Il fattore statico e la natura

di Paolo Maria Mariano

Il 12 settembre 1960 Charles-Edouard Janneret-Gris scrive a Pier Luigi Nervi, chiamandolo “mon cher ami”, mio caro amico. Firma Le Corbusier, lo pseudonimo che gli spagnoli talvolta preferiscono trasformare in El Cuervo, il corvo, forse per il suono più teatrale così consono alla loro lingua. Le Corbu, la cui pronuncia assomiglia a le corbeau, il corvo appunto, lo svizzero di Le Chaux-de-Fonds, naturalizzato francese, informa con la sua lettera l’ingegnere italiano, formatosi a Bologna, della sua volontà di “fare un salto a Roma” per visitare gli impianti olimpici nella cui progettazione Nervi aveva avuto ruolo.

Quello di Le Corbusier era un omaggio al progettista Nervi che vedeva una via estetica nella ricerca primaria dell’equilibrio, della stabilità, una ricerca che suggerisse le forme. Il contrario di chi ipotizza forme, attingendo alla propria immaginazione, ispirandosi ai maestri, copiando quel che altri fa, seguendo esercizi di scuola, e poi chiede ad altri, talvolta distrattamente, di fare in modo che le sue idee si reggano e stiano in piedi. Per Nervi, invece, l’ingegnere non dovrebbe essere un “mero esecutore di cose fatte da altri” come lo intendono molti. Mi ha colpito, in una brevissima corrispondenza tra noi intercorsa, che tra loro perfino Cesare Segre, formidabile studioso di lettere ma distante per quella sua convinzione da una percezione dall’interno dell’attività del vero progettista, quello che abbia un non banale livello di adesione all’elemento ideativo nel suo fare professionale, non l’affarista, il becero faccendiere la cui attività è descritta dalle cronache sulle vicende politiche e sulle inutili distruzioni ambientali spesso con lapidaria efficienza. Purtroppo Segre è mancato e non è stato possibile discutere di più, altrimenti sarebbe almeno stato utile parlare dell’idea di Nervi, non del tutto originale invero perché è la strada che segue la natura. Così almeno appare all’essere umano che osserva il mondo. La natura ottimizza: minimizza l’energia, massimizza la dissipazione. I processi di crescita dei corpi vegetali e animali, i cambiamenti orografici, il fluire dell’acqua e dei gas nel sottosuolo, scavando anfratti, riempiendo alveoli, quasi fossero cellule di un organismo vivente, aspirano in genere a ottimizzare la forma dei corpi, relativamente alle condizioni che impongono, tendono nel tempo a essere stabili, corrono, per così dire, verso l’equilibrio quando sono lasciati a loro stessi.

Il progettista di opere d’ingegneria civile, architetto o ingegnere che sia, nell’ideare un edificio o un intervento sul territorio imita in un qualche modo inconscio il processo della natura perché sfrutta i principi fisici che emergono dall’osservazione della natura stessa e sono espressi da quel linguaggio che è allo stesso tempo sia quantitativo sia qualitativo, l’unico in tal guisa tra le invenzioni linguistiche umane: la matematica. Certo, chi è aduso alla pratica giornaliera della progettazione segue spesso una serie di operazioni routinarie basate su formule suggerite dalla normativa in uso nel momento in cui opera, formule derivate da approssimazioni perfino rozze, e qualche volta non ha un ricordo vivido della forma e del significato di tutte le strutture teoriche che le giustificano. Eppure egli/ella agisce sulla natura e nella natura. Il progettista stesso è parte di quella natura su cui vuole operare. Dovrebbe avere la sensibilità, che sicuramente la cultura rafforza e acuisce, di cogliere la bellezza nella natura e preservarla, di agire con rispetto dell’ambiente che lo accoglie. In questo, alle esigenze di efficienza funzionale delle opere, di correttezza di esecuzione, di estetica, di economia – nel senso di riduzione dei costi e di guadagno – si aggiunge un fattore che è propriamente etico. È quello stesso fattore che dovrebbe accompagnare la competenza degli amministratori e degli uffici tecnici istituzionali nello scegliere una proposta progettuale rispetto a un’altra, nel decidere lo sviluppo o la modifica di una città.

È sempre più necessario discernere, viste la scarsa lungimiranza, talvolta l’incompetenza, perfino la colpevole negligenza e la prevalenza del vacuo apparire che, qualche volta di rado, qualche altra in modo più frequente, accompagnano le decisioni sullo sviluppo urbano e quello extraurbano, e le scelte sulle singole opere. Si può però agire in maniera diversa, come la storia dell’architettura insegna anche senza neanche guardare troppo indietro nel tempo.

Così mi veniva da pensare sfogliando Trutg dil Flem, di Wilfried Dechau, pubblicato nel 2013 dalla Scheidegger & Spless di Zurigo. È un libro fotografico – Dechau è un fotografo di architetture – su sette ponti pedonali progettati intorno a Flims (Cantone dei Grigioni), seguendo il sentiero lungo la riva del fiume Flem, da Jürg Conzett, un ingegnere nato a Schiers nel 1956 e formatosi nei politecnici di Losanna e Zurigo, un ingegnere che ha rappresentato la Svizzera nella Biennale dell’Architettura del 2010 a Venezia.

Le foto di Dechau documentano il paesaggio alpino, le rocce grigie, le macchie di faggi, di abeti, di pini, i pascoli ondulati, l’acqua del fiume che scorre a volte quasi discreta, altre impetuosa, turbolenta, senza una sua forma, come tutti i fluidi, pronta ad adattarsi all’ambiente per poi scavarlo con lentezza e costringerlo alla propria irruenza – l’acqua s’insinua: non ha umiltà.

In mezzo al verde qui più chiaro, là più scuro, spesso ingrigito dalla nebbia, dal cielo irrorato di nubi, s’inseriscono i sette ponti pedonali di Conzett, di diversa forma e differenti materiali. Non invadono l’ambiente, semmai appaiono come un suo naturale completamento organico che lo impreziosisce e aggiunge valore, piuttosto che sottrarlo – impreziosire un luogo vuol dire trarre guadagno dal processo in una visione che abbia prospettiva nel tempo. In fondo quei ponti testimoniano la possibilità dell’uomo di intervenire senza l’enfatica boria dell’ottuso predatore che non vede oltre il far della sera e distrugge perché non riesce in fondo a fare altro che frequentare la meschinità.

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