di Giuseppe Spedicato
Werner Sombart, guerra e capitalismo.
La violenza come “fatto sociale totale”
Werner Sombart (Ermsleben,19 gennaio 1863 – Berlino,18 maggio 1941) “è stato un economista e sociologo tedesco, capocorrente della nuova scuola storica tedesca e uno dei maggiori autori europei del primo quarto del XX secolo nel campo delle scienze sociali.
Nato in Germania, a Ermsleben nell’Harz, figlio di Anton Ludwig Sombart, un ricco industriale, proprietario terriero ed esponente politico liberale, studiò il diritto e l’economia alle università di Pisa, Berlino e Roma. Nel 1888 fu dottore di ricerca all’Università di Berlino sotto la guida di Gustav von Schmoller, il più eminente economista tedesco dell’epoca.
Come economista e soprattutto a causa dell’adesione alle rivendicazioni sociali dei ceti operai e proletari, Sombart era considerato come appartenente all’estrema sinistra. Questo provocò una sorta di ostracismo nei suoi confronti, per cui – dopo un periodo come direttore giuridico della Camera di commercio di Brema – riuscì a trovare un posto di Professore Assistente solo nella lontana Università di Breslavia. Università prestigiose, quali Heidelberg e Friburgo lo ricercavano, ma i rispettivi governi si opponevano alla sua cooptazione.
In quel periodo Sombart era un eminente “marxiano”, da intendersi non come marxista, ma come uno studioso che interpretava e riprendeva il pensiero di Karl Marx, tanto che Friedrich Engels lo definì l’unico professore tedesco che comprendeva Il Capitale.
Nel 1902 pubblicò in sei volumi la sua opera maggiore, Il Capitalismo Moderno (Der moderne Kapitalismus). In quest’opera Sombart coniò il termine capitalismo (che Marx, in effetti, non usò quasi mai preferendo sempre nei suoi scritti l’espressione ‘modo di produzione capitalista’). Si tratta di una storia sistematica dell’economia e dello sviluppo economico attraverso i secoli, nei modi propri della Scuola storica tedesca. Sebbene l’opera sia stata molto sminuita e in alcuni punti severamente criticata dagli economisti neo-classici, resta a tutt’oggi un’opera di riferimento con importanti ramificazioni verso, ad esempio la scuola delle Annales (Fernand Braudel).
Nel 1906 Sombart accettò l’offerta di una cattedra alla Scuola di Commercio (Handel-hochschule) di Berlino. Si trattava di un istituto inferiore all’Università di Breslavia, ma nella capitale Sombart poteva essere più vicino allo svolgimento dell’azione politica. A Berlino furono composti nuovi studi da affiancare al “Capitalismo Moderno”, che analizzavano il lusso, la moda e la guerra come paradigmi economici. In particolare i primi due volumi sono lavori fondamentali sui rispettivi argomenti ancora ai giorni nostri. Nel 1906 comparve anche Perché non esiste il Socialismo negli Stati Uniti? (Warum gibt es in den Vereinigten Staaten keinen Sozialismus) che, per quanto sia stato criticato fin da allora, è lo studio classico sull’eccezionalismo americano.
Finalmente, nel 1917, Sombart divenne professore all’Università di Berlino che allora era la più prestigiosa università d’Europa, se non del mondo. Tenne la cattedra fino al 1931 e continuò l’insegnamento fino al 1940. In quel periodo fu uno dei sociologi più influenti al mondo, molto più del suo amico Max Weber, che in seguito lo superò in fama a tal punto che oggi Sombart è praticamente dimenticato in questa disciplina.
Le principali opere di sociologia di Sombart sono raccolte nel volume Noo-Soziologie uscito postumo nel 1956.
Durante gli anni della Repubblica di Weimar, Sombart si spostò verso la destra politica con la sua teorizzazione di un “Socialismo prussiano”. La sua relazione con il Nazismo è aspramente dibattuta ancora oggi. La sua opera antropologica Vom Menschen del 1938 è sicuramente anti-nazista e, difatti, fu ostacolata dai nazisti nella pubblicazione e nella distribuzione. Uno studio precedente, Gli Ebrei e la vita economica (Die Juden und das Wirtschaftsleben, 1911), è il parallelo del famosissimo L’Etica Protestante e lo Spirito del Capitalismo (Die Protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus) di Max Weber. Nell’opera di Sombart, invece dei collegamenti tra il Protestantesimo (soprattutto il Calvinismo) e il Capitalismo, sono gli Ebrei che sono considerati il motore dello sviluppo economico. Questo libro fu considerato all’epoca come filosemita, ma diversi studiosi ebraici contemporanei lo descrivono come antisemita, almeno nei suoi effetti. L’atteggiamento di Sombart verso il Nazismo, è spesso paragonato a quello di Martin Heidegger e a quello del suo giovane amico Carl Schmitt. Tuttavia, per questi due l’adesione al Regime era fatta con l’idea di assumere un ruolo guida nelle rispettive discipline nel futuro del Terzo Reich. In seguito il loro individualismo gli alienò i favori del partito al potere fino ad espellerli dalle posizioni di potere accademico inizialmente acquisite. Il caso di Sombart è invece molto più sfumato. È certo che le lezioni di Sombart erano seguite da numerosi studenti ebrei, mediamente più che in altri corsi universitari. La maggior parte di questi allievi non condannarono il loro professore nel dopoguerra. È però altrettanto appurato che Sombart non fu mai un oppositore al regime, né tantomeno un attivista della Resistenza.
Una stima oggettiva dell’importanza e dell’influenza di Sombart oggi è resa difficile dall’accusa di adesione al regime nazista. D’altra parte, anche a causa dei suoi lavori iniziali filo socialisti, Sombart era osteggiato dai circoli borghesi, particolarmente in Germania. Il suo Capitalismo Moderno è considerato come una pietra miliare della storia economica ed un’opera che ha avuto una grande influenza, per quanto sia stato molto criticato in certi aspetti.
Intuizioni fondamentali della sua opera di economista furono la scoperta – ancora recentemente confermata – dello sviluppo della partita doppia come precondizione fondamentale del Capitalismo e lo studio interdisciplinare della città, cioè gli studi urbanistici. Sombart coniò anche la parola e il concetto di distruzione creatrice, che divenne una componente fondamentale della teoria dell’innovazione di Joseph Schumpeter (in effetti Schumpeter prese molto da Sombart, anche se non sempre riconobbe pienamente il suo debito).
A tutt’oggi le correnti dominanti della Sociologia lo considerano una figura minore, così come la sua teoria sociologica è reputata una stravaganza. La Sociologia Filosofica e i culturologi che si riferiscono alla sua opera, insieme agli economisti eterodossi, mostrano invece un interesse maggiore per la sua opera. Sombart è sempre stato molto popolare in Giappone; negli Stati Uniti invece non ha mai avuto adeguato credito e riconoscimento, anche perché la maggior parte delle sue opere non è mai stata tradotta in inglese – oltre al noto saggio Perché non c’è il Socialismo in America, che è anche la sua opera ivi più conosciuta e apprezzata”. (da Wikipedia, l’enciclopedia libera).
“Se si indagano gli albori del capitalismo moderno ci si immagina quali siano state le circostanze esterne in cui esso è venuto alla luce non si può non rivolgere la propria attenzione agli innumerevoli traffici commerciali e alle innumerevoli guerre di cui è ricco il periodo che va dalle Crociate sino alle guerre napoleoniche: nel tardo Medioevo l’Italia e la Spagna sono, entrambe, un enorme accampamento militare; tra XIV e XV secolo l’Inghilterra e la Francia sono in lotta per un centinaio di anni; nel XVI secolo gli anni di pace sono solo 25, mentre nel XVII secolo sono appena 21, il che significa che su 200 anni, ben 154 sono segnati dalla guerra. Tra il 1568 e il 1648 l’Olanda conta 80 anni di guerre, mentre tra il 1652 e il 1713 ne registra 36: 116 su 145. Fino a quando, infine, con le guerre di rivoluzione l’umanità europea vive un’ultima grande fase di agitazione. Che tra guerra e capitalismo ci debba esser un qualche rapporto è una considerazione che appare più che fondata” (Sombart in Iannone, 2015 pag. 53)
Nell’opera di Sombart, ciò che l’autore indaga non è tanto il rapporto tra guerra e società, ad emergere come centrale è il rapporto tra guerra ed economia. Nei precursori della sociologia, si ha una contrapposizione fra società industriale e società militare. La guerra, secondo questi Autori, sarebbe scomparsa perché lo spirito dell’industria avrebbe sostituito lo spirito militare. Pertanto, con la nascita della società industriale, fonte delle attività, come del reddito e del potere, sarebbe la vita industriale (l’economia) e non più quella bellica. Dono e scambio avrebbero preso il posto della spoliazione violenta e del bottino di guerra. Secondo Sombart invece, lungi da contrapporsi, società militare e società industriale si intersecano continuamente e l’una è precondizione di esistenza dell’altra, Uno dei meriti di Sombart sta proprio nella capacità di riconoscere le potenzialità plastiche della guerra, la sua capacità di trasformarsi per rimanere al passo con i tempi adattando l’ethos militare al cambiamento sociale, attraverso interessi militari che diventano industriali ed interessi industriali che riposano sulle necessità militari. Sombart non crede quindi, nell’idea di un progresso per definizione pacifico e pertanto, riesce ad anticipare con formidabile lungimiranza lo stretto connubio tra il mondo bellico e militare e quello economico e industriale. Un connubio che avrebbe trovato il suo trionfo con la Seconda guerra Mondiale attraverso il cosiddetto “complesso militare industriale”. Per Sombart inoltre, questo connubio non è solo la chiave di lettura del futuro, è il connubio che ha fatto la storia almeno dal 1000 al 1800. Tutta la storia quindi, sarebbe la storia di un’industria militare, cioè di un’industria mobilitata per la guerra e di una guerra impregnata di spirito industriale.
Come è stato già detto Sombart pone l’attenzione sul capitalismo ed i suoi stretti rapporti, provati dalla storia, con la guerra o meglio con il militarismo. Riguardo questo rapporto il nostro Autore non ha dubbi: non è il capitalismo a generare la guerra, ma la guerra, e più propriamente il mondo militare, a generare il capitalismo. Sombart pertanto, indaga su come è nato il capitalismo o meglio come il militarismo ha creato il capitalismo e quindi, come si è formato il sistema economico mondiale ed i mutamenti che questo ha apportato nella società moderna. Il merito che gli si riconosce è quello di aver colto le determinanti antropologiche, sociali, culturali e religiose, e non soltanto materiali, di un fenomeno principalmente economico, quale è il capitalismo (ritiene importanti anche le rendite agrarie, perché fondamentali per l’accumulazione del capitale). A queste Sombart ne aggiunge un’altra: quella militare. Questa anticipa e spiega le altre.
Vediamo quali sono queste determinanti:
- Determinanti antropologiche: l’uomo borghese e l’anima europea;
- Determinanti culturali: mentalità e spirito borghese;
- Determinanti sociali: l’organizzazione e la tecnica, ma anche il lusso e la moda;
- Determinanti religiose: il puritanesimo e l’ebraismo.
Come è stato già detto, a queste Sombart aggiunge un’altra determinante, il militarismo, che offre alle altre determinanti, la possibilità di completamento e di espressione.
Sombart ritiene inoltre, che vi sia uno stretto rapporto che lega il piano antropologico con quello militare e religioso. Ciò perché nel XVI secolo sia ha la fine del concetto di uomo di natura, che ha dominato sino al Rinascimento e che sarebbe stato incapace di portare il sistema capitalistico al suo pieno sviluppo. A questo succede l’uomo parziale, l’uomo realista, l’uomo del dovere, che si ritiene sia nato grazie alla religione, in particolare al puritanesimo. Sombart invece, ritiene che sia nato grazie allo stretto rapporto che lega puritanesimo e militarismo. Fa notare che le virtù militari, come venivano insegnate nei secoli XVII e XVIII, sono per lo più le stesse che venivano sostenute dai non conformisti, dai calvinisti, dai puritani. La disciplina è il leitmotiv. Lo stesso dicasi in tema di virtù del militarismo e del capitalismo, sarebbero le stesse. Afferma quindi che puritanesimo, militarismo e capitalismo condividono gli stessi principi.
Il nostro Autore è convinto che la disciplina tipica dell’agire capitalistico trovi origine nel militarismo.
“La mole di addestramenti, una rigorosa disciplina, la severa educazione sono il segno distintivo di una nuova era. E al capitalismo, che aveva bisogno proprio di questo tipo di uomo, questo lavoro è tornato utile. Non è necessario arrivare a ipotizzare che le stesse persone che si erano formate sul campo di battaglia, riutilizzassero adesso in fabbrica la stessa nuova arte della sottomissione: l’esempio dato dall’esercito operò da sé e lo spirito che lo pervadeva si è trasmesso al resto della popolazione ed è stato mantenuto e tramandato nelle famiglie in modo che potesse, infine, rifiorire in ambito economico. (…) In ogni caso, mi sembra abbastanza evidente che qui si presenti un problema molto importante per la genesi di tutta la cultura moderna, e in particolare quella economica, che vale sicuramente la pena approfondire.” (Sombart, in Iannone 2015 pag. 81).
Bene sarebbe riflettere con attenzione sul problema che segnala Sombart: la genesi di tutta la cultura moderna ed in particolare quella economica. Questa sarebbe originata dal militarismo, in particolare dalle esperienze maturate dal militarismo nei campi di battaglia. Dalle esperienze maturate nell’imporre la disciplina, nell’arte della sottomissione e farla accettare come fatto naturale, nell’omologazione del pensiero e dei comportamenti (l’uniformarsi, che sembra derivare dall’uniforme utilizzata dai militari. L’uniforme è utilizzata anche nelle religioni e nel mondo del lavoro). Capitalismo che si impone dopo aver cancellato l’uomo di natura ed aver imposto un nuovo uomo che definisce: l’uomo parziale, l’uomo realista, l’uomo del dovere.
La più importante originalità di Sombart, come è stato già detto, è quella di individuare la relazione tra militarismo e capitalismo. In precedenza, ma anche successivamente, molti autori hanno indicato la relazione inversa, dal capitalismo al militarismo. Per costoro (Marx, Engels, Bebel, Bernestein, Kautsky, Hilferding, Jaurès, Luxemburg, Liebknecht, Mehring, Lenin, Trotskij, Togliatti e Gramsci) era il capitalismo, con i suoi principi, come quello della concorrenza esasperata, a produrre violenza. Per Sombart invece, è il capitalismo ad essere figlio della violenza. La sua tesi è ancora più sconvolgente e, ripetiamolo, merita la nostra riflessione.
Ricordiamo che Ibn Khaldun affermava che all’origine della ricchezza vi è l’esercizio della violenza. Riteneva l’essere umano prigioniero della sua violenza naturale e che questa dovesse essere orientata verso la creazione della ricchezza di una comunità, di un popolo. Ovviamente Ibn Khaldun non è stato testimone del capitalismo, nonostante ciò segnala che la violenza, quella organizzata, è indispensabile non solo per produrre ricchezza, ma anche uno Stato, una nuova civilizzazione e dunque un uomo nuovo. Quindi per i due autori la guerra è, al contempo, fonte di distruzione e di creazione.
“Se l’industria del ferro ha subito trasformazioni non in ultimo a causa della domanda di armi, se la cantieristica navale si è sviluppata assumendo forme più evolute a seguito della domanda di navi da guerra, se dunque l’industria del ferro e la cantieristica sono in ultima analisi figlie della guerra, tuttavia questa è anche divenuta fonte di distruzione: della distruzione dei boschi d’Europa, visto che entrambe le attività hanno introdotto un elevato fabbisogno di legname e si rendono perciò responsabili di una crescente carenza di legname, lamentata già a partire dal XVI sec. D’altra parte, dalla distruzione trae origine un nuovo spirito creatore: la carenza di legno e i bisogni della vita quotidiana hanno spinto alla scoperta o invenzione di materie sostitutive del legno, hanno spinto a utilizzare il carbone come combustibile, hanno spinto all’utilizzo del carbone nel processo di lavorazione del ferro. Che solo ciò abbia reso possibile lo straordinario sviluppo del capitalismo nel XIX sec. è fuori di ogni dubbio per ogni attento osservatore. Così anche qui, in questo punto cruciale, fili invisibili sembrano legare intimamente interessi mercantili e militari” (Sombart, in Iannone 2015 pag. 256).
La guerra, dunque, nello stesso modo in cui distrugge, realizza anche condizioni rigeneratrici, ma non nel senso mitico o ideologico del termine. La guerra pone anche le condizioni per la nascita e il consolidamento del capitalismo, passando soprattutto attraverso lo Stato e la politica. Statalismo, fiscalismo e militarismo sono, secondo Sombart, la stessa cosa.
La Iannone, alla fine della sua introduzione al testo di Sombart, osserva che se la guerra e il militarismo sono stati la fonte del capitalismo e del suo spirito, come anche dell’uomo che se ne è fatto portatore, della sua anima, della sua energia, della sua cultura, della sua tecnica e organizzazione, con inevitabili intrecci religiosi, la conclusione di tutto ciò, non può che essere, scrive sempre la Iannone, che il mondo bellico e militare è un “fatto sociale totale”.
Ricordiamo che Ibn Khaldun riteneva la violenza, il militarismo, come elemento essenziale per creare lo Stato, la città, lo sviluppo economico e quindi una nuova civiltà, che è un “fatto sociale totale”. La differenza tra i due autori, riguardo il ruolo della violenza, è che Sombart le attribuisce espressamente l’origine del capitalismo (e quindi dello sviluppo, della ricchezza), mentre Ibn Khaldun sembra non attribuirle espressamente questo ruolo anche se parla di esercizio della violenza come mezzo indispensabile per costituire e far sopravvivere uno Stato. Stato che è considerato, da Ibn Khaldun e da Sombart, come la premessa principale per creare ricchezza per il primo, il capitalismo per il secondo.
La Iannone osserva ancora, che è inevitabile riconoscere al militarismo la capacità di essere e farsi società e a Sombart il merito di grande classico della sociologia, per averlo saputo cogliere e documentare scientificamente. Per quanto impopolari possono essere entrambe queste ultime constatazioni.