggi, ma il nominarli tutti sarebbe impossibile). Aveva, l’enigmatico Montale, l’occhio vivissimo, anche allora, presente e assente al tempo stesso; e, ogni qualvolta parlava, pareva scendesse con estrema umanità e naturalezza (ma anche ritrosia) da un suo interiore soliloquio, che non era fatto di parole, né certamente di pensieri articolati, ma di bagliori e intuizioni”.
Antonio Barolini, Per i settantanni di Eugenio Montale, in “Nuova Antologia”, Gennaio-Aprile 1967, col. 499°, pp. 46-47.
[6] Silvio Guarnieri, L’ultimo testimone, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1989, p. 28.
[7] Lo stesso Afeltra nella Prefazione alla raccolta (pp. 5-6) spiega: “Ciò che mi interessa, nelle storie di uomini e donne famosi del nostro tempo raccolte in questo libro, è l’elemento umano. A mettermi sulle loro tracce per raccontarli, è stato soprattutto il desiderio di saperne il più possibile. Sono proprio questi piccoli segni, gesti, debolezze, comportamenti, distrazioni, idiosincrasie, paure, a dimostrarci il suo vero carattere. Potremmo dire che è come l’aprirsi improvviso di una finestrina attraverso la quale si scorge qualcosa che fino allora non si era mai notato. (…)
Ho cercato di dedurre, dal poco che vedevo, ciò che non si vede, eppure conta. Il particolare che a un certo punto, almeno per me, rivela l’essenziale. Insomma, da un piccolo episodio, fare uscire l’immagine umana completa. Anche la storia con la s minuscola ama servirsi di tali tratti significativi, se vogliamo semplificatori, per fissarsi nella memoria e nella fantasia”.
[8] Introdotto da Umberto Barbaro nel cenacolo di esteti e di storici dell’arte che si riuniva in casa di Giuliano Briganti, Zeri incontra Roberto Longhi: “E fu lì che un pomeriggio mi misi a parlare con un personaggio alto e magro, dallo sguardo scuro e affascinante, che mi si era presentato come “il signor Saibene”. Soltanto dopo aver terminato una lunga conversazione e dopo aver risposto a una quantità di domande, il mio interlocutore mi disse il suo vero nome: Roberto Longhi”. (in Federico Zeri, Confesso che ho sbagliato, TEADUE, Milano 1996, p. 30).
[9] A conclusione del confronto tra i due, Zeri afferma: “Dal mio punto di vista non è possibile confrontare la statura di questi due uomini così importanti per la storia dell’arte europea della prima metà del nostro secolo. Da un lato c’è un gigante di cultura meravigliosa, padrone del greco, del latino, dell’ebraico, dell’indù e di mille altre lingue, una mente che riassume lo spirito della cultura dell’Europa centrale (e il ricordo che ne ho diviene sempre più grande con il tempo). Dall’altro un virtuoso calligrafo, dalla straordinaria biografia, padrone di una magia verbale, ma molto limitato nei suoi interessi culturali, avido di potere, dallo spirito provinciale e troppo spesso mosso da motivi mercantili. Tuttavia sono stati loro due a fissare le strutture della storia dell’arte italiana, immobilizzandola nei limiti che la avvolgono ancor oggi. E’ una storia che fondamentalmente, e anche quando si proclama marxista o sociologica, rimane nell’attribuzionismo perché è legata al mercato, dove soltanto i nomi contano e fanno prezzo. La concezione idealista di Croce per il quale conta soltanto la forma in se stessa, fuori di ogni contingenza, si sposa così “obiettivamente” a motivi mercantili”. ( F. Zeri, Confesso che ho sbagliato, cit. p. 43).
[10] Danilo Dolci (Sesana, Trieste 1924). Sociologo e scrittore, richiamò l’attenzione dell’opinione pubbica italiana sulla miseria dell’Italia meridionale. Ha scritto, tra le altre opere, Banditi a Partinico (1955), Inchiesta a Palermo (1959), Spreco (1960).