“Passano i collegianti”, ovvero come viveva uno studente salentino durante il fascismo (Parte seconda)

di Giuseppe Virgilio

Il gallismo negli anni Trenta

Ed andando indietro sul filo della memoria, ma anche dei misteri e degli impulsi dell’animo, un’altra vasta schiera di giovani rinveniamo che tuttavia è giunta per altre vie alla conoscenza.

Piazza Dante Alighieri a Galatina, piazza Fontana nel sermo cotidianus: una giostra rotea lenta nel centro della città, e poche sirene dagli occhi languidi girano su quella giostra ed i giovani le chiamano con un parodistico prestito dantesco “il pan degli angeli”.

Quei giovani che hanno scelto la via degli studi, non hanno avuto maestri, intendiamo dire maestri come sono stati i Greci, cioè mistagoghi, e devono perciò affidare la propria ricerca alla nuda esigenza dell’anima e scoprire da sé che i misteri sono vane costruzioni di letterati. Eppure la loro umanità è tutta tesa a sentire solamente il bello, ma il maestro non ha fornito la parola iniziatica, quella che svela il mistero della poesia e del pensiero. Il maestro ha detto soltanto la parola elemento grammaticale, da incasellare in regole e in schemi libreschi. Loro invece hanno bisogno di infrangere degli idoli, di rovesciare dei valori, di sentirsi liberati dai vieti pregiudizi scolastici che misurano la poesia a peso di carta stampata, e non c’è nessuno che li guidi, che li rinnovi, che dia l’illusione di creare nuove armonie, destinate ad arricchire il loro spirito.

Devono invece ogni giorno interrompere la vita familiare e fare i conti, nella scuola e fuori della scuola, con una retorica gonfia di ornamentalità pacchiana, con una mitologia marziale ed all’occorrenza con chiassose parate sagraiole.

Provengono quasi tutti dagli strati della borghesia cittadina, in parte sono ribelli all’autorità paterna, in classe sono svogliati, pensano alla ragazza ed alla partita di calcio, e sono distratti dalle prime curiosità sessuali, sicché per loro ogni due settimane, quando cade il cambio delle cocottes nella locale casa di piacere sita in Piazza vecchia, è giorno d’importanza.

I film al teatro Tartaro con Barbara Stanwich, Brigitte Helm, Dorothy Lamour, Isa Pola, Tina Lattanzi, Germana Paolieri suscitano sogni impossibili ed irreali. Lo spettacolo di varietà, due o tre volte all’anno, è l’occasione buona per una scapataggine straordinaria che svuota temporaneamente di amarezza la quotidianità, ma non vanifica l’angustia dei sentimenti e degli impulsi, non cancella la solitudine, non rompe il limite provinciale che è innanzitutto condizione ambientale e culturale meschina.

Non più di due o tre locali pubblici in città, che abbiano una sala appartata ed un’uscita riservata che prevengano eventuali sopraluoghi di papà, costituiscono il ricettacolo di chi ha la vocazione ereditata per “magnanimi lombi” al patetico gioco d’azzardo. Per gli altri basta una coperta di panno verde ben teso su una grossa tavola, alcune palle d’avorio ed una stecca di legno: il biliardo.

Nasce così a Galatina con netto anticipo in mezzo ai giovani una forma di gallismo, che ripete senza alterazione quello elaborato di Vitaliano Brancati dal 1942 al 1954 attraverso il Don Giovanni in Sicilia, Il Bell’Antonio e Paolo il caldo: un processo evolutivo che ha come punto di partenza un inno alla vita e alla virilità meridionali, e come punto di arrivo la dissoluzione in impotenza e tragedia di quel giovanilistico vitalismo.

S’intende bene che noi parliamo di impotenza e di tragedia giovanile con intento parodistico; alludiamo cioè alla consapevole condizione di smarrimento culturale esperimentata da parte dei giovani a Galatina nel corso degli anni Trenta, attraverso un fenomeno simultaneo in tutta l’Italia.

La gioventù subisce un’opera di progressiva amputazione e cancellazione della propria personalità, le facoltà critiche vanno sempre più limitandosi ed impoverendosi. I giovani entrano a far parte della pura categoria del comico, che è una costante di tutti i regimi totalitari di destra che in questo secolo si sono opposti ad un regime liberale e democratico.

Si diffonde in mezzo alla gioventù un sentimento funereo d’isolamento e di sogno, di torpore e d’ignoranza. Nasce così una sorta di blocco che dà a ciascuno la sensazione di arrestarsi alla fase dell’adolescenza. Eppure basta un maestro che con la parola e con l’azione insegni che qualunque libertà è sempre poca in confronto di quella a cui si tende, un maestro che anche in condizioni avverse continui a fare la parte di colui che non si rassegna a predicare nel deserto, ed i giovani lo seguono, almeno i migliori e più pensosi.

E’ il caso di Carlo Muscetta in un primo tempo e poi di Tommaso Fiore al Liceo di Molfetta, e di Augusto Monti al Liceo di Brescia e poi al D’Azeglio di Torino, educatori di una gioventù che da loro impara a pensare criticamente, ad immunizzarsi contro ogni contaminazione trionfalistica lungo l’arco del Ventennio, e riceve impulsi a smitizzare la romanità ed il Risorgimento. Questi giovani si chiamano Leone Ginzburg e Massimo Mila, Giorgio Agosti e Franco Antonicelli e Norberto Bobbio, “la banda” che Augusto Monti plasma spiritualmente secondo l’etica di una tenace fedeltà alle proprie idee, ereditata da Gobetti, che egli stesso, come fratello maggiore, in nome degli amici, quando Gobetti muore, chiama “lo scolaro maestro”, una formula che il Russo poi riprende per fissare, sul piano della critica letteraria, il rapporto Foscolo-Alfieri.

E gli allievi si ripiegano su se stessi, cercano nei libri quello che i testi scolastici non possono dare. Sono romanzi, novelle, commedie, drammi.

Altrove, in quegli stessi anni, altri giovani come Elio Vittorini e Vasco Pratolini a Firenze, Eugenio Curiel a Padova, Cesare Pavese a Torino, soffrono un continuo tormento, sentono responsabilmente l’impulso all’autodistruzione, sanno che la loro sopravvivenza ha soltanto un destino di lotta contro la dittatura, e per alcuni di essi, come Berto Ricci e Giaime Pintor, anche di sacrificio supremo.

Certamente non si può fare uguale discorso per la gioventù studiosa di Galatina negli anni Trenta, ma il meno che si possa dire è che essa rifiuta un codice di vita indistinta, sente il bisogno dell’antiretorica e sceglie tuttavia, per le sue letture, delle pagine che provano ancora una volta l’equivoco in cui viene a trovarsi la cultura borghese negli anni della dittatura fascista.

Invero il mondo fantastico epico-lirico di quei lettori appare costituito esclusivamente dalla sessualità. Eppure quelle letture non idealizzano come modello di perfezione umana la fatuità sentimentale, ma significano il mondo dell’evasione per sfuggire allo spappolamento della vita cittadina che a Galatina non è stato meno avvilente delle altre parti d’Italia. E’ stato cioè un antidoto contro l’ipocrisia della morale eroica: la donna, anche quella dei libri e della pornografia, quando non è stato possibile nella vita reale, invece dei miti del regime.

E tornano alla mente e nell’intelletto dei giovani, nei loro conversari nonché nei loro vagheggiamenti, e Beatrice e Laura ed Angelica ed Erminia e Silvia e Nerina, nomi che nell’immobilità della parola racchiudono ciascuno la storia di un uomo e del suo destino, delle sue passioni e delle sue inquietudini di sempre.

Fortunati quindi in quegli anni i giovani liceali galatinesi che seppero dallo studio ricavare non una morale eroica, bensì una verità più generale, e cioè che sia l’arte a ricomporre esattamente la vita, quando da essa apprendiamo ad attingere la verita in noi stessi.

 

Letture di inerzia e di passività

La società italiana si è venuta definendo come una società di massa durante il ventennio fascista attraverso la forza dei ceti medi. Questa indicazione può essere verificata a Galatina dove agricoltori, commercianti, professionisti, piccoli imprenditori ed artigiani, vale a dire i ceti medi tradizionali, hanno costituito un’entità sociale abbastanza omogenea ed integrata ed hanno disposto di una certa autonomia personale. Con la guerra del 1915-1918 questo ceto sociale ha creduto di meglio rivendicare quella interiore coscienza di dignità e di nazione, che l’Italia moderna spesso ha tristemente mostrato di non possedere. E pur se la guerra ha consentito l’incontro con gli altri e di annodare un rapporto con i propri simili, non ha tuttavia destato la necessità di costruire un legame collettivo su larga scala.

Nel ventennio fascista, anche a Galatina, approdano agli studi medi superiori i figli del ceto medio.

A costoro, tenendo conto che una letteratura che aspiri al rinnovamento interiore non può che cominciare dalla cellula dell’uomo, viene proposta una letteratura che indica una prospettiva esistenziale, quale rifugio in una solitudine individuale che può essere interpretata anche come protesta morale. Si pensi a Borgese e a Tozzi e a Pirandello. Prevale tuttavia durante il fascismo una narrativa che esalta e celebra i riti piccolo-borghesi come il matrimonio, il risparmio, il lavoro, la prudenza, la morigeratezza e la patria, cioè tutti quei valori che si ritengono buoni perché hanno ripudiato le tensioni sociali e fanno coincidere la salvezza con l’egoismo individuale, e pertanto non hanno educato l’individuo a sentir pulsare la coscienza europea. In questo modo ai giovani è stato impedito di salire ad una propria concezione del mondo, perché a loro è stata negata ogni connessione tra i fatti intellettuali ed i gruppi sociali, laddove per la propria Weltaschaung sarebbe stato necessario l’uso degli strumenti intellettuali idonei a verificare che i dislivelli di cultura tendono a coincidere con i dislivelli di potere socio-economico.

Veicoli di quei valori sono stati in quegli anni, fra la gioventù studiosa di Galatina, i romanzi di Liala e di Mario Mariani, la Donna mia di Salvator Gotta, le novelle di Lucio D’Ambra e di Virgilio Brocchi, Doricocefala bionda di Pitigrilli (Dino Segre), Le cose più grandi di lui di Luciano Zuccoli. E tuttavia quella narrativa non è valsa da scorato rifugio nel grigiore del mondo quotidiano. La gioventù studiosa di Galatina in quegli anni è stata l’emblema della piccola borghesia provinciale italiana che, ignara delle complicazioni morbose del pensiero e della sensibilità moderna, ha vissuto una condizione di fiacchezza e di estenuazione spirituale e di sfiduciato abbandono sulle panchine della villa comunale, dove ha dissipato la consuetudine di una vita banale e la malinconia di giorno torpidi e mediocri, quasi presagio del nulla incolore in cui precipitano tutte le cose umane.

Le fanfare più o meno eroiche ed erotiche dell’ultima poesia italiana durante il fascismo le ha suonate Gabriele D’Annunzio, al quale, tuttavia, gli studenti galatinesi non hanno chiesto l’antidoto alle proprie frustrazioni vitali. A D’Annunzio hanno preferito scrittori meno sofisticati, a mezzo tra frivoli e mondani e galanti come gli scrittori sopra citati e, fra tutti, Guido Da Verona, autore di Colei che non si deve amare, La donna che inventò l’amore, Mimì Bluette, fiore del mio giardino, Sciogli la treccia, Maria Maddalena, romanzi la cui lettura ha costituito motivo e momento di evasione per tutte le sartine e le crestaie d’Italia, ma anche per i ragazzi del 1899, scaraventati nelle trincee del Carso durante la prima guerra mondiale. L’accostamento non sembri anomalo ed improprio, giacché nell’esperienza degli uni e delle altre si sono riversate tante frustrazioni quanto grande è stato lo spessore delle aspirazioni strozzate.

D’altra parte chi volesse giustificare quelle letture, sbaglierebbe adducendo una ragione di ordine decadente, come può essere il prodotto di un’iniziativa stimolata dal rifiuto della realtà, motivo che darebbe alla lettura di Guido Da Verona un carattere estetizzante che essa non ha avuto. Piuttosto bisogna pensare al fatto che per la gioventù studiosa la materia d’amore, oltre i confini della poesia e della filosofia, del lògos e del mythos, è stata ed è sempre parte viva delle piacevoli conversazioni del suo mondo allegro, anche per via dei suoi anni fatti di baldanza e di confidenza. Concetto Marchesi ha così schematizzato l’amore nel mondo antico: “E’ l’amore come passione, quindi da fuggire; è la virgiliana ferita che vive silenziosa nel cuore; il desiderio insaziato e torturante di Catullo: l’amore che non ha per oggetto la donna, ma una donna: quella che s’incontra e non si cerca”.

Francesco Flora ha rivenuto, per parte sua, nella narrativa di Guido da Verona la tradizione dannunziana resa più didascalica. Questo giudizio va temperato nel senso di non dover vedere nell’opera dello scrittore il contenuto didascalico della tradizione ovidiana dell’Ars amandi, vale a dire un codice galante, bensì un contenuto che non ama le idee profonde, che i giovani giudicano pedantesche, né le passioni che trovano ingombranti, un contenuto, insomma, in cui molte cose umane sono osservate, intuite od immaginate e poeticamente espresse con elegante psicologia. Allora la funzione didascalica della tradizione dannunziana presente, secondo il critico, nelle pagine di Guido Da Verona, assume un altro significato. In che cosa esso consisterebbe? Nel rimettere in azione in un processo ricreativo quelle medesime cause che l’uomo ha in sé, nella sua natura, cioè nella scoperta dell’universale umane di cui si intesse la storia dell’umanità. Per esemplificare meglio la nostra argomentazione, possiamo affermare che nella pigra e sonnolenta provincia italiana dell’era fascista, la gioventù studiosa ha rinvenuto in Guido Da Verona quello che si cerca a quell’età, e cioè l’impulso a volgere il primo stupito sguardo sulla propria ferinità, un processo questo che segna il primo grado dell’umano come panica esaltazione della vita.

La narrativa daveroniana, allora, è stata didascalica, ma solo nel senso che ha aiutato i giovani – almeno quelli che hanno letto, capito e meditato – a vedere nell’erotismo e nella sensualità il mezzo per attingere la vita segreta e profonda dell’io, che in un primo tempo sfugge alle indagini dell’intelletto e della scienza, ma successivamente, anche grazie alla suggestione immediata dei sensi, perviene ad un grado di maturazione che impegna l’altezza della mente o dei sentimenti profondi dell’essere. In tutto questo crediamo che non ci sia nulla di estetizzante, se per estetismo si intende trionfo della vitalità istintiva, affermato come norma unica di vita e fuori da ogni problematica morale. Invero nella narrativa di Guido Da Verona convergono contenuti propri della canzone-racconto allora in voga (si pensi a Come pioveva del fine dicitore Armando Gill), ma anche della canzone di contenuto popolare (come Spazzacamino, Balocchi e profumi, Addio Tabarin), in cui è riflesso un periodo di forti contrasti sociali in anni di grande povertà e di mancanza di lavoro, ma soprattutto converge lo spirito di un ballo ritmato da una musica evocatrice di una psicologia erotica, che stregava i liceali galatinesi. Alludiamo al ballo popolare denominato tango, in cui si fondono motivi psicologici messicani, cubani e haitiani, ma soprattutto è mitizzata la libertà sconfinata delle pampas argentine. Il protagonista argentino del tango è stato il compadrito, “una specie di teppista urbano che veste colori sgargianti, fuma come un maledetto, regge le sbornie, sa maneggiare il coltello e vive alle spalle di qualche donna” (Vené). Il tango ha rappresentato il peccato che nasce dal piacere proibito, ma anche il mistero di paesi lontani e la passione che consuma e distrugge. Tutti questi elementi, col loro spirito e con la loro suggestione sono rifluiti nei personaggi maschili e femminili della narrativa di Guido Da Verona, e da essi la nostra gioventù studiosa nel ventennio fascista ha tratto motivo di evasione dal circoscritto e meschino mondo piccolo-borghese.

Tra le letture di quegli anni resta tuttavia significativo il ruolo di Gabriele D’Annunzio, nel senso che la sua popolarità riguarda soprattutto gli anni Venti e vive tra i reduci della grande guerra, mentre meno interesse per la sua opera hanno i giovani degli anni Trenta, nati nel dopoguerra, quasi che essi si rendano conto che la conseguenza più funesta dell’estetismo d’annunziano sia la confusione tra vita e letteratura per cui, aspirando a far della vita opera d’arte, si celebrano come spettacoli affascinanti la violenza, la guerra e la carneficina.

Intanto si scopre in quegli anni, nella vecchia libreria di casa dell’avv. Emilio Galluccio, la veneranda edizione zanichelliana di Postuma di Olindo Guerrini contenente la raccolta completa anche delle poesie politiche. In quei versi si rinviene qualcosa di nuovo, di inatteso, qualcosa che la scuola non ha mai saputo mettere a nudo: un solidarismo di tipo plebeo e contadino da parte del poeta.

Questa scoperta ci rinnova, stimola in noi impulsi di ricerca. Siamo nel 1935-1936, al tempo della guerra etiopica. Ci accorgiamo così che un largo spazio dell’ispirazione poetica di Guerrini è occupato anche da violente poesie contro le imprese coloniali italiane nel tempo in cui il Pascoli scrive il prologo del nazionalismo italiano La grande proletaria si è mossa. Nasce così un nuovo contenuto spirituale: la protesta, l’indignazione.

Ed ancora. Non è mancato fra noi, sempre in quegli anni, il lettore appassionato di romanzi di avventura e di fantasia. Un posto di privilegio va assegnato a La tigre della Malesia di Emilio Salgari. L’esaltazione frenetica della qualità animalesche dell’eroe Sandokan è stata, per il lettore di allora, l’esatto rovescio del razzismo, della “morale” coloniale.

Oggi noi sappiamo che molti giovani nel mondo operaio ma anche delle professioni hanno fatto silenziose economie nell’unica università che sotto il fascismo è stata la prigione, sulla quota di una lira al giorno con cui bisognava mangiare, fumare e pagare la corrispondenza, al fine di poter acquistare un testo di statistica o di lingue straniere e talora, per poter scrivere, hanno fatto anche il gesso con la colla, rischiando la sanzione punitiva del pancaccio.

Rispetto a sacrifici di questo genere, l’isolamento, il torpore, la noia in cui sono vissuti i giovani negli anni Trenta a Galatina, pur se traversati da immancabili, naturali fiammate di spirito giovanile, sono un modesto tributo di esperienza, e tuttavia restano come ricordo e testimonianza di una gioventù che in un’epoca depressa ha sentito il bisogno di una scienza e di una cultura viva, per lavorare più e meglio, per lavorare uomini tra uomini.

[Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 125-130]

 

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