Gli adolescenti non sanno più fare le capriole, dice un recente studio sulle abilità motorie delle giovani generazioni. Poca forza nelle braccia e scarso senso dell’equilibrio. Eppure i ragazzi non hanno mai fatto tanto sport come ora. I genitori passano le giornate ad accompagnarli in piscina, a tennis, palestra, campo sportivo. La loro vita è impegnatissima, sono sempre a fare qualcosa. Ma non ci sono più, dice lo studio sui ragazzi e le ragazze di oggi, i gruppi spontanei che si assemblano per organizzare il gioco. Ora c’è sempre un adulto per ogni bambino. I genitori fanno il tifo per i figli e si aspettano che vincano. Li difendono contro gli insegnanti, gli allenatori, il mondo. Diminuisce il senso di indipendenza, di responsabilità e, anche, la socialità. Sempre supportati, sempre giustificati, sempre spinti a prevalere sugli altri, i giovani esemplari della nostra specie tendono a diventare isole e non sanno neppure bene come usare il proprio corpo, per esempio facendo una capriola.
Andate al cinema a vedere La Guerra dei Cafoni, ve lo consiglio. I ragazzi della via Paal, e La guerra dei bottoni sono gli antenati di questo bellissimo film. Però, ai tempi dei due film antenati dei Cafoni, i bambini giocavano ancora così. Lo so perché ero uno di loro. Tutti i bambini di allora avevano le ginocchia e le mani rovinate. Sempre sanguinanti. Cadevamo e ci facevamo male. Tornavamo a casa e le mamme versavano alcol bruciante sulle ferite. E poi quella penicillina in polvere che faceva una crosta bianca. E fuori di nuovo. Niente cerotti, che la ferita deve respirare. Non bere troppo che ti vengono le rane nella pancia! Tornavamo a casa sporchi e laceri, dopo giornate passate a giocare per strada. Tutti avevamo avuto i vermi. Piccoli vermi bianchi, gli ossiuri, che si prendono giocando con la terra e, ovviamente, mettendosi poi le mani in bocca. Sono parassiti quasi innocui dai quali si guarisce con un vermifugo e poi si rimane immuni. Chiedo quanti dei miei studenti di oggi abbiano avuto i “vermi”. Alzano la mano in due, su settanta. Sono dei “paesi” e confessano che sì, hanno passato la loro infanzia fuori di casa, tornando a casa laceri e sporchi, con le ginocchia sanguinanti. Scommetto che quei due sanno fare le capriole. Nelle pubblicità attuali le mamme inseguono i figli con il disinfettante, per rendere asettico l’ambiente che li circonda.
Ne La Guerra dei Cafoni ci sono solo bambini (in questo caso ragazzi) e un solo adulto, con un ruolo secondario. Non ci sono genitori. E’ un classico delle fiabe che la mamma non ci sia. Di solito muore, e arriva la matrigna. Se c’è la mamma non succede niente. La mamma protegge. Vuole sempre sapere dove vanno i figli, come stanno. Si preoccupa. Con i telefonini li tiene sotto controllo, sempre. Le due bande di signori e cafoni non sono spontanee, sono di censo. Ma è un dettaglio irrilevante. I bambini fanno le bande. Facevano. Di solito sono formate da chi abita nello stesso palazzo, o nella stessa via. Ci si vedeva “fuori” e si organizzavano giochi. Il calcio era uno dei tanti, in mezzo alla strada. Giro d’Italia con i tappi delle bottiglie riempiti di stucco, su cui era attaccata una figurina di ciclista, cerbottane, archi e frecce di stecche di ombrello, carretti costruiti con legno di recupero e cuscinetti a sfera, capanne in cui rifugiarsi. E poi calamite legate a uno spago, per prendere le monete cadute nelle griglie subito fuori dal forno. E giochi crudelissimi, come dar fuoco ai formicai con la benzina degli accendini. Per me quello era il significato del comandamento “non fornicare”. Nessuno lo spiegava bene, al catechismo, così mi ero fatto la mia ipotesi. C’era un errore di stampa, e la n era in realtà una m. Il creatore aveva una passione per le formiche e non voleva che fossero uccise. Quante Ave Maria per tutte quelle formicazioni… Strano, pensavo, che non ci fosse anche non lucertolare. Le lucertole erano altre vittime. E poi salivamo sugli alberi, quelli dei viali delle strade.
Le braccia si rinforzavano tirando pietre. Anche, lo confesso, per rompere le lampadine dell’illuminazione stradale. Le battaglie a pietrate con altre bande erano all’ordine del giorno. Ogni gruppo aveva il suo territorio e non si sconfinava. Ho ritrovato la stessa cosa tanti anni dopo, in Papuasia.
Credo che la mia generazione, bene o male, sia stata l’ultima a vivere in questo modo. La televisione ha cambiato tutto. E l’omicidio di Ermanno Lavorini, nella Pineta di Viareggio, nel 1969. Le mamme all’improvviso pensarono che i loro figli potessero diventare vittime di pedofili assassini e iniziò l’era del controllo totale. Quando ero bambino c’erano i maestri, e ci davano sonori ceffoni. Se tornati a casa dicevamo di essere stati puniti, arrivavano altri ceffoni. Ora le mamme giustificano i figli stupratori di gruppo.
Mentre scrivo queste parole vengo a sapere che è morta la mia amica Franca. Una delle prime persone che ho conosciuto quando mi sono trasferito qui in Salento, trent’anni fa. Era la responsabile dell’associazione ambientalista Marevivo e stava organizzando un progetto di educazione ambientale nelle scuole. Venne a cercarmi, e lo facemmo assieme, con i bambini delle medie. Li portammo sulle spiagge, a pulirle dalla spazzatura che i “grandi” riversavano (e ancora riversano) nell’ambiente. Franca è una delle persone più intelligenti che ho conosciuto. Con lo sguardo acuto, pronta alla battuta, pronta a cogliere aspetti della realtà che si faticano a vedere. Che ne pensi di questo, Franca? Mi capitava spesso di chiederglielo, su qualunque argomento, e ogni volta mi faceva vedere le cose da un punto di vista privilegiato dall’intelligenza: il suo. Sono convinto che Franca fosse in grado di fare le capriole. E sono sicuro che i suoi figli abbiano avuto le ginocchia sbucciate. Come dicevano i soldati del signor De La Palice (che un minuto prima di morire era ancora vivo), quando pochi giorni fa l’ho incontrata era ancora viva, e non sapevo che sarebbe stata l’ultima. Mi sarebbe piaciuto parlare di capriole e di vermi, con lei. Ci saremmo fatti un sacco di ridere e ancora una volta mi avrebbe insegnato qualcosa, con leggerezza e arguzia. Era poco più “grande” di me, Franca, ed era anche lei il prodotto di una giovinezza allo stato brado. Di quelle che non ce ne sono più.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 10 maggio 2017]
Merci Monsieur Boero pour votre belle évocation des jeux libres des enfants d’autrefois et pour les réflexions qui l’accompagnent. Tout cela vaut également pour la France de ces années-là, vous le savez puisque vous citez justement le beau film réalisé d’après le roman “La Guerre des boutons” de Louis Pergaud.
Il n’a pas pu vous échapper toutefois que cette belle liberté ne concernait que la moitié des enfants, les garçons (si une petite fille apparaît à la fin de l’histoire, c’est pour faire un travail réservé aux femmes, recoudre les boutons !).
A propos de vos regrets que la disparition de Franca ne vous ait pas laissé le temps, entre autres conversations, de recueillir son point de vue, nous les partageons Walter et moi, en supposant que Franca, indépendamment de son cas personnel, aurait peut-être observé comme nous, d’après notre propre expérience, cette inégalité de traitement entre les filles et les garçons.
En toute modestie et en toute amitié. A. et W. Gamet
Sì cara A. Gamet, è vero. Ho una figlia e quando era piccola le regalavo cose da “maschi”. I negozi di giocattoli hanno giochi femminili che relegano le femmine a ruoli materni e di massaia. Bambole, pentole, ferri da stiro. Mentre i giocattoli maschili comprendono azione, scienza (il piccolo chimico), esplorazione e, anche, guerra. Quando ha iniziato a frequentare la scuola materna si è accorta che quei giocattoli erano “da maschi” e per essere uguale alle sue amiche ha scelto giochi “da femmina”. Per fortuna le cose stanno cambiando. Ci sono più femmine che maschi, all’università. E i mestieri “di genere” sono quasi scomparsi. Ci sono eroine femminili con ruoli molto dinamici. E, per loro fortuna, le femmine sono quasi immuni dal rimbecillimento dei videogiochi, per non parlare del calcio. Nelle mie “bande”, comunque, le femmine c’erano. Giocavano nei nostri stessi spazi e partecipavano ad alcuni giochi tipo nascondino, prendersi, palla prigioniera, palla avvelenata, ma in altri non potevano giocare con noi perché si facevano male e piangevano. I maschi, comunque, proteggevano le femmine…. confesso che i giochi che mi piacevano di più erano quelli dove ci si faceva male, e lì le femmine non c’erano.
F. Boero