di Gianluca Virgilio
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Gennaro Perrotta – Giorgio Pasquali
Il latinista e grecista Gennaro Perrotta (Termoli, Campobasso 1900 – Firenze 1962) rievoca il suo primo incontro con Giorgio Pasquali avvenuto nel novembre 1916 a Firenze in occasione del concorso per una borsa di studio all’Università. Il ritratto del Pasquali è quello d’un maestro severo ed umano, capace di cogliere in una battuta – giudicata da chi la pronunciò troppo audace – l’intelligenza dell’allievo. Anche questo può costituire un felice inizio d’un’amicizia e d’una collaborazione.
Il ricordo del Perrotta si legge in un suo discorso celebrativo del 1943 in onore di Pasquali, che in quell’anno era stato chiamato a far parte dell’Accademia d’Italia. La tipologia è quella dell’incontro scolastico.
Tempo d’esami
Io lo [Pasquali] conobbi in un’auletta squallida dell’Istituto di Studi Superiori di Firenze, in uno squallido mattino di novembre del 1916. Ero un ragazzo di sedici anni, venuto da un paese di provincia a concorrere per una borsa di studio. Il mio timore reverenziale era grande. I professori universitari, allora, mi parevano numi: bella cosa, se tali mi paressero ancora! Ma io e gli altri compagni di concorso non fummo atterriti né dal sorriso ironico e luminoso del Padre Ermenegildo Pistelli, né dalla barba dignitosa di Felice Ramorino. Ci atterrì proprio lui, Pasquali. Giovanissimo, aveva fama di terribile; e non giovava a darci coraggio nemmeno il suo aspetto di studente anziano in vacanza. Negli scritti d’italiano e di latino eravamo andati bene, chi più, chi meno, un po’ tutti; la commissione aveva deciso di dare un tema di greco difficile, per eliminare i meno meritevoli. Pasquali non intese a sordo. Scelse un passo brevissimo delle Operette morali di Plutarco: era un periodo solo, ma che valeva per cento. E poi, dettato il tema, ci spiegò subito, con bella franchezza, perché la commissione aveva deciso a quel modo. Naturalmente rimanemmo instupiditi: ci aveva annientati tutti, buoni e cattivi, con un colpo solo. Ma Pasquali è come la lancia di Peleo, che ferisce e risana. Mi vide più spaurito degli altri, mi si avvicinò e mi disse: “In italiano e in latino hai fatto meglio di tutti; me l’ha detto l’uccellino”. “Sarà stato un uccellino con la tonaca”, io risposi con folle audacia. Così nacque la nostra amicizia. Purtroppo, quella sua bontà non bastò a portarmi fortuna per il lavoro di greco. Con i periodi farraginosi e artificiosi di Plutarco noi, ragazzi appena usciti dal liceo, non avevamo proprio nessuna confidenza. Facemmo tutti maluccio; e fecero forse peggio i meno stupidi, perché, invece di tradurre parola per parola, senza preoccuparsi del senso per evitare guai maggiori, vollero trovare un senso ad ogni costo, che andava, sì, ma che le parole greche non potevano avere. Dopo quel terribile esame, chi pensava più di poter vincere la borsa?
Ma quando, alla prova orale, tradussi bene all’improvviso due passi dell’Odissea, Pasquali era più felice di me. E quando, un anno dopo aver vinto il concorso, ebbi trenta e lode all’esame di grerco, fu per me una consolazione, ma per lui un trionfo.
Gennaro Perrotta, Intelligenza di Giorgio Pasquali, in “Quaderni urbinati”, Nuova serie 21, n. 3 – 1985, p. 8, già ne “Il Primato” IV I, 1° gennaio 1943, pp. 5-6.
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Antonello Trombadori – Giorgio Labò
Il dirigente comunista Antonello Trombadori (Roma 1917) ricorda il primo incontro con il partigiano comunista Giorgio Labò, che gli chiede di entrare nei Gap durante la guerra partigiana contro tedeschi e fascisti nel 1943. L’anno dopo Giorgio Labò, arrestato dalle S.S. e torturato nelle prigioni di Via Tasso a Roma, sarà fucilato. Il brano qui riportato è parte del necrologio di Labò. L’incontro rientra nella tipologia dell’incontro-convegno.
Esplosivo!
Ho conosciuto Giorgio Labò nel mese di Novembre 1943.
Non l’ho conosciuto per caso. Mi ha voluto conoscere lui perché sapeva della mia attività in Roma contro i tedeschi e i fascisti. Ma non voleva conoscere me al quale poteva essere legato anche da una affinità di professione intellettuale: voleva conoscere me per conoscere il Partito poiché sapeva che soprattutto nella organizzazione politica della classe operaia si combatte la lotta nazionale di liberazione del nostro Paese. Così la prima volta non parlò con me di altre cose, che non fossero tedeschi e fascisti da ammazzare, guerra partigiana da combattere, e da combattere senza temporeggiare. Mi disse che lui conosceva gli esplosivi, sapeva costruire le bombe, far saltare un binario, un ponte, un palazzo. Queste cose me le disse subito, senza reticenze , a cuore aperto. Ma io guardavo anche il suo fisico tozzo, e duro, il suo volto tirato come un pugno chiuso, e i suoi occhi sorridenti. Poi mi disse che sempre gli avevano fatto grande impressione i racconti dei minatori delle Asturie, durante la guerra di Spagna, e che, secondo lui, era venuto il momento di mettere in pratica le sue capacità di artificiere, per essere fedeli al sangue di tanti martiri e di quei minatori spagnoli. Lo feci entrare nella cellula degli artificieri dell’organizzazione romana. E cominciò a lavorare.
Antonello Trombadori, Giorgio Labò, in “La Rinascita”, anno I°, n. 3, Agosto-Settembre 1944, p. 17.
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Ernesto Buonaiuti – Giorgio Tyrrell
Ernesto Buonaiuti (Roma 1881 – ivi 1946) nell’estate del 1907 si reca in Inghilterra per incontrare il teologo irlandese Giorgio Tyrrell (Dublino 1861 – Storrington, Sussex, 1909), col quale la consonanza spirituale è perfetta in conseguenza di un medesimo progetto culturale ed evangelico, conosciuto col nome di modernismo. Sul modernismo presto si abbatterà la reazione della Chiesa, che per un intervento “soprannaturale” ai due è dato di intuire nel momento del congedo (l’enciclica Pascendi dominici gregis con la quale Pio X condannò il modernismo fu divulgata nel settembre dello stesso anno). La commossa rievocazione di Buonaiuti si legge nelle memorie scritte negli ultimi anni della sua vita e pubblicate nel 1945 col titolo La generazione dell’esodo. La tipologia dell’incontro è quella della visita.
Prima della bufera
Nell’estate del 1906 ero salito a Ceffonds per conoscere di persona Alfredo Loisy[1]. Nell’estate del 1907 volli avvicinare Giorgio Tyrrell e mi recai in Inghilterra. C’incontrammo a Brighton. Quale diversità di temperamento e di orientamento dall’esegeta francese! Qui, sì, la mia anima si sentì, non rattrappita e conturbata dal sorriso amaro e scettico della disperazione religiosa, bensì, al contrario, sollevata e illuminata dalla luce di una speranza raggiante. L’ex-gesuita non era stato ancora privato delle sue capacità sacerdotali, non era stato reietto dalla visibile società dei credenti. Le sue opere capitali Lex orandi, Lex credendi, erano lì come testimoni di una sensibilità sempre desta e raffinatamente acuta a tutte le più esili corrispondenze fra il gesto rituale e la trascrizione concettuale, nell’orizzonte di una vita religiosa ed evangelica sanamente intesa e intensamente praticata. Parlammo a lungo del nostro comune compito di domani, della nostra solidarietà attraverso tutti i rischi e tutte le sue amare peripezie. Non sapevamo e non avremmo potuto prevedere che l’uragano fosse tanto prossimo, e che, al suo irrompere, ci saremmo trovati, noi tutti aggregati alla nuova crociata, ancora così immaturi, così inesperti, così profondamente scissi l’uno dall’altro. Ma quando nell’ora del commiato noi ci confessammo a vicenda i nostri propositi e la nostra volontà di dedicare, fino all’ultimo respiro, le nostre esistenze ad un lavoro di disseminazione in pari tempo culturale ed evangelico, che sfidasse simultaneamente tutte le insidie dei procedimenti inquisitoriali e tutte le mordaci ed apati ostilità del mondo incredulo ed epicureo, avviato al più tragico dei naufragi, qualcosa di soprannaturale investì le nostre anime, e le strinse in un vincolo che non la lontananza, non la morte, avrebbero potuto spezzare. Ci separammo piangendo.
Ernesto Buonaiuti, Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, Laterza, Roma-Bari, 1964, pp. 69-70.
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Giorgio De Chirico – Anonimo pittore milanese – Pablo Picasso
Il seguente brano è tratto dalla prima parte delle Memorie della mia vita di Giorgio De Chirico (Volos, Grecia 1888 – Roma 1978), edita per la casa editrice Astolabio nel 1945. Il pittore polemizza con la tendenza esterofila di molti artisti italiani negli anni tra le due guerre, e racconta un simpatico aneddoto che ha per protagonista un anonimo pittore milanese colto da improvvisa e perdurante afasia in conseguenza del primo incontro fortuito nelle strade di Parigi col celebre Pablo Picasso.
La pena dell’idolatra
Per dare un’idea di fino a qual punto può giungere oggi nei nostri artisti l’esterofilia o, meglio ancora, l’esterolatria, basterebbe dire che alcuni anni or sono un nostro pittore si era recato a Parigi per sentire l’odore di quella città-calamita e vedere gli originali dei “capolavori” di Braque, di Matisse e di altri fabbricatori di pseudopittura, nei santuari della Rue de La Boétie.
Mentre dunque si trovava a Parigi, il nostro pittore, una mattina insieme ad un suo amico italiano che abitava da parecchi anni la capitale francese passò appunto nella famosa Rue de La Boétie. A un certo punto s’incontrarono con Picasso che transitava da quella parte; l’italiano di Parigi, che conosceva Picasso, si fermò per presentare il suo amico al celebre pittore spagnolo; ma quando il nostro pittore udì il nome di Picasso e capì che quel signore che si era fermato a parlare con loro era proprio lui, era proprio Picasso in carne e ossa, fu preso da una crisi di brividi e di scosse nervose; aprì la bocca ma non poté articolare una parola; emise qualche grido rauco, mentre la mascella gli tremava; aveva perso la favella: era diventato muto. Partito che fu Picasso e poiché il nostro pittore continuava ad emettere suoni rauchi, a tremare ed a non poter parlare, l’amico suo, impressionato, lo prese per un braccio e lo portò nella più vicina farmacia. Là un dottore, che si trovava in attesa di clienti, lo visitò, disse che si trattava di una forte scossa nervosa, che probabilmente era un soggetto molto emotivo (ma oggi di questi emotivi in Italia ce ne sono intere legioni), però aggiunse che la cosa non era preoccupante. Il dottore domandò all’amico dell’ammutolito se per caso questi non avesse ricevuto dalla famiglia una grave notizia. L’amico rispose evasivamente non potendo dire che il fatto era la conseguenza di un incontro con Picasso. Il dottore consigliò un calmante a base di bromuro e di tintura di valeriana e disse all’ammutolito di tornare all’albergo, di coricarsi e di procurare di dormire. Fu soltanto la sera di quel giorno, verso le dieci, che il pittore milanese riacquistò la favella e allora l’amico lo accompagnò fuori, reggendolo sotto al braccio come un convalescente e lo condusse al Caffè du Dome a mangiare qualcosa.
“Però,” soleva dire in seguito “mentre si stava là, a cenare, ero molto preoccupato, poiché mi ricordai che Picasso, qualche volta capitava a Montparnasse la sera e veniva proprio al Caffè du Dome e temevo che il mio amico se l’avesse visto ancora una volta ridiventasse di nuovo muto e questa volta per il resto della sua vita”.
Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita [1945-1962], Bompiani, Milano 1998, pp. 91-92.
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Bernard Berenson – Gabriele d’Annunzio
Alla data 1 settembre 1946 del suo diario, il critico e storico dell’arte Bernard Berenson (Butremanz, Vilna, Lituania 1865 – Settignano, Firenze 1959) rievoca il primo incontro con Gabriele D’Annunzio a Firenze sul finire del secolo XIX, cui fa seguito una sporadica frequentazione. I due protagonisti dell’incontro hanno ben poco in comune: cultore d’arte Berenson, esteta D’Annunzio, conversatore raffinato Berenson, monologhista instancabile D’Annunzio. Questo, naturalmente, dal punto di vista di Berenson. Non ci si meravigli, dunque, se da ultimo, nel 1926, il Berenson, pur scorgendo il profilo di D’Annunzio in un palco alla Scala, non senta “il minimo desiderio di riavvicinarlo”. L’incontro rientra nella tipologia della presentazione.
Una persona eccezionale
Lo [D’Annunzio] conobbi verso la fine del secolo scorso, nel ristorante Doney, che allora si trovava al primo piano sopra alla pasticceria famosa in via Tornabuoni, ed era frequentatissimo dalla società elegante fiorentina. Non mi ricordo come andò che gli fossi presentato: probabilmente fu un amico comune, forse Carlo Placci, che capitando da Doney e trovandoci lì tutti e due, ci riunì al suo tavolo. Naturalmente avevo notato D’Annunzio già prima di parlargli. Dava troppo nell’occhio con l’esagerata e ricercata eleganza del vestire e con quell’aria di chi sa di essere una persona eccezionale. Né si poteva fare a meno di essere colpiti dal timbro della sua voce.
Ci trovammo subito d’accordo discutendo di vocaboli, della loro storia, delle loro sorprendenti metamorfosi, che finimmo per chiamare “détournements de mineurs”. Mi ricordo che ridemmo insieme della parola inglese “kerchief”, deformazione del francese “couvrechef”, poi diventata “handkerchief”, fazzoletto, e, infine, “pocket handkerchief”, fazzoletto da tasca.
In seguito, dopo il 1900, ci trovammo ad essere vicini di villa, lui alla Capponcina e io ai Tatti, e collegati da quelle stesse strade così mirabilmente descritte da lui nella prefazione del suo “Cola di Rienzi”. A quell’epoca il D’Annunzio era incatenato dall’amore e dai capricci di una nobile dama. Vennero tutti e due a trovarmi più di una volta e notai quanto D’Annunzio diventava impacciato in presenza di quella donna eccezionale e come si risentisse della superiorità sociale di lei. Preferivo vederlo solo o in compagnia di altri uomini. La presenza di una donna e, peggio ancora, di varie donne e l’atmosfera di adulazione che da essa o da esse si sprigionava, lo rendeva di colpo istrionico e spaccone. Eppure proprio le donne trovavano D’Annunzio irresistibile. Ricordo di aver sentito signore di insospettabile condotta asserire – e perfino in presenza dei propri mariti – che se D’Annunzio avesse voluto fare la loro conquista non avrebbero avuto la forza di dire di no.
Come molti latini, D’Annunzio era più monologhista che conversatore, e con la voce, i gesti, l’intreccio delle parole incantava l’ascoltatore. La politica a quell’epoca non lo preoccupava affatto e i suoi temi preferiti erano quasi sempre filologici e letterari. Sarebbe stato inutile, per me, parlargli del mio lavoro, perché gli mancava qualunque senso di qualità per le arti visive. Pur essendo un così raffinato delibatore di parole, il suo gusto in materia d’arte o di arredamento era pessimo. Alla natura, alla bellezza del paesaggio reagiva, invece, in modo assai schietto e immediato.
Dopo il dissesto finanziario e la fuga in Francia, non rividi più D’Annunzio fino all’ottobre del 1926, quando, trovandomi a Milano per ascoltare tutto il ciclo delle sinfonie di Beethoven diretto da Toscanini alla Scala, scorsi durante un intervallo il suo profilo fortemente illuminato dall’interno del palco in cui sedeva. Stava parlando animatamente con una donna dall’aspetto vivace e attraente. Mi dissero che era la pianista Baccara. Non posso dire che dopo tutte le sue megalomaniache avventure provassi il minimo desiderio di riavvicinarlo.
Bernard Berenson, Pagine di diario II, Letteratura/Storia/Politica 1942-1956, Electa Editrice / Milano, 1959, pp. 199-201.
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Eugenio Montale – Thomas Stearns Eliot
In questo articolo apparso sul “Corriere della Sera” il 28 dicembre 1947 Eugenio Montale (Genova 1896 – Milano 1981) racconta il suo primo incontro col poeta americano da lui tradotto, Thomas Stearns Eliot (St Louis, Missouri, 1888 – Londra, 1965), avvenuto qualche sera prima a palazzo Borghese, a Roma, in occasione dei festeggiamenti in suo onore. L’incontro si riduce ad una formale stretta di mano (uno shake hand), con in più lo scambio di qualche cortese parola di circostanza. Si noti come Montale sottoponga il topos del primo incontro ad una “riduzione di tono” (si pensi per un confronto, ad esempio, al tono solenne dei racconti del primo incontro con Carducci): Eliot non “irradia” intorno a sé alcun fascino, non occupa il primo piano della scena mondana, le sue mani, che D’Annunzio avrebbe osservato (vedi l’incontro D’Annunzio-Pascoli), e gli occhi rimangono irraffigurabili, la sua voce anonima come quella d’un disco. Sicché, in definitiva, diamo ragione a Montale che avrebbe preferito incontrare Eliot in casa sua, magari in pantofole.Per il particolare delle pantofole, si veda l’incontro Marabini-Montale del 1969 in questa raccolta.
L’incontro rientra nella tipologia dell’incontro-convegno.
Uno shake hand
Contrariamente all’opinione diffusa che non possa esistere grand’uomo per il suo cameriere, io gli uomini importanti vorrei sempre sorprenderli a casa loro, in pantofole. Meglio i rischi di una riduzione di tono che gl’inconvenienti di una maschera sovrapposta, tenuta per obbligo e spesso insincera. Sere fa, a palazzo Borghese, a Roma, salendo le molte scale – in fondo alle quali era rimasta una turba di invitati che urlavano invano “ascensore, ascensore!” senza aver la forza magica di farlo discendere – io ero in procinto di scambiare il primo shake hand della mia vita con T.S. Eliot, cioè col poeta di cui oggi più si parla al mondo, e rimpiangevo di non averlo fatto prima, nel 1933, quando ebbi la fortuna di transitare in Russel Square presso gli uffici degli editori Faber and Faber dove il poeta ha recapito.
Appena entrato nel vetusto appartamento – una scena hoffmanniana da Principessa Brambilla – vidi con piacere che Eliot non ingombrava la sala né fisicamente né con alcuna sorta di irradiazione. Bisognava cercarlo con lo sguardo, ricordarsi delle sue fotografie, guardarsi intorno. Era lui, non era lui?
Thomas Stearns Eliot è alto, ma non da misurarsi con una pertica, magro ma ben piantato, stout; piuttosto un uomo smagrito che uno smilzo per natura. Dev’essere timido ma l’abitudine agli inevitabili contatti ha vinto in lui ogni eccesso di suggestione. Dietro gli occhiali a stanghetta i suoi occhi sono probabilmente azzurri e profondi; confesso di non essermi fissato, stavolta, su questi due punti essenziali, occhi e mani. Mi stupisce il suo perfetto accento da disco “Fonoglotta”, intelligibile anche ai non iniziati. Scambiamo alcune parole, gentilmente ricorda mie traduzioni di poesie sue e un mio scritto apparso nel “Criterion”.
Eugenio Montale, Buon viaggio, Mr. Eliot, in Il secondo mestiere. Prose I, Mondadori, Milano 1996, pp. 719-720.
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Giovanni Papini – Federico Nietzsche
Riporto di seguito due racconti del primo incontro scritti da Giovanni Papini (Firenze 1881 – ivi 1956) in quella sorta di autobiografia intellettuale che va sotto il titolo di Passato remoto 1885-1914, pubblicata nel 1948.
Nel primo, si narra la fugace apparizione di un grand’uomo, Friedrich Nietzsche (Rocken, 1844-Weimar 1900); una visione, o forse, semplicemente, il frutto d’una suggestione adolescenziale. Il ricordo poi ha fatto il resto, a tal punto che Giovanni Papini sembra giurare a distanza di molti anni di non essersi affatto ingannato: si trattava proprio di Nietzsche. Si noti, in conclusione, come questa apparizione acquisti per Papini un significato paradossale: l’anticristo, ovvero Nietzsche, accarezza il futuro autore della Storia di Cristo, Papini! Siamo a Firenze, al sorgere del secolo XX, su una delle scene più belle d’Italia, il Lungarno fiorentino. La tipologia è quella dell’incontro fortuito.
La carezza dell’anticristo
D’inverno, quando il tempo era sereno e regnava il sole, la mamma mi portava, prima del tramonto, sul Lungarno per vedere il ritorno dalle Cascine. A quei tempi i signori e gli stranieri andavano ogni giorno, come per un rito, lungo il fiume, fino alla tomba del principe indiano, eppoi tornavano tutti insieme verso la città. Era, quel festoso rientro, uno degli spettacoli più cari ai fiorentini, che allora si contentavan di poco.
[…]
Volentieri ci si addossava, per goder meglio la sfarzosa fiumana delle carrozze, al muro di un grande albergo, fatto di bugne di marmo bianco e mi piaceva accarezzare con le mani quel marmo bianco, intiepidito dal sole. Un giorno che s’era appoggiati a quel muro bianco passarono accanto a noi due uomini d’alta statura, indubbiamente stranieri. Uno di loro, vedendomi, si fermò e mi guardò. Io pure, un po’ stupito, lo fissai sì che mi rimase impressa la sua strana figura. Portava lenti molto grosse e due baffi enormi: la faccia era larga e carnosa ma grave e un po’ triste. Ad un tratto allungò la destra, accarezzò un istante con affettuosa delicatezza i miei riccioli biondi e disse qualche parola al suo compagno. Poi tutt’e due si mossero e più non li vidi. Mia madre era tutta raggiante per quell’omaggio, benché non insolito, a quel suo figliolo così diverso dagli altri. In me rimase, per lungo tempo, l’immagine inconsueta di quell’uomo dai grandi baffi, che mi aveva guardato e accarezzato, tanto più che simili gesti di ammirazione mi venivan rivolti quasi sempre da donne.
Molti anni dopo mi capitò di vedere, in un libro, il ritratto, somigliantissimo, dello sconosciuto che s’era fermato dinanzi a me in quel lontano giorno. Il cuore mi sobbalzò di commossa meraviglia: era il ritratto di Federico Nietzsche.
Era forse un abbaglio della mia fantasia giovanile, tanto sedotta, in quel principio di secolo, dal poeta filosofo di Rocken? Ma qualche anno dopo, quando furono pubblicate le lettere di Nietzsche, ebbi la conferma che l’incognito carezzatore dei miei capelli era stato davvero l’autore di Zarathustra. Proprio in quell’anno del mio ricordo un suo ammiratore tedesco, Paolo Lanzki, direttore dell’Albergo della Foresta di Vallombrosa, lo aveva invitato come suo ospite lassù e Nietzsche aveva trascorso alcuni giorni a Firenze, per l’ultima volta. E anche oggi sono certo che il futuro scrittore della Storia di Cristo fu sfiorato un istante, in un chiaro tramonto d’autunno, dalla mano che scrisse L’Anticristo.
Giovanni Papini, Passato remoto 1885-1914, Ponte alle Grazie, Firenze, 1994 (1948), pp. 3-5.
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Giovanni Papini – Giosue Carducci
Anche in questa narrazione Giovanni Papini racconta un’apparizione improvvisa e inaspettata: Giosue Carducci, ormai vecchio, accompagnato da Desiderio Chilovi, bibliotecario della Nazionale di Firenze (dove avviene l’incontro) sfiora il giovane Papini che, seduto nella sala di lettura, balza in piedi come un fante al passaggio del suo generale. Il poeta subito scompare dentro la sala dei manoscritti, sacerdote d’un culto sconosciuto ai più. Si noti la descrizione sommaria ma efficace del Carducci somigliante a un “fattore rimpulizzito”, che si trasfigura in guerriero dagli occhi “vividi e splendidi”.
Siamo a Firenze nel 1897. La tipologia è quella dell’incontro fortuito.
Il fattore guerriero
Non l’ho conosciuto ma l’ho visto. Nel 1897 in un pomeriggio bagnato e umiliante d’ottobre o novembre, ero alla biblioteca nazionale di Firenze. La quale biblioteca era uno stanzone lungo lungo con dei tavoloni vecchi vecchi e de’ seggioloni alti alti. Avevo dinanzi, mi pare, quel volume della collezione Rivadeneyra che contiene le Poesias anteriores al siglo XV e leggevo gli alessandrini ferrati del Poema del Cid.
Tan fuertemiente llorando…
Ma il volume era grande, la stampa era piccola e l’uggiosità della stagione infinita sicché spesso alzavo gli occhi verso l’alta vetrata ad arco del fondo a guardare i merli sgocciolanti del palazzo dei priori, traversato ogni tanto dall’ombre bianche e nere dei piccioni. E non pareva davvero quello il palazzo dove Giano della Bella e Michele di Lando e Girolamo Savonarola avevan parlato al popolo re fiorentino e quei piccioni, invece che uccelli di Venere o simboli dello Spirito Santo, mi sembravano bestie commestibili destinati al pollaiolo e al girarrosto.
Ma ecco che ad un tratto sento venire verso di me l’asma rumorosa dell’ansimante bibliotecario Desiderio Chilovi. Il quale accompagnava con gesti e parole di premurosa reverenza un ometto piuttosto tarchiato e di collo grosso, coi capelli grigi un po’ arruffati e la barba ricca, che poteva sembrare benissimo un fattore rimpulizzito. Ma quando mi fu vicino – sedevo all’ultimo bancone – lo riconobbi: era Carducci. Altre teste s’erano alzate dai libri; anche altri l’avevan riconosciuto e ammiccavano. Io, quando mi passò dinanzi, non so per quale spinta improvvisa, mi alzai in piedi, tutto confuso, come un fantaccino novizio che veda passare il suo generale. Il poeta volse verso di me, un momento, i suoi occhi e vidi che i suoi occhi erano bellissimi, tra i più vividi e splendidi ch’io abbia mai scoperto sotto fronte d’uomo a’ miei giorni. E quegli occhi mi trasfigurarono subito il fattore piccoletto in un’ardita faccia di guerriero dove la bianca tenerezza della vecchiaia smorzava la guardatura imperiosa del partigiano.
Il Carducci, sempre accompagnato da quell’asma ossequiosa, entrò nella stanza dei manoscritti che in quel tempo era in fondo, stanza nella quale, allora, non ero mai penetrato, e la sua porta mi pareva quella d’un santuario riservato ai grandi della filologia. E il vecchio poeta mi sparì lì dentro come un Dio corrucciato che va con passo franco tra i misteri vietati ai secolari.
Giovanni Papini, Passato remoto 1885-1914, Ponte alle Grazie, Firenze 1994 (1948), pp.64-65.
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Luigi Russo – Francesco Jovine
Il critico e storico della letteratura Luigi Russo (Delia, Caltanissetta 1892-Marina di Pietrasanta, Lucca 1961) nel necrologio scritto in occasione della morte di Francesco Jovine (Guardialfiera, Campobasso 1902 – Roma 1950) rievoca il suo primo incontro con lo scrittore molisano e ne rivendica la scoperta, contro lo scetticismo di un anonimo letterato romano à la page. Siamo in un momento cruciale della storia italiana, alla caduta del Gran Consiglio del fascismo, il 25 luglio 1943, cui rimane associato nella memoria il ricordo dell’incontro con Jovine. E’ “la primavera lieta degli antifascisti”. La tipologia è quella dell’incontro-convegno.
Messaggi augurali
Conobbi Francesco Jovine il 25 agosto 1943; ne ricordo la data precisa, perché congiunta ad avvenimenti, che si svolsero nel primo mese della caduta di Mussolini, quando a tutti pareva che un novus ordo si iniziasse nel mondo. Invero quella fu la primavera lieta degli antifascisti, che potevano venir fuori dai loro angolini o dalle prigioni o dai luoghi di confino, per incontrarsi e riconoscersi. Io avevo scritto del Jovine nel giugno o luglio di quello stesso anno sulla sua Signora Ava in un giornale di Napoli, “Il Mattino”, a cui accettai di collaborare perché si sentivano le aure del prossimo rivolgimento (il suo articolo, mi scrisse una vecchia amica di Napoli, l’ho letto come l’annunzio della primavera): il giornale capitò nelle mani dell’interessato, nel trambusto della grossa ruina del 25 luglio, quando l’attenzione era rivolta a decisivi avvenimenti e a tutto si pensava fuorché alla letteratura. Uguale sorte ebbe un mio articolo sul “Giornale d’Italia”, relativo a Giovanni Laterza, che era agli ultimi giorni della sua vita. Non erano articoli quelli, ma messaggi augurali, gonfi di speranza e di tenerezza, che ci mandavamo l’un l’altro nel presentimento e nella certezza dell’imminente ritorno alla libertà. Prima di inviare l’articolo sulla Signora Ava, avevo contrastato con un mediocre ma maligno letterato romano, il quale si sorprendeva di questa mia inclinazione per lo scrittore molisano, ma io non me ne diedi per inteso e ribattei che quel romanzo rivelava uno scrittore genuino che avrebbe fatto la sua strada. “Ma a Roma si dice…”. Ma di Roma e dei letterati romani, io non voglio saperne, rispondevo, perché chi più chi meno sono tutti uomini servili e pitocchi, salvi s’intende, aggiungevo con una riverenza, i grandi poeti Ugo Betti e Giuseppe Ungaretti, e mi mettevo a cantarellare del primo i famosi versi che non mi erano più caduti dalla memoria, scritti per ordine del suo duce: “Apriti o cielo, spalancati o mare. E’ Mussolini: comanda di passare”! Una certa sensibilità o durezza di moralista giova pure a qualche cosa per non lasciarsi travolgere, anche in letteratura, dal consueto conformismo.
L’incontro con il Jovine fu però non solo cordiale, ma affettuoso fin dal primo momento, contenuto però in termini di sobrietà, per essere io un cattedratico, fuori del circolo dei letterati à la page, e per essere lui assai schivo di lusinghe per tutti, e particolarmente per un critico che viveva nella solitudine dei suoi studi e delle sue passioni, e soleva dire tanto male di Roma, città dell’Apocalisse, quella che con le sette teste nacque e delle dieci corna ebbe argomento. Il Jovine mi espresse solo il rammarico che l’articolo fosse venuto fuori in un momento in cui si aveva altro per la testa, e mi pregò che nel quietarsi delle cose io lo volessi ristampare. Solo alla fine del ’45 potei soddisfare al desiderio dell’amico, e nel “Mercurio” di Alba de Cespedes e poi subito dopo nel secondo fascicolo del “Belfagor” del ’46, ripresi l’articolo allargandone la tela, per essermi riconfermato nella stima dello scrittore attraverso la lettura di altri suoi precedenti e susseguenti volumi.
Da allora si iniziò un’amicizia piena di rispondenze segrete, che io avvertii sempre più forti, quando di lì a poco fui colpito di schianto dalla morte di Adolfo Omodeo, nell’aprile 1946, e poi dalla morte di Guido De Ruggiero nel dicembre 1948. Gli amici della mia giovinezza “meridionale” se ne andavano tutti.
Luigi Russo, Ricordo di Francesco Jovine, in “Belfagor”, anno V, n. 4, 31 luglio 1950, p. 479.
40
Indro Montanelli – Giuseppe Marotta
Il giornalista-scrittore Indro Montanelli (Fucecchio, Firenze 1909) con verve tutta toscana racconta le curiose vicende che favorirono il nascere dell’amicizia con Giuseppe Marotta (Napoli, 1902 – 1963). E’ il primo incontro, una visita di Marotta a Montanelli nella sua stanza al “Corriere”, in cui ogni dissapore fu cancellato da un abbraccio fraterno. Lo scritto, prima di essere racchiuso in volume, apparve per la prima volta sul “Corriere della Sera” il 20 agosto 1952. La visita di Marotta risale ad alcuni anni prima (“anni fa” scrive Montanelli; e poi ancora: “E son passati tanti anni”), e precisamente al 1947, data di pubblicazione della prima raccolta di racconti dello scrittore partenopeo cui si fa cenno nel testo, L’oro di Napoli, che Indro Montanelli aveva recensito per il “Corriere della Sera”.
Un’amicizia a sghimbescio
La mia amicizia con Marotta cominciò, anni fa, in un modo abbastanza curioso. Fra le altre cose che leggevo di lui perché mi divertiva, c’era anche la corrispondenza che egli teneva col pubblico di un settimanale, che gli poneva le più strane domande. Nelle risposte che Marotta dava, tutte estrose, e impertinenti e a sghimbescio, quasi in ogni numero trovava il modo di tirarmi, almeno una volta, in ballo, per rivolgermi qualche insolenza. Perché lo facesse, nemmeno ora che siamo diventati amici (e son passati tanti anni) sono riuscito a saperlo, e credo che nemmeno lui lo sappia. Comunque, a un certo punto, gli mandai un biglietto che diceva: “Caro Marotta, checché tu faccia, non ti riuscirà mai costringermi a detestarti. Mi piace il tuo stile, mi piacciono i tuoi racconti, mi piace il tuo litigioso umorismo, e ne avrai una prova mercoledì quando sul Corriere apparirà un mio articolo sul tuo libro, che considero uno dei più belli da me letti in questi ultimi anni. Dopodiché puoi continuare a parlare male di me. Io seguiterò a parlare bene di te”. A giro di posta ricevetti la seguente risposta: “Caro Montanelli, che gioia la tua lettera! Ma, visto che sei così ben disposto nei miei riguardi, cerca di ritardare la comparsa di quel tuo articolo sino a venerdì. Perché giovedì esce ancora un mio nuovo attacco contro di te. Che importanza ha che noi iscriviamo nel registro dello stato civile questa nuova amicizia due giorni dopo invece che due giorni prima? Agli effetti della leva militare, riconoscilo, è lo stesso…”. Feci ritardare il mio articolo a venerdì, posponendolo così di ventiquattro ore alle sue ultime invettive. E il sabato, Marotta venne a trovarmi al giornale. Entrò nella mia stanza come un cane che tema di ricevere una pedata e mi fissò con occhi umili e buoni prima di abbracciarmi in risposta al mio abbraccio. Era commosso e pentito, si vedeva chiaro, come gli càpita ogni volta che si trova costretto a constatare che c’è qualcuno, a questo mondo, che non lo odia: cosa che lo sorprende sempre moltissimo e che non è detto che gli faccia proprio piacere. Un giorno confidò a un comune amico, che gli chiedeva come stava: “E come vuoi che stia?… Male, sto… Non posso nemmeno più attaccare Indro…”. “Perché? Gli vuoi bene?” rispose l’altro. “Che gli voglio bene si sa, ma non vorrebbe dire” rispose Peppino. “Il guaio è che anche lui vuol bene a me…” E stava per soggiungere probabilmente: “Sono cose che non si fanno, via!…”.
Indro Montanelli, Marotta, in Incontri italiani, Rizzoli, Milano 1982, pp. 155-156.
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Roberto Longhi – Enrico Reycend
Il giovane critico d’arte Roberto Longhi (Alba, 1890 – Firenze, 1970), “scopre” nel 1917 il pittore Enrico Reycend (Torino, 1855-1928) che colloca tra gli impressionisti. Per avere conferma di questa intuizione decide di far visita al pittore ormai vecchio, che, trascurato e misconosciuto, lavora ancora nel suo “povero studio” di Torino. Va, dunque, a trovarlo, e ne ricava un’impressione che metterà a frutto solo in seguito, quando individuerà l’esatta posizione del Reycend nell’arte figurativa di fine Ottocento: il Reycend è un buon paesista piemontese, non un impressionista; e tuttavia la “grande poesia dell’impressionismo può aiutare (…)” a “riconoscere” la sua grandezza (op. cit. in basso, p. 1050).
Il Ricordo di Enrico Reycend, da cui traggo questo incontro, è uno studio critico apparso su “Paragone Arte”, 27, marzo 1952, pp. 43-55.
Reycend? Chi era costui?
Reycend, Reycend E. . Reycend? Chi era costui?
“Un buon allievo di Delleani”, mi garantivano i mercatini milanesi, “ma che non fa prezzo. A noi li dànno per soprammercato quando andiamo a Torino a rifornirci di Delleani o di Fontanesi”. Insuperbito della scoperta che alla mia impazienza storicizzante e classificatoria suonava come di un nostro misconosciuto Monnet o Sisley, volli anche regalarmene qualche esemplare, dato che mi costava poco più delle sigarette e meno dei libri di Meier-Graeffe. E me ne venne in breve la raccoltina di Reycend che, dopo trentasette anni di gelosa custodia, ho voluto trasmettere in dono al Museo Civico di Torino che, ne son certo, saprà conservarli bene.
Seppi anche, al momento della “scoperta”, che il Reycend era ancor vivo; e, forse per controllare il significato della mia associazione mentale con gli “impressionisti”, volli visitarlo a Torino; e fu, mi pare, nel 1917.
Non che il colloquio fosse fruttuoso nel senso che speravo. Nel povero studio di Via Villa della Regina, trovavo un uomo stanco ed amaro, di poco discorso. Ricordo che, mentre lo interrogavo con una certa stolida baldanza sui francesi, egli si sforzava a rispondermi: “Ah, Manet? Un bravo figurista!”. “Ah, Monet? Un bravo paesista!”. Di suoi viaggi a Parigi non mi parlò affatto, come non ci fosse mai stato; anzi, oggi che sento discorrere non di una, ma di tre sue gite lassù, il tono distaccato del vecchio colloquio mi suggerisce che, se anche trovassero buona conferma, non per questo acquisterebbero gran peso. Probabilmente il pellegrinaggio fu per vedervi, com’era d’obbligo per ogni allievo di Fontanesi, ancora e sempre, Corot.
Dovetti così, nel colloquio, ripiegare rapidamente sul Piemonte. “Fontanesi? Un poeta del pennello”. “Pittara? Un buon verista”. “Dicono che lei sia stato nello studio del Delleani…” “A’ sun staje ‘n poch; ma vede, per me la natura è sempre delicata”.
Di lì passò, sua sponte, a dichiarare il suo debito maggiore verso Filippo Carcano. Trasecolavo, perché il Carcano, morto da pochi anni, era ancora la testa di turco nei gruppi di punta ai quali appartenevo anch’io. Fu soltanto in seguito che potei intendere perché Reycend fosse nel vero dichiarando quel debito.
A così poco si restringe il ricordo della mia unica visita ad Enrico Reycend. E rammento che, mentre discendevo verso la Gran Madre di Dio (e forse proprio perché mi veniva incontro per l’erta una lunga striscia di Figlie dei Militari nelle bellissime divise “manettiane”), già mi andavo chiedendo in che senso mai, in che accezione, avrei ancora potuto scrivere dell'”impressionista” Reycend. Perché gli avevo promesso un saggio, ch’egli non potè leggere, e me ne rimorde acerbamente.
Ma lo svolgimento del colloquio mi spinse intanto a tornar sùbito al Museo, per rivedermi i piemontesi.
Roberto Longhi, Ricordo di Enrico Reycend, in Da Cimabue a Morandi, Mondadori, Milano 19978 [1973], pp. 1036-1038.
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Piero Calamandrei – Pietro Pancrazi
Piero Calamandrei ricorda il suo primo incontro con Pietro Pancrazi avvenuto a Roma nel 1932. Galeotto fu un libro pubblicato da Calamandrei in memoria di suo padre, recensito benevolmente da Pancrazi. Sono gli anni del fascismo imperante, in cui gli antifascisti hanno vita difficile. L’occasione d’un incontro significa la fine della solitudine, l’avvio di una discussione sincera. Nella pagina di Calamandrei avverti l’affermazione di un comune sentire (“un breve sorriso d’intesa”), e la rivendicazione della propria civiltà salvata dallo scambio intellettuale in un’epoca di barbarie dominante.
Il ricordo di Piero Calamandrei apparve sulla rivista da lui diretta, “Il Ponte”, nell’aprile 1953, nel necrologio in onore dell’amico scomparso. La tipologia è quella dell’incontro convegno.
Un breve sorriso d’intesa
Di solito, nel cuore di ogni amicizia è custodito un nodo di ricordi comuni, capaci di creare tra gli amici una specie di appartato ed esclusivo condominio: ricordi di scuola, ricordi di guerra. Via via che la vita si consuma, il cerchio degli iniziati, tra i quali ci si intende per allusioni, si restringe; e i superstiti, in un mondo diventato estraneo, si raccolgono ogni tanto per parlare di sé, testimoni pietosi l’uno per l’altro di un tempo, che, nel rievocarlo fra loro, non sembra ancora perduto.
Ma quando ci conoscemmo con Pancrazi, verso il 1932, lui prossimo alla quarantina, io che da poco l’avevo scavalcata, nessun ricordo di gioventù ci legava: saliti per diverse vie, vissuti in diverse città, non c’era mai stata fra noi un’occasione d’incontro. Eppure, appena conosciuti, ci lasciammo vecchi amici: di quelli che poi quando si ritrovano in una conversazione più numerosa, sentono ogni tanto il bisogno tutt’e due, allo stesso punto del discorso altrui, di ricercarsi collo sguardo, per scambiarsi alla lontana un breve sorriso d’intesa, segno delle stesse simpatie e degli stessi disgusti.
Forse l’attaccamento che fin da principio provai per quella sensibilissima e pur discreta attenzione, con cui cercava di comprendere e di rispettare le sofferenze altrui, mi derivò dall’occasione che me lo fece conoscere a Firenze negli anni di “Pegaso”. Dopo la morte di mio Padre, avevo pubblicato in memoria di lui, in un piccolo libro fuori commercio, una raccolta di suoi ricordi e impressioni montepulcianesi, che avevamo ritrovato inediti tra le sue carte: Pancrazi, che non mi conosceva ancora, ne ebbe in mano una copia, datagli a mia insaputa da un comune amico (mi pare, se non sbaglio, che fosse Giorgio Pasquali), e ne scrisse su “Pegaso” una recensione delicatissima, nella quale io lessi con grande commozione non solo il giudizio del critico su quelle pagine, ma anche la comprensione dell’uomo per quella vita onesta e per quella morte. E questo omaggio, reso con tanta lievità di tòcco, mi rimase per sempre nel cuore.
Da allora fummo vicini: e sempre di più ci avvicinò il clima opprimente di quel periodo, in cui, mancando l’aria della libertà, si cercava respiro nell’amicizia.
Nelle lettere come nella vita egli aveva a sdegno soprattutto la mancanza di sincerità e di naturalezza: il senso del ridicolo e della stonatura, che in quegli anni gran parte dei critici italiani (e non degli ultimi) pareva avessero smarrito, s’era acuito in lui sino a diventare motivo di continua sofferenza in quel regime di enfasi balorda e di falso eroico, in cui egli avvertiva a ogni cantonata l’offesa al buon gusto, che era insieme offesa al buon costume. Per questo, egli giornalista di vocazione, aveva cessato di frequentare le redazioni dei giornali, che, un tempo “libere, tumultuose e spesso geniali” (come gli stesso le descrisse), s’erano trasformate, sotto la censura e lo spionaggio, in sospettose fraterie: s’era ridotto a mandare sempre più rari “elzeviri” di terza pagina dal suo romitaggio di Camucia.
Da questo desiderio di solitudine e di evasioni nacquero le nostre passeggiate domenicali: che per molti anni, dal 1935 fino agli anni della guerra, ci dettero, alla fine di ogni settimana, la illusione di un ritorno per qualche ora dalla barbarie alla civiltà[2].
Piero Calamandrei, Passeggiate con Pancrazi, “Il Ponte”, a. IX, n. 4, Aprile 1953, pp. 468-469.
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Sergio Solmi – Eugenio Montale
In questo scritto autobiografico apparso ne “La Fiera Letteraria” del 1953 il saggista e poeta Sergio Solmi (Rieti 1899 – Milano 1981) ricorda il suo primo incontro con Eugenio Montale presentatogli da Francesco Meriano (Savignano di Romagna 1896 – Kabul 1934) nel 1917 in una latteria di Parma, dove un gruppo di giovanissimi allievi ufficiali si ritrovava a sera nelle ore di libera uscita, per discutere di argomenti letterari. Montale viene colto in un delicatissimo momento, mentre è alle prese con una tazza di panna montata, su cui solleva il “lungo sguardo azzurro interrogativo”, per salutare Solmi, che in questo scritto ne fissa l’immagine come in una fotografia.
In latteria
Conobbi Montale nell’ormai remoto autunno del 1917 alla Scuola d’Applicazione di Fanteria di Parma, allievi entrambi di uno di quei “corsi accelerati” che in capo a due o tre mesi di istruzioni intensive sfornavano i nuovi “quadri” destinati a compensare le crescenti usure della macchina bellica.
Gli allievi occupavano le varie caserme cittadine, e, di primo mattino, tra i nudi giganteschi platani del parco ducale, si udivano echeggiare attraverso la nebbia i passi cadenzati delle compagnie che si recavano alle esercitazioni in ordine chiuso o alle lezioni nel Palazzo della Scuola (ricordo ancora il colonnello Epimede Boccaccia, che ci tenne una serie di conferenze sull'”attacco frontale”, principale argomento tattico, credo, nella guerra ’14-18: prima, seconda, terza ondata…). In camerata avevo fatto conoscenza col giovane poeta Francesco Meriano, già noto per le musiche nostalgiche e crepuscolari, mascherate in tavole “paroliberistiche”, dell’Equatore notturno (il sagace contrabbando della marinettiana “Poesia”). (…)
Fu Meriano che una sera, all’ora della libera uscita, offrì di condurmi da alcuni allievi suoi amici, amanti delle buone lettere, che solevano riunirsi in una piccola latteria sperduta in una tortuosa viuzza del centro. Lì, nella sua uniforme d’ordinanza, coi famosi “salamini” sulle spalle, mi fu presentato il futuro autore di Ossi di seppia, il quale, intento ad affondare il cucchiaino in una morbida massa di panna montata, sollevò in silenzio su di me un lungo sguardo azzurro interrogativo. Di alcuni degli altri frequentatori della latteria conservo appena il ricordo d’un nome, e una immagine quasi scancellata.
Sergio Solmi, Parma 1917, in Poesie, meditazioni e ricordi, vol. I, tomo II, Adelphi, Milano 1984, pp. 205-207, già in “La Fiera Letteraria”, 12 luglio 1953, p. 3.
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Luigi Russo – Giovanni Gentile
Nel decennale della morte di Giovanni Gentile (Castelvetrano, Trapani, 1875 – Firenze 1944), Luigi Russo ricorda le fasi della sua graduale approssimazione al filosofo siciliano. L’incontro è scolastico e fortuito al tempo stesso. Infatti, considerato il rapporto allievo-maestro dei protagonisti, esso rientra a pieno titolo nella tipologia dell’incontro scolastico; senonché il Russo sottolinea la fortuità dell’incontro (1915), improvviso e sconvolgente come un fenomeno naturale, sui Lungarni pisani (“ebbi l’impressione che addirittura il paesaggio pisano ne fosse modificato”). Segue poi la lezione, a cui presto il Russo rinuncia consapevole della propria inadeguatezza; quindi lo studio dell’opera del maestro che favorisce e nutre l’opera del discepolo; e infine il giusto riconoscimento dei suoi meriti da parte del filosofo (la lettera che Russo aspetta e nella quale non osa sperare), e la fase della dimestichezza, della collaborazione, della conversazione sul treno per Roma. E pensare che tutto questo fu reso possibile da quel primo incontro sui Lungarni pisani, “dalla parte del caffè Bazzell”!
Approssimazione al maestro
Conobbi Giovanni Gentile nel 1915, quando egli si trasferì dall’università di Palermo a quella di Pisa. Io avevo già completato gli studi, poiché mi ero laureato l’11 luglio del ’14; stavo ancora a Pisa perché seguivo il corso di allievo ufficiale di fanteria. Quando incontrai il Gentile ai Lungarni, dalla parte del caffè Bazzell, l’alta figura dell’uomo, ben composta, quasi elastica (allora Egli aveva quaranta anni), ebbi l’impressione che addirittura il paesaggio pisano ne fosse modificato. Io allora non avevo letto nemmeno una pagina del filosofo siciliano: ero tutto esondante e ridondante di Croce, e molto bene informato su tutta l’opera di Francesco De Sanctis. Un giorno, uscendo dalla caserma Umberto I, mi venne voglia di andare a sentire Gentile alla Scuola Normale Superiore, dove egli teneva seminario di filosofia. Non capii nulla, ma rimasi preso ed ammirato dalla sua eloquenza, che non aveva nulla di accademico, ma era un’eloquenza rapita come quella d’un apostolo: gli occhi bellissimi lampeggiavano dietro gli occhiali d’oro. Io non tornai più a quelle esercitazioni, perché ero consapevole di non avere la preparazione necessaria per intendere la filosofia del Gentile. Ma in gioventù si fanno cose rapide, e nel ’17, facendo l’ufficiale a Caserta, dopo due anni di trincea, e dove mi era stato dato un incarico di cosiddetta “morale militare”, io feci capo subito al Sommario di Pedagogia di Gentile, e alla sua raccolta di saggi Scuola e Filosofia. […] Quando ebbi pubblicato presso l’editore Enrico Marino di Caserta quel mio volume (in tre fascicoli) [Vita e Disciplina militare], il Croce che fu il primo a leggerlo in stampa, me ne scrisse con molta lode, e mi indicò subito Giovanni Gentile perché io spedissi a lui cotesti fascicoli. Intanto il Gentile in quell’anno 1917 passava all’università di Roma; io stetti trepidante ad aspettare e a non sperare una lettera del Gentile. Non solo mi giunse una lettera, che è tra le più belle che io abbia mai ricevuto nella mia carriera di letterato, ma egli scrisse subito un articolo, senza dirmene nulla, apparso sul Nuovo giornale di Firenze (ora raccolto in Guerra e Fede). L’articolo allora sarebbe rimasto a me ignoto, se io, avendo fatto una seconda edizione del volume col Treves di Milano, non avessi aperto un giorno nella sala di lettura degli ufficiali alla caserma Sirtoli l’Illustrazione italiana, dove dall’editore era riportato per intero l’articolo del Gentile. Rimasi come rapito per la generosità degli elogi, e da allora in poi entrai in maggiore dimestichezza col filosofo siciliano. Ricordo un nostro viaggio in terza classe, da Napoli a Caserta (egli andava a Roma): passammo in rassegna tutti gli scolari suoi, e poi si parlò della riforma della storia letteraria del Croce, quindi del Croce sulle sue relazioni col De Sanctis. Ebbi da lui delle vedute illuminanti.
Luigi Russo, Ricordo di Giovanni Gentile (Nel decimo anniversario della sua morte), in “Belfagor”, anno IX, n. 3, 31 maggio 1954, p. 345.
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Ardengo Soffici – Umberto Boccioni
Ardengo Soffici racconta nella sua opera autobiografica Autoritratto d’artista nel quadro del suo tempo (Vallecchi, Firenze 1951-55) l’insolito primo incontro con Umberto Boccioni avvenuto davanti al caffè delle Giubbe Rosse a Firenze nell’estate del 1911, quando i futuristi milanesi (Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni, Carlo Carrà) usavano risolvere i contrasti con i vociani fiorentini (Ardengo Soffici, Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper, Medardo Rosso) scatenando una zuffa, ed erano ripagati con eguale moneta. E infatti il seguito cui allude Soffici in conclusione consiste nella celeberrima scazzottata tra Vociani e Futuristi avvenuta sulla banchina della stazione fiorentina, poco prima che i milanesi prendessero il treno per tornare a casa. Per altri ragguagli sulla zuffa, si legga in nota quanto raccontano due testimoni e protagonisti dell’episodio, Carlo Carrà e Ottone Rosai [3]. La tipologia dell’incontro è quella – sia detto con un po’ di ironia – dell’autopresentazione.
Zuffe futuriste
Una sera di non so più quale festa, io e Medardo Rosso, il quale era arrivato, anche lui dopo di me a Firenze, ce ne stavamo seduti tranquillamente a Firenze a uno dei tanti tavolini del Caffè delle Giubbe Rosse allineati in quel lato della piazza Vittorio e occupati da un grandissimo numero di persone, signore, signori, bambini, ivi attirati dalla buona banda militare, che disposta sopra un apposito palco provvisorio, appié della statua del Re, andava eseguendo pezzi d’opere famose, pots-pourris, fantasie sinfoniche e simil genere di musiche. Terminato il programma tra gli applausi dei clienti del caffè e della circostante folla cittadina, fu dato principio all’estrazione di una tombola di beneficenza. Tanto io che il mio compagno, avevamo acquistato alcune cartelle per uno; ed eravamo attenti all’annunzio dei numeri che veniva dal medesimo palco, per segnare quelle che in esse si trovavano, allorché qualcuno mi toccò la spalla domandandomi se io ero Soffici, e nello stesso momento che io, alzata la testa dalla mia cartella, gli rispondevo affermando, mi colpì di traverso con la mano in modo che, data anche la poca stabilità della sediola di ferro sulla quale posavo, persi l’equilibrio e fui rovesciato per terra.
Sorpreso dall’atto proditorio, ma pronto per natura a reagire alle offese, specie di quel genere, mi rialzai di botto, impugnai un bastone di legno fortissimo, che mi era rimasto tra mano nella caduta, e con quello mi scagliai sull’aggressore, che ora vedevo spalleggiato da uno o due altri, menando bòtte a ramata nel mucchio. Rosso, che intanto s’era pure alzato e trovato in mezzo alla mischia, interponendosi tra me e costoro col suo corpo massiccio, ch’io dovevo evitare di colpire, m’impediva nella mia giostra; mentre tutt’intorno la gente impauriva, balzata pure in piedi, si affrettava a fuggire, rovesciando tavoli e seggiole, le signore strillando, i ragazzi piangendo. Ciononostante, io, che ormai avevo perso il lume degli occhi, seguitavo a farmi largo, a sventolar la mia mazza tutt’intorno. A un tratto mi trovai davanti a un paio di pennacchi di piume rosse e azzurre, che mi richiamarono alla realtà: erano due carabinieri in alta montura. Mi fermarono e mi dissero di seguirli. Obbedii senz’altro e mi avviai con loro, seguito a mia volta dappresso dall’amico Rosso e, alla lontana, da un codazzo di curiosi i quali borbottando tra di essi commentavano il caso.
Nell’andar dalla piazza al Commissariato di San Biagio a un certo punto, invece che i carabinieri mi vidi a lato un individuo che si tergeva col fazzoletto la tempia insanguinata. Era uno in borghese, ometto di media statura, vestito alla meglio di grigiastro, con una faccia scarna e inespressiva. Mi camminava accanto reggendomi per la manica. “O lei chi è?” gli chiesi stupito del fatto. “Sono un brigadiere.” “E perché è ferito?” “E’ stato lei, con una bastonata.” “Io? Adagio! – dissi allora, allarmato. – Io tiravo sugli altri; mi difendevo.” “Lo so, lo so. Avanti!”
Poiché anch’io avevo una piccola scalfittura alla fronte, ci fermammo prima a un posto di medicazione che era allora in piazza Davanzati. A me furono presto appiccicate due striscioline di cerotto in croce sulla leggerissima ferita; quella del brigadiere era invece, se non grave, tanto pericolosa che, quando il dottore ebbe finito di curargliela: “Fortuna – gli disse – che non l’anno còlto un po’ più in qua: se lo pigliavano sulla tempia poteva essere spacciato”.
Di nuovo inquieto, e insieme commosso, tornai a protestare la mia innocenza al brigadiere. “Niente, niente – mi rispose quasi sorridendo. – Incerto del mestiere.”
Al Commissariato, il funzionario assiso dietro una gran tavola mi chiese il nome e mi interrogò sull’accaduto. Altre tre o quattro persone erano schierate di faccia a lui lungo un lato della tavola. Gli esposi in succinto com’erano andate le cose. Mi domandò se conoscessi quello che mi aveva colpito, e ne sapessi il motivo. Gli risposi di no. Il commissario passò allora a interrogare uno degli altri. “Il suo nome e cognome?” “Umberto Boccioni.” “Ah! – proruppi io a quel nome. – Allora ho capito.” E mi lanciai d’impeto contro costui; subito però rattenuto dal brigadiere e dalle guardie che m’erano accanto. Così immobilizzato, spiegai al commissario la faccenda della mostra, dell’articolo eccetera. Finito che ebbi la mia deposizione, venni condotto, assieme a Rosso, in una stanzaccia semibuia di quel pianterreno, dove fummo rinchiusi, e restammo forse più d’un’ora.
Quando alfine potemmo uscir liberi, trovai fuor del portone Prezzolini e Slataper che mi aspettavano, avvertiti, non so da chi né come, del brutto caso. Raccontai anche a loro ciò che era successo; e poiché essi stessi se ne sentirono indignati, avvisammo senz’altro a quel che opra si trattasse di fare per vendicar l’offesa. Intanto tornare sul campo di battaglia delle Giubbe Rosse: poteva darsi che gli avversari vi fossero ad attenderci per un nuovo scontro.
Ma era mezzanotte passata; il caffè era sul punto di chiudere, e la piazza quasi deserta. Non ci restava che mandar tutto al domani.
Difatti la mattina dopo, io, Prezzolini, Slataper, e stavolta anche Spaini, eravamo di nuovo sul posto. Ma non trovammo alcuno, né in piazza né alle Giubbe Rosse. Solo apprendemmo qui dal cameriere Ottavio, nostro vecchio devoto, come oltre ai tre futuristi milanesi, anche un altro, fiorentino, avesse avuto una parte, peraltro di semplice indicatore della mia persona, nell’azione della notte precedente. Il cameriere poi anche ci descrisse il gran tumulto che n’era seguito fra i clienti del caffè messi in fuga dalla mischia; alla fine della quale egli aveva trovato per terra, disse, oltre a bicchieri e piattini rotti, mazze da passeggio, borsette da signora, portacipria, cappelli pesticciati, cartelle della tombola, fazzoletti, guanti e simili oggetti, che il direttore teneva ora in custodia a disposizione dei loro proprietari.
Eran circa le undici quando, dopo altre varie perlustrazioni e ricerche, entrammo – non si sa mai – nel caffè di faccia alle Giubbe Rosse, il Paszkowski. Vi trovammo invece Giuseppe Vannicola, il quale, sofferente com’era da un pezzo, sedeva solitario in un canto. Sapemmo da lui che i milanesi erano alloggiati all’albergo Elvezia, non lontano di lì, dov’essi, disse, attendevano, semmai volessimo mandar loro i padrini per un duello. Cosa da ridere, dato il modo punto cavalleresco dell’aggressione: la nostra rivalsa sarebbe stata più consona a questa. Poteva egli fornirci qualche altra informazione che facesse al caso? Dopo avere alquanto esitato, per un certo scrupolo, Vannicola ci confidò alfine risultargli che i tre, se prima di mezzogiorno non avessero visto alcuno, sarebbero partiti per Milano col treno delle due e tanti. Ci bastava: salutammo l’amico e andammo a passeggiare avanti e indietro davanti alla porta dell’Elvezia. Ma fu ancora invano. Non ci restava che andare, prima a mangiare, e poi ad attenderli al treno.
Ardendo Soffici, Autoritratto d’artista nel quadro del suo tempo, Vallecchi, Firenze 1951-55; poi col titolo Al caffè, in Caffè letterari, II, a cura di Enrico Falqui, Canesi editore, Roma 1962, pp. 498-501.
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Salvatore Spinelli – Eugenio Donadoni
In questo ritratto dell’italianista Eugenio Donadoni (Adrara San Martino, Bergamo 1870 – Milano 1924), il critico letterario Salvatore Spinelli rievoca nel 1957 il primo incontro scolastico col suo professore di italiano, avvenuto al Liceo Umberto I di Palermo nel 1908.
Il tono brusco delle parole con cui il maestro si presenta alla classe, il cipiglio severo ed autoritario del professore, ma anche la sua sicurezza di giudizio non smentita alla prova dei fatti, riaffiorano nella memoria dopo quasi cinquant’anni, e questo certo suggerisce la distanza dalla moderna pedagogia, ma anche la irripetibilità ed unicità di ogni esperienza pedagogica.
Selezione preliminare
Il primo contatto ch’ebbi con lui [Eugenio Donadoni], nella prima lezione, nel lontano novembre 1908, non si cancella dalla mia mente. Una consimile impressione di sorprendente novità, a cui l’anima subito si protende, ho sentito poi alle prime battute dell’orchestra del Don Giovanni di Strauss e del Boris Goudunov.
Non lo conoscevamo. Ed egli non ci conosceva. Nell’intervallo fra le lezioni l’aula risonava di richiami e di lazzi. Quando, dalla soglia, entrando, ci guardò, uno dopo l’altro, negli occhi, si fece un grande silenzio. Con la mano, mollemente, ci invitò a sedere. Sedette, e incominciò l’appello. Un nome: una lunga pausa; e uno sguardo lungo, attento, meditativo. Alcuni abbassarono gli occhi. Non era un appello; era un esame, un’investigazione, tacita, profonda. Finito l’appello chiamò, piano: “Albanese, Canèpa, Maymone, Musotto, Zingales… vengano a sedere nei primi banchi. Loro cedano i posti. Mi piace avere vicino gli otto o dieci pei quali più volentieri faccio lezione”.
A ripensarci, fu un atroce modo di separare la classe in due gruppi: dei preferiti e dei reietti; tratto inconsueto, strano, forse non plausibile. Ma ciò che importa è che in quella scissione, netta, immediata, egli rivelava -ne avemmo coscienza- una precisione d’intuito veramente sorprendente. Nessuno ardì ribellarsi e neppure sussurrare. Ci sbirciammo, sottecchi, quasi colti da una specie di timore reverenziale. Egli aggiunse, dolcemente:
– chi avesse bisogno di uscire, esca, con discrezione, senza chiedere permesso. Non segno le assenze neppure nella memoria.
Anche Vittorio Graziadei, che lo aveva preceduto in quella cattedra, soleva fare un’avvertenza simile. E ad uno ad uno gli scolari uscivano a fumare e chiacchierare nei corridoi con disperazione del preside. Ma durante le lezioni di Donadoni nessuno mai si assentò, neppure un minuto. Anche gli indocili, gli irriverenti, gli ineducati – in una classe di quaranta ragazzi ce n’è sempre – si comportarono da “dieci in condotta”.
Salvatore Spinelli, Eugenio Donadoni maestro, in “Belfagor”, anno XII, n. 4, 31 luglio 1957, pp. 434-435.
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Giacomo Debenedetti – Umberto Saba
Su consiglio di Sergio Solmi, Giacomo Debenedetti pubblica nel 1922 sul primo numero della rivista “Primo Tempo” da lui fondata (insieme a Sergio Solmi, Emanuele Sacerdote e Mario Gromo), la Canzone 3 di Umberto Saba intitolata Il Vino. Il poeta, dunque, va a trovarlo a Torino per conoscerlo e ringraziarlo di pensona. Così riferisce la visita Debenedetti in un discorso letto al Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste per le Celebrazioni di Saba, il 10 dicembre 1957. Si noti il ritegno di chi aspira all’oggettività dell’esame critico, e deve cedere all’incalzare del ricordo (“Spiace di fare appello ai ricordi…”).
Un uomo dolce e aggressivo
Spiace di fare appello ai ricordi, perché costringono a parlare in prima persona. Ma insomma, il primo ricordo che conservo di lui, un Saba 1923, presentatosi con un vestito blu e un berretto da ciclista all’uscio di una casa di Torino, dove era venuto a conoscere un critico “vergognosamente giovane” (come poi scrisse), mi riporta l’immagine di un uomo dallo sguardo limpidissimo, pronto a passare dalla dolocezza all’aggressività; e tuttavia in quello sguardo la pupilla aveva improvvisi guizzi sfuggenti, come di chi si guardi le spalle. Erano gli automatismi di quell’angoscia di perseguitato? Poteva anche essere un umano ritegno per risparmiare all’interlocutore il disagio di sentirsi decifrato troppo in fondo.[4]
Giacomo Debenedetti, “Quest’anno…”, in Intermezzo, Mondadori, Milano 1963, p. 48, ora in Saggi, Mondadori, Milano 1999, p. 1072.
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Giorgio Bassani – Giuseppe Tomasi di Lampedusa – Lucio Piccolo
Giorgio Bassani (Bologna 1916 – Roma 2000), a cui si deve la scoperta di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896 – Roma 1957), ricorda l’incontro, “primo e ultimo”, a San Pellegrino Terme nell’estate del 1954, co l’autore de Il Gattopardo, e col poeta Lucio Piccolo, cugino di Tomasi, scoperto invece da Montale. Ottima la descrizione bassaniana del Tomasi come d’un “generale a riposo” che s’aggira insieme al suo attendente, il barone Lucio Piccolo, per i viali del Kursaal della ville d’eau bergamasca nella sua ultima ridente stagione.L’incontro rientra nella tipologia dell’incontro-convegno. Il contesto del racconto è la Prefazione alla prima edizione de Il Gattopardo del 1958.
Un generale a riposo e il suo attendente
La prima e l’ultima volta che vidi Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa, fu nell’estate del 1954, a San Pellegrino Terme, in occasione di un convegno letterario organizzato dalla piccola ville d’eau lombarda per iniziativa di Giuseppe Ravegnani e del locale Municipio. Scopo del convegno, confortato dall’intervento della Televisione e di un manipolo di fotoreporter, era questo: una decina tra i più illustri scrittori italiani contemporanei avrebbero presentato al pubblico (sparutissimo) dei villeggianti, un numero corrispondente di “speranze” delle ultime e penultime leve letterarie. (…) Esso [il convegno] non fu inutile. Fu a San Pellegrino, infatti, che Eugenio Montale ci dette la prima notizia dell’esistenza di un nuovo, autentico poeta: il barone Lucio Piccolo di Capo d’Orlando (Messina). (…) Fu Lucio Piccolo stesso a dichiarare nome e titolo del cugino: Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa. Era un signore alto, corpulento, taciturno; pallido, in volto, del pallore grigiastro dei meridionali di pelle scura, dal pastrano accuratamente abbottonato, dalla tesa del cappello calata sugli occhi, dalla mazza nodosa a cui, camminando, si appoggiava pesantemente, uno lo avrebbe preso a prima vista, che so?, per un generale a riposo o qualcosa di simile. Era più anziano di Lucio Piccolo, come ho detto: ormai verso i sessanta. Passeggiava a fianco del cugino lungo i vialetti che circondano il Kursaal, o assisteva, nella sala interna del Kursaal, ai lavori del convegno, silenzioso sempre, sempre con la medesima piega amara delle labbra. Quando gli fui presentato, si limitò a inchinarsi brevemente senza dire una parola.
Giorgio Bassani, Prefazione a G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano 1958.
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Luigi Russo – Bernhard Berenson – Raffaele Mattioli
Luigi Russo, nel necrologio scritto in occasione della morte di Bernhard Berenson nel 1959, si abbandona al ricordo, e rievoca sulle pagine della rivista da lui fondata e diretta, “Belfagor” (1946-1961), il primo incontro nel 1931 col critico d’arte, presentatogli dal comune amico Roberto Pane; subito dopo, ricorda il giorno in cui egli presentò al Berenson un “uomo letteratissimo”, il finanziere Raffaele Mattioli (Chieti 1895 – Milano 1973). Furono due esami severissimi, ciascuno durato solo mezz’ora; il primo, del Russo, superato brillantemente, il secondo, quello del Mattioli, superato con l’aiuto… dell’Alighieri. Il luogo dei due incontri è il medesimo: la villa “I Tatti” nella campagna fiorentina.
Due esami indimenticabili
La morte di Berenson, avvenuta a Ponte a Mensola, nella villa “I Tatti”, la sera del 6 ottobre 1959, alle ore 22, mentre il caro uomo era immerso nel sonno (era nato in Lituania, il 26 giugno 1865), mi ha riportato per un momento alla mia vecchia vita fiorentina. Io fui ammesso nel sacro recinto dei “Tatti”, la reggia berensoniana, nel 1931, accompagnato da Roberto Pane; scontroso e impacciato alla prima, dovevo divenire nel giro di poche settimane il più assiduo e forse uno dei più benvoluti frequentatori dei “Tatti”. Il Berenson prese una grande e subitanea simpatia per me, forse perché andavamo d’accordo nella crudeltà dei giudizi, o meglio, per l’accordo spontaneo che si determinava tra la mia schiettezza, disadorna e grezza, e la sua consapevole crudeltà estetica di epigrammista. Io non sono un esteta: gli uomini esplosivi non possono essere esteti.
Quel giorno del ’31, un pomeriggio, fui invitato per l’ora del the; ma egli volle che andassi mezz’ora prima del consueto, perché dovevo passare l’esame. Era la regola che egli seguiva con tutti i visitatori nuovi. Il mio esame deve essere andato assai bene, perché fui approvato con 110 e lode! Il Berenson a un certo punto mi aveva domandato: “Come occupa lei, i suoi ozi, a Firenze?” “Io insegno letteratura italiana”. “Ma come si fa a insegnare letteratura italiana?!” mi rispose con un ghigno tra affettuoso e beffardo il critico lituano-inglese-americano. Come punto sul vivo io diventai eloquente, e rapidamente accennai a quella che era la mia tendenza di storico della letteratura, così come Berenson voleva essere storico dell’arte. Ma mi guardai bene, e non per prudenza, ma per una esatta misura delle mie forze, dal fare una tale comparazione. Alla fine della mia perorazione, come quella del Marco Tullio Cicerone del Passeroni, egli scappò a dire: Ma lei mi è estremamente simpatico! E’ il vero temperamento del liberale e dell’uomo indipendente”. Da quel giorno fui invitato due o tre volte alla settimana, a colazione, e talvolta restavo per le ore pomeridiane, aggirandomi nella vasta biblioteca, per accompagnarlo per la passeggiata in macchina per i colli fiorentini. […]
Una volta Raffaele Mattioli, il grande amministratore delegato della Banca Commerciale di Milano, uomo letteratissimo, assai più d’un professore universitario (di quelli d’un tempo, s’intende: con quelli di oggi non oserei paragonarlo, per non recargli offesa), mi chiese di essere acconpagnato ai “Tatti”, perché voleva conoscere Berenson. Il Berenson, more solito, fece al Mattioli, nella prima mezz’ora, il consueto esame. Erano tutti quesiti di tecnica economica, e di alta finanza, di cui io non capivo un’acca. Il Mattioli mi pareva che sudasse freddo, e certamente egli meditava tutte le risposte, prima di metterle fuori, poiché, come mi disse in seguito, i quesiti del Berenson venivano da un cervello molto esercitato, e non dilettantescamente, anche in quel campo della tecnica finanziaria. A un certo punto io volli cavare d’imbarazzo il mio amico Mattioli (o forse mi annoiavo, e non comprendevo proprio nulla, rimanendo estraneo alla conversazione), e intervenni con una delle mie trovate, e dissi: “In questo momento mi pare di respirare nel Paradiso dantesco, quando San Pietro fa l’esame a Dante. ‘Dì, buon cristiano, fatti manifesto: fede che è?’ “. I due conversatori si misero a ridere, e l’ospite ci invitò a fare un giro per la sua meravigliosa galleria.
Luigi Russo, Ricordo di Bernhard Berenson, “Belfagor”, anno XIV, n. 6, 30 novembre 1959, pp. 722-725.
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Marino Moretti – Giovanni Papini
Aldo Palazzeschi (Firenze 1885-Roma 1974) gioca un tiro mancino al suo amico Marino Moretti (Cesenatico 1885 – 1979), presentandogli Giovanni Papini, dal cui carattere scontroso Moretti avrebbe preferito tenersi alla larga. La rievocazione autobiografica di questo primo incontro, pubblicato da Moretti nel 1960, ci presenta il solito Papini che pontifica sgarbatamente da un tavolo del caffè delle Giubbe Rosse a Firenze, costringendo l’interlocutore a stare in guardia per rispondergli a tono. Per la datazione dell’incontro, termine post quem è la data di pubblicazione del primo romanzo di Moretti, Il sole del sabato, del 1916.
Una battuta azzeccata
Ma come fu il primo incontro? Questo io volevo dire, e mi pareva di non poter mettere in carta prima ch’egli [Giovanni Papini] ci lasciasse per sempre, tanto meno durante il suo lungo martirio. Per quanto io sapessi di non offenderlo, di neppure minimamente scalfirlo e spiacergli, benché spiacere a uno scrittore famoso sia abbastanza facile (magari con la stessa lode o lusinga), non volevo che mi leggesse. Egli ha scritto un poco di tutti, tutti hanno scritto di lui. Era come se di fronte a lui che mi pareva si contornasse fin troppo d’amici e recensori e gregari, prima e dopo la conversione, io dovessi tenermi in disparte. E poi, diciamo tutto, era ormai voce di popolo che, incontrando una persona nuova, maschio o femmina, cominciasse col combinare una sua bella sgarberia alla fiorentina proprio sul muso del malcapitato, e non volevo ch’egli con me esagerasse, non volevo che azzeccasse la battuta, cogliesse la mira, trionfasse proprio su me, considerato fra i più vulnerabili. E come la cosa doveva prima o poi accadere, dirò che fu per il tradimento del suo e mio amico Aldo [Palazzeschi], ma mio prima che suo, il quale m’induceva una mattina ad entrare in un caffè sonnolento a quell’ora; e dove, si aggiungerà, sul marmo d’un tavolino appartato il noto bau-bau fiorentino scriveva un articolo o forse fingeva o stava, più esattamente, aspettando la preda per farne tutto un boccone.
Ciò ch’egli mi dice da prima mentre io mi seggo al suo fianco col dispetto che non si cela, quello proprio dei codardi, è solo moderatamente sgradevole e quasi non lo è se si considera che suggerisce una pronta risposta, sebbene lo dica coi denti più che mai in fuori e nello sfavillìo dei suoi occhi di drago; sfavillìo che giunge a me quasi moltiplicato a traverso il cospicuo spessore delle lenti da supermiope che rinforzano l’aggressività sia dell’amico sia del nemico.
Nel frattempo Aldo, seduto tra noi, si gode la scena senza ridere, senza muover le labbra, ma certamente dice con gli occhi ai due protagonisti: “Lasciatemi divertire” come a lui piace.
Papini dunque per prima cosa confessa che è venuto via via leggendo le puntate del mio primo romanzo in quel quotidiano di Roma e che… Ma che cosa non leggeva allora Papini? Anche, dicevano, la lista della lavandaia: non c’era da insuperbirne. E aggiungeva: “Come è mai noioso il suo romanzo!” Tutto qui. Io, non so come, punto sul vivo, tengo la battuta. “Ma lo ha letto, lei, lo ha letto il mio romanzo!” rispondo con l’audacia di chi si mostra al momento buono come non è. “E io le dirò che non mi sarei mai adattato a leggere un romanzo a quel modo. Peuh, in appendice!”
Sì, tutto qui. Si tira un respiro di sollievo, si ha quasi l’impressione d’essere passati all’esame. Dopo di che, con Papini saremo amici per tutta la vita.
Marino Moretti, Il libro dei miei amici, Mondadori, Milano 1960, pp.187-189.
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Giovanni Comisso – James Joyce
Giovanni Comisso (Treviso 1895 – ivi 1968) si reca a Parigi nel novembre del 1926 per curare la traduzione di un suo libro, Porto dell’amore, che ha suscitato l’interesse di Valery Larbaud. Poco più di un anno dopo, agli inizi del 1928, è invitato da Benjamin Cremieux ad un banchetto in onore di Italo Svevo, presente al Pen Club insieme alla moglie. Ed ecco all’improvviso apparire, anch’egli accompagnato dalla consorte, James Joyce (Dublino, 1882 – Zurigo, 1941), col suo occhio azzurrino indimenticabile, segno distintivo di chi vede “al di là di tutte le cose”.
L’autobiografia da cui è tratto questo racconto, dal titolo Le mie stagioni, fu licenziata dall’autore in via definitiva nel 1960, ma raccoglie scritti degli anni quaranta e cinquanta. La tipologia è quella dell’incontro-convegno.
Mariti e mogli
La traduzione in francese del mio libro su proposta di Valery Larbaud era per me una presentazione sufficiente nell’ambiente letterario di Parigi, potei così conoscere Benjamin Crémieux e avere la sua stima. Svevo venne a Parigi per la traduzione di un suo libro e vi fu un banchetto in suo onore al Pen Club. Crémieux che era segretario di questo circolo letterario mi mandò un biglietto d’invito. La tavola si svolgeva a ferro di cavallo lungo le alte pareti della sala. Benjamin Crémieux appariva e dispariva nella cortese preoccupazione di dare gli ultimi ordini alla cucina e di fare le presentazioni. Quei letterati francesi erano tutte persone alla buona che appena si incontravano fra loro si preoccupavano di scambiare i loro indirizzi e di fissarsi appuntamenti. Le voci si incrociavano e crescevano. Italo Svevo piegava in ascolto la sua grande testa bonaria, sorrideva e fumava la sua solita sigaretta. Costretto a una conversazione in francese, molte parole gli venivano tradotte dalla moglie, ma poté ugualmente comunicare la sua arguzia triestina.
D’improvviso uno entrò diverso da tutti. Alto, magro, grigio, elegante. Una testa che era un gioiello, guardava come gli fosse faticoso discernere. Una linea della fronte inconfondibile. Era Joyce. La fronte si alzava prominente, come per una volontà di gettarsi contro ai pregiudizi. La signora Crémieux mi presentò a lui. Vidi l’occhio a sinistra di Joyce azzurrino, con la pupilla dilatata come un tocco di colore disciolto nell’acqua. Il volto era semplice in una perfezione geometrica. Volle avere il piacere di parlare con me in italiano, la lingua che aveva parlato per dodici anni e che era la lingua ufficiale della sua famiglia. Mi chiese dell’Italia come di una terra lontana da lui abbandonata: tutta la sua giornata era assorbita dal lavoro fino alle nove di sera. La piccola bocca sottile era incorniciata di un leggero argento. La nostra conversazione si arrestò, perché la minestra era in tavola. Il mio posto era vicino a sua moglie, anch’ella era felice di parlare italiano con il suo accento triestino. Parlò di suo marito semplicemente, ma sembrava più orgogliosa dei figli: uno studiava canto e la figlia voleva diventare danzatrice. Le vivande si susseguirono, si parlò della cucina francese, ella rimpiangeva quella italiana. Si parlò dei pesci dell’Adriatico: le seppie, gli scampi, le sardine. Joyce andava matto per il branzino e poi gli piacevano tutti i nostri dolciumi natalizi: la mostarda, il torrone di Cremona e il panettone di Milano.
Dopo i discorsi in onore di Svevo si passò a prendere il caffè nella biblioteca. Joyce a tavola era stato vicino alla signora Svevo che mi disse di avere ricordato con lui il buon pesce di Trieste. La signora Joyce allora disse che noi avevamo fatto lo stesso, allora suo marito commentò con ironia: “Telepatia! Telepatia! mi piacciono i branzini, ma i calamaretti mi sembrano di gomma”. Poi si parlò di acque e di fiumi. Gli descrissi i fiumi del mio paese, ne volle sapere i nomi, si interessò al colore del Sile e a quello del Cagnan, che non aveva mai sentiti nominare e perché non fossero da lui ritenuti del tutto oscuri gli riferii che Dante con esatta conoscenza aveva appunto detto: “Dove Sile a Cagnan s’accompagna” perché le acque nel loro diverso colore rimangono per qualche tratto divise. Joyce pensava che Dante doveva essere stato anche a Trieste, perché dice: suso e giuso. La signora Svevo rettificò che a Trieste si dice solo suso, ma non giuso. E allora egli commentò: “Già, perché i triestini sono ottimisti”.
Continuò a parlare di acque: “Dicono che ò immortalato Svevo, ma io ho immortalato anche le chiome della signora Svevo. Mia sorella che le vedeva sciolte, quando eravamo a Trieste me ne parlava. Erano chiome lunghe rossastre e bionde. Vicino a Dublino vi è un fiume che attraversa molte tintorie e le sue acque sono rossastre come quel tavolo, allora mi è piaciuto parlare di queste chiome e di queste acque che si assomigliano, nel libro che sto scrivendo”. La signora Svevo alzò le braccia e si accomodò i capelli: parve rammaricarsi di esserseli tagliati secondo la moda. La pelle del volto di Joyce era leggera e si era fatta rossa, accesa per il caldo. Si dispose per ripartire, quasi senza salutare alcuno, ma sua moglie lo arrestò sulla porta e volle che mi salutasse. Vidi ancora il suo occhio a sinistra, ceruleo, dilatato e indimenticabile come proteso al di là di tutte le cose.
Giovanni Comisso, Le mie stagioni, Longanesi & C., Milano 1985 [1960], pp. 149-152.
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Augusto Monti – Giustino Fortunato
Riporto una pagina della biografica (capitolo I) incompiuta dell’uomo politico e meridionalista Giustino Fortunato (Rionero in Vulture, Potenza 1848 – Napoli 1932), scritta nei primi anni sessanta da Augusto Monti (Monastero Bormida, Asti 1881 – Roma 1966), con l’aiuto della moglie Caterina. Monti, negli ultimi anni della sua vita, non poteva né leggere né scrivere a causa delle cattive condizioni di salute. Vi si narra il “pellegrinaggio” del torinese a Napoli nel novembre del 1929, VII dell’Era fascista, per vedere “il vero volto” di Giustino Fortunato ormai ottuagenario (e far vista a Croce, naturalmente[5]). Rapporti tra i due ve n’erano pur stati negli anni precedenti. Già il Monti tramite Beppe Isnardi aveva “donato” nel 1923 al Fortunato il suo Scuola Classica e Vita Moderna; inoltre aveva recensito sul n. 9 del “Baretti” del 1926 le traduzioni oraziane del Fortunato col titolo Giustino Fortunato traduttore di Orazio; infine Fortunato aveva ristampato seorsum per i tipi di Cuggiano, stampatore in Roma, nel 1929, la recensione del Monti. Questi i precedenti della visita di Augusto Monti che si reca a Napoli per ringraziare e conoscere di persona il “mitico” Giustino Fortunato.
Il “mitico” Fortunato
Il mio primissimo incontro se non con la persona di Giustino Fortunato almeno con il suo nome e con un frammento dell’opera sua avvenne nel 1911, e precisamente nel giorno 16 marzo, data del famoso numero unico de “La Voce” prezzoliniana dedicato alla questione meridionale, il gran numero che si apriva appunto con lo scritto intitolato Le due Italie, firmato Giustino Fortunato. Devo dir subito – a mia confusione – che a quell’epoca quel nome a me giungeva quasi completamente sconosciuto: tosto però che io aprii quello spesso fascicolo, l’autore dell’articolo fu segnalato alla mia rispettosa attenzione e dal posto d’onore che gli era stato assegnato e dalla gloriosa compagnia che gli faceva da seguito, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Ettore Ciccotti e altri già a me più o meno noti. […]
Però il mio primo incontro personale con Giustino Fortunato – ben memorabile avvenimento per me – doveva avvenire parecchi anni dopo e precisamente il 1929, circa la festa dei Santi. Nel frattempo io avevo avuto modo di apprendere intorno a quel personaggio assai cose, e diverse. […]
Recandomi a quella che era allora più che mai la mecca della cultura italiana io portavo con me, fosse o non fosse nel mio costume, un dono, un libro, un altro libro mio [già il Monti aveva “donato” al Fortunato il suo Scuola Classica e Vita Moderna], I Sanssossì – cronaca domestica pimontese del secolo XIX in due copie dall’inchiostro tipografico ancora umido; l’omaggio mio voleva anche essere il contraccambio – modestissimo – d’un altro omaggio, quello che il “magnifico” Don Giustino aveva fatto a me d’una copia della Storia d’Italia di Benedetto Croce pur dianzi uscita per i tipi del Laterza. […] un’altra copia del mio libro – quella non numero due ma numero uno bis – io portavo appunto in dono al Croce venendo allora a Napoli la prima volta in vita mia. Mi sono trattenuto in questi troppo minuti particolari – e ne chiedo scusa – perché queste circostanze valgono nel racconto a spiegare come io avessi nell’occasione potuto senza offender nessuno rifiutare le offerte di meridionale ospitalità che con contemporanea affabiltà ed insistenza eran venute al restio professorello piemontese dalle due alte casate napoletane. Sarei dunque arrivato a Napoli (Centrale) quel tal giorno, col diretto di quella tal ora; sarei sceso all’albergo Cavour appena lì fuori; il più presto possibile mi sarei presentato a Don Giustino nella sua casa di via Vittoria Colonna. Ora dell’arrivo suppergiù nel ricordo mio l’una dopo mezzodì. Orario e itinerario tutto mi era stato meticolosamente indicato e prescritto da Don Giustino in una serie di quelle sue correnti lettere che s’erano inseguite nei giorni della vigilia al ritmo di una, e anche di due al giorno. Poi successe che il mio treno fece capo non alla Centrale ma a Mergellina, il che portò al combinato itinerario una variante in aggiunta, una buona mezz’ora in più sull’orario previsto, quel tanto che occorse al perplesso itinerante per raccapezzarsi all’inatteso capolinea, trovare il tram, percorrere impazientemente il tratto – che non finiva mai – trovar l’albergo dal nome piemontese e infilarne la porta. Qui ero atteso da personale, con ansia: “Prof. Monti? Augusto? da Torino? – sì, sì, sì, telefonare subito al Senatore Giustino Fortunato; è un’ora che chiede di lei; è già venuto anche un signore apposta ad informarsi”. Telefono, dall’altro capo del filo una voce – appassionata -: “Monti! come mai? temevo chissà che cosa, ho già mandato due volte invano Della Sala”. Me l’aveva detto Isnardi, e ripetuto: “Noi con Don Giustino a Napoli ci andiamo a fare all’amore”.
Don Giustino mi faceva tutto diverso – affermò tosto alla prima vista – da quello ch’egli ebbe di fatto davanti a sé in quell’ampio luminoso soggiorno:
– Alto me l’ero immaginato, membruto, con una barba fulva: un borgognone… – evidentemente per lui noialtri dovevamo tutti venire di là, essere fatti così.
– Ma io piuttosto sarei un ligure, Staziello, Aquae Statiellae… – volevo spiegargli, sorridendo, messo già un poco a mio agio da quel suo fresco giovanile abbandono… – e da parte di madre genovese di Genova addirittura, Berlingeri;
– Ah così? ne abbiamo un ramo nelle Puglie: vengon di là di fatto… – mi guardava in volto ripassandomi quasi fattezza per fattezza, improvvisamente pensieroso. Ed io aggiunsi:
– Dicevano in famiglia che assomiglio tutto a mia madre…
– Genova, Genova… – la voce era come di chi ricordasse cose lontane… – ci dovevo tor donna…
Io invece Don Giustino sapevo bene già prima com’era fatto, era come se l’avessi conosciuto da sempre: quel che non mi sarei mai aspettato di trovare in lui, in un Senatore del Regno, senza dir dell’Autore, e a non contare gli anni, erano la vivacità, l’impeto, l’esultanza, quel qualche cosa di quasi fanciullescamente scattante, che lo faceva balzar in piedi di subito mettersi a sedere trepestare (…). Prima cosa, ponendo piede in quell’ingresso, un ritratto di Piero Gobetti ingrandito avevo visto messo in faccia ad un altro di Gaetano Salvemini; “ottimo salvacondotto – aveva detto Don Benedetto Croce vedendolo la prima volta – vi siete mica male combinato Don Giustì”: tempi quelli di fracassanti visite a studi e alloggi di illustri oppositori.
Si recava spesso in mano con me quell’ingrandimento, analizzandolo, notomizzandolo quasi, nel confronto mnemonico con i tratti, rimasti bene scolpiti nel suo ricordo del giovinetto presentatosi a lui novello sposo colà pochi anni addietro, il colore degli occhi i riflessi dei capelli, l’arco facciale… un lungilineo.
Augusto Monti, Primo e ultimo incontro con Don Giustino, in “Belfagor”, anno XXVI, n. 3, 31 maggio 1971, pp. 328-333.
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Lavinia Mazzucchetti – Clemente Rebora
La germanista Lavinia Mazzucchetti nel 1961, a pochi anni dalla morte di Clemente Rebora (Milano 1885 – Stresa, Novara 1957), fissa in questo Ricordo il momento del suo primo incontro col poeta, avvenuto a Milano una mattina di gennaio del 1908. Siamo negli anni universitari del poeta, prima della conversione religiosa, in un clima gioioso com’è proprio della giovinezza, ma fervido anche e ricco di impegno intellettuale. Sullo sfondo, i professori Martinetti, Volpe, Salvioni e Novati incalzano gli studenti che costituiranno poi la nuova generazione di maestri: Banfi e Monteverdi. Ma lo scritto è dedicato a Clemente Rebora che ardì avvicinare la studentessa in un nebbioso mattino su una pista di ghiaccio della periferia milanese. E’ quella la fonte del ricordo. L’incontro rientra nella tipologia dell’incontro scolastico e dell’autopresentazione.
Pattinando presso Porta Magenta
Diventai matricola della milanese Accademia Scientifico Letteraria, cioè della nostra Facoltà di lettere, a diciotto anni, dopo aver disimparato latino e greco nel triennio del liceo e non averci neppur trovato una minima base ai sognati studi di filosofia. Ero però pervasa di vago rispetto per tutti gli studi noiosi, cioè seri e concreti, nonché afflitta da grave complesso di inferiorità di fronte alla mia ignoranza. Noi matricole rimanemmo stordite e insieme conquistate dal livello e dalle esigenze culturali di Martinetti filosofo, di Volpe storico, di Salvioni glottologo, ma ci sentimmo anche soffocare entro la rete, allora ancor più assurda, dei troppi corsi e dei troppi esami. Per fortuna a quell’età le “disperazioni” universitarie trovano facili antidoti: non rinunciai quell’inverno a tentare di pattinare; mancava troppo spesso il ghiaccio solido, ma la gita all’alba verso i nebbiosi campi periferici di Porta Magenta era vivificante e comunque ricca di incontri. Fu là, lo ricordo benissimo, che una mattina del gennaio 1908 mi venne vicino, a testa bassa, con un gran berretto di pelo alla russa, uno degli “anziani” dell’università, il laureando Rebora, perno del terzetto per noi studenti già celebre Banfi-Rebora-Monteverdi. Mi chiedeva di essere meno restia coi compagni, di essergli amica, in nome se non altro di un’antica conoscenza e affinità politica esistente fra le nostre due vecchie famiglie mazziniane. Fui così ammessa con anticipo nel cenacolo degli anziani, suscitando amare invidie nelle compagne matricole, e conobbi presto gli impertinenti e piacevoli sarcasmi di Antonio Banfi, il filologo già passato alla filosofia, che voleva i miei appunti delle lezioni martinettiane, ma forse solo per scovarci le macchie della mia ignoranza; conobbi la impeccabile riservata cortesia di Angelo Monteverdi, prediletto del gran Novati ma non sdegnoso di metafisica, e conobbi soprattutto la esplosiva, appassionata, eloquente e travolgente cordialità di Rebora.
Con Rebora, il compagno che meno poteva mettermi in soggezione, non certo perché in ritardo con la laurea per colpa del servizio militare, ma perché fraterno e indulgente di indole, fu facile e naturale stringere subito una cara amicizia, che si approfondì sin dopo il ’20 e che soltanto per colpa mia si affievolì e si spense qualche tempo prima della sua definitiva pacificazione religiosa, quando mancò a me sufficiente pazienza e comprensione per il suo vagabondaggio pseudofilosofico, per le sue troppe conferenze salottiere con uditorio del tutto femminile.
Lavinia Mazzucchetti, Ricordo di Clemente Rebora, in “Il Ponte”, anno XVII, n. 2, febbraio 1961, pp. 223-224.
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Francesco Orlando – Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Il critico letterario Francesco Orlando (Palermo 1934), il maggior critico dell’autore del Gattopardo, racconta nel Ricordo di Lampedusa (1962), il suo primo incontro con Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896 – Roma 1957). Il Ricordo è l’occasione per disegnare un ritratto del maestro di cui si rammenta la finesse (il prestito di un paio di libri) con la quale egli mostrò di voler proseguire e approfondire quell’amicizia appena iniziata.
Per la datazione dell’episodio, si legga il Ricordo di Lampedusa, p. 9 dell’op. cit. in basso, in cui Orlando scrive: “Conobbi Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel giugno o nel luglio del 1953, a Palermo. Avevo diciannove anni ed ero uno svogliatissimo studente della Facoltà di Giurisprudenza, che solo due anni più tardi si sarebbe deciso a passare a quella di Lettere (…)”.
Il principe e lo studente
Conservo di questo primo incontro un ricordo non del tutto velato. Per caso, alla porta del suo appartamento nel palazzo di via Butera, in un quartiere a mare solenne ed abbandonato, Lampedusa venne ad aprirmi in persona. Non ebbi il tempo di aver dubbi sulla sua identità; con grande gentilezza mi disse subito che “Bebuzzo [ è il barone Pietro Sgàdari di Lo Monaco] aveva fatto bene a combinare quell’appuntamento, che lui stesso non sarebbe venuto, e che entrassi. Ma anche il suo aspetto fisico rivelava al primo colpo d’occhio una personalità fortissima: era di quegli uomini che non tardano ad attrarre involontariamente l’attenzione su di loro anche in una stanza in cui si trovino venti persone. Questo non dipendeva tanto dalla notevole statura e dalla grassezza, quanto dall’imponenza della testa, dall’apertura della bella faccia e dai due occhi scuri che, sempre timidamente sfuggenti nell’atto di porger la mano, dominavano ambiente ed interlocutori in qualsiasi altro momento. La carnagione olivastra, meridionalmente solare, evocava in me ragazzo di città associazioni campagnole anteriori ad ogni riflessione sulla sua ascendenza feudale. Mi ricevette da solo, sulla spaziosa e luminosa terrazza in faccia al mare, benché in genere la domenica la loro casa fosse aperta per un ristrettissimo gruppo di amici; quella volta rividi, credo, soltanto la principessa, che a casa di Bebuzzo avevo già conosciuta. Nel rendermi il mio dattiloscritto vi unì il Don Juan Tenorio di Zorrilla, con un giudizio poco ammirativo e l’assicurazione che per un italiano non faceva difficoltà non conoscere lo spagnolo; e mi prestò pure di sua iniziativa un Mallarmé, il che vuol dire senza dubbio che di Mallarmé si era parlato. Questi prestiti erano un’autorizzazione a vederlo di nuovo”.
Francesco Orlando, Ricordo di Lampedusa, in Ricordo di Lampedusa seguito da Da distanze diverse, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 10-11.
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Biagio Marin – Carlo Michelstaedter
Probabilmente Biagio Marin (Grado, Gorizia nel 1891 – ivi 1985) e Carlo Michelstaedter (Gorizia 1887 – ivi 1910) si erano già visti prima di quest’incontro nelle strade di Gorizia, nel cortile o nei corridoi della scuola. Tuttavia, almeno stando al Ricordo del più giovane, è questo il momento nel quale gli sguardi si incontrano per la prima volta e si instaura una reciproca intesa. Siamo nel cortile dello Staatgymnasium di Gorizia in un giorno assolato, forse di maggio, del 1904. Si tratta, dunque, di un incontro scolastico, rievocato cinquant’anni dopo la morte di Michelstaedter.
Bevendo alla cannella
Ero in quarta ginnasiale quando lui [Carlo Michelstaedter] era in ottava. Tutti lo conoscevamo. Come avviene sempre, noi più giovani guardavamo a quelli degli ultimi corsi con rispetto. Non parliamo poi di quelli dell’ottava. Tra di essi il più notato, per la sua bellezza, per la sua eleganza, e soprattutto per un cappello grigio che portava tondo alla spagnola, a tese pari, era Carlo Michelstaedter. Era uno dei “bravi”, un “eminentista” come si diceva allora. Accanto a lui i suoi amici Rico Mreule e Nino Paternolli e uno che non ho più visto, bello alto, che credo si chiamasse Simsig. Un giorno, deve essere stato di maggio, perché faceva già caldo, ero alla fontana nel cortile di tramontana, durante la pausa delle dieci. Ed ecco, sopravviene il gruppo degli splendidi amici. Io, che avevo appena accostata la bocca alla cannella, mi ritrassi per far posto ai signori dell'”ottava”. E Carlo, che era il primo, vedendo nei miei occhi e nel mio gesto quel rispetto che mi aveva fatto dimenticare la mia sete, mi sorrise con quel sorriso bianchissimo tra le belle labbra violacee, e mi disse: “bevi”. Ma io non volli bere sotto i suoi occhi così vivi e neri, quasi fossi preso da pudore e, “bevi prima tu”, gli dissi. Allora si tolse il cappello grigio orlato, che era il tocco in lui più originale e me lo porse dicendomi: “allora tienmi per favore il cappello”. E si mise sotto la cannella con la bocca ridente e i capelli, che aveva lunghi e ricciuti, gli fecero nimbo intorno al viso pallido, nobilissimo. Vedendomi, come aveva smesso di bere, allocchito, mi diede un buffetto e mi disse: “ora tocca a te, bevi”.
- Marin, Ricordo di Carlo Michelstaedter, in “Studi Goriziani”, 1962, pp. 111-117.
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Salvatore Onufrio – Benedetto Croce
Salvatore Onufrio, allievo dell’Istituto di Italiano di Studi Storici di Napoli, in un testo celebrativo dei dieci anni dalla morte di Benedetto Croce (Pescasseroli, L’Aquila, 1866 – Napoli 1952), racconta nel 1962 la sua visita al filosofo nella sua casa di palazzo Filomarino in Napoli. Siamo nel 1948, in presenza d’un “vecchio saggio”, l’ottuagenario Don Benedetto, presentato come colui che stimola ed incoraggia i giovani a proseguire e migliorare sulla via degli studi. Un Croce “ottimista”, dunque, ritratto negli ultimi anni della sua vita, ammirato ed amato dai giovani, e dal popolo napoletano che il giorno dei funerali gli tributa un commosso omaggio.
Il vecchio saggio
Conobbi Benedetto Croce nel dicembre del 1948. Mi trovavo di passaggio per Napoli, diretto a Palermo per passarvi le vacanze natalizie, e dietro suggerimento dell’amico Franchini mi recai a trovarlo a Palazzo Filomarino, in via Trinità Maggiore 12. Non nascondo che una certa ansia mista a emozione era nel mio animo in vista di quell’incontro, nel presentarmi, ancor giovane, allo studioso che più di ogni altro conoscevo e ammiravo già da alcuni anni attraverso i suoi libri. Pensavo che mi sarei trovato dinnanzi un “personaggio importante”, capace di incutere soggezione a un “aspirante studioso” quale io volevo considerarmi. Bastò che, annunciato il mio nome, la domestica di casa mi introducesse (senz’alcuna attesa) in cospetto del “senatore” perché la mia ansia e la mia emozione sparissero tutte d’un colpo. Non solo, ma se prima ammiravo lo studioso illustre, poco dopo la mia ammirazione comprese anche l’uomo, il vecchio saggio che mi stava innanzi, dietro la sua scrivania, e mi rivolgeva domande, e si dimostrava sinceramente interessato alle cose mie come se si trattasse delle cose d’un suo vecchio amico. Mi meravigliò la memoria da lui dimostratami nel chiedermi di mio padre, con cui aveva avuto rapporti epistolari a proposito d’un suo zio scrittore e poeta morto giovanissimo nel 1882, mi meravigliò la freschezza spirituale che emanava da quell’uomo che, nella sua parola ricca di inflessioni dialettali, nel suo sguardo penetrante e buono, rivelava una profonda umanità. Il suo incoraggiamento a proseguire negli studi nei quali mi sentivo versato, la sua simpatia affettuosa, bastarono a darmi fede in me stesso, a infondermi un certo ottimismo, “E’ meraviglioso – pensai – che un vecchio debba essere esempio di ottimismo e di fede nella vita a un giovane!”.
Avendomi in quell’occasione appunto incoraggiato a concorrere per una delle borse di studio dell’Istituto di Studi Storici da lui fondato pochi anni prima a Napoli, ebbi poi l’opportunità di incontrarlo e frequentarlo diverse volte l’anno seguente. Incontri, quelli, che non potrò mai dimenticare. Don Benedetto (così lo sentivamo familiarmente chiamare dai più intimi) era per tutti noi giovani sempre di stimolo e di incoraggiamento, né mai cessava di informarsi sullo stato dei nostri studi e delle nostre ricerche, dimostrando quella benevolenza e quella comprensione di cui danno spesso scarsamente prova maestri tanto, ma tanto, più piccoli di lui. Quando il 20 novembre del 1952 la radio diffondeva la notizia della sua morte improvvisa fu per molti, giovani e vecchi che ebbero la fortuna di conoscerlo personalmente, un sincero dolore, come per la perdita di persona cara, con la quale si siano allacciati rapporti non soltanto intellettuali, ma affettivi. I funerali che la sua Napoli gli tributò, non potrò mai dimenticarlo, non sembrarono quelli di un “filosofo”, di un “intellettuale”, ma di un uomo che per tutta la vita avesse goduto di grande popolarità.
Amici e avversari, inoltre, avvertirono che, con lui, si veniva a chiudere veramente un periodo della nostra vita culturale: il periodo crociano.
Salvatore Onufrio, Saggezza di Croce, in “Il Ponte”, anno XVIII, n. 11, novembre 1962, pp. 1479-1480.
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Ada Prospero – Benedetto Croce
Ada Prospero Marchesini (Torino, 1902-1968), moglie di Piero Gobetti, racconta la visita a palazzo Filomarino durante il viaggio di nozze a Napoli: il primo incontro con Benedetto Croce. E’ una pagina veramente memorabile, esatto calco delle sensazioni fortemente impresse nell’animo di Ada quel giorno, “esattamente il 20 gennaio 1923”, e non più dimenticate. La trepidazione dinanzi a Croce, il senso della propria inadeguatezza e goffaggine che la lettura delle opere del filosofo e la consapevolezza del proprio valore intellettuale non bastano a diminuire, questa somma di sentimenti e sensazioni sono rievocati dopo quarant’anni con immediatezza di accenti, come se tutto ciò fosse avvenuto il giorno prima. E come dimenticare la moglie di Croce con la “grossa macchia sulla gonna del suo vestito di casa”, rispetto al marito, tanto, tanto rassicurante?
Il ricordo è datato da Alghero, luglio ’63, ed è parte del primo dei due quaderni nei quali Ada racconta il suo rapporto con Croce.
In viaggio di nozze
Veramente Croce non lo conobbi a Meana, ma a Napoli, nel suo studio in via Trinità Maggiore, durante il viaggio di nozze con Piero.
Se la memoria non m’inganna, fu esattamente il 20 gennaio 1923 che salii per la prima volta le scale del Palazzo Filomarino. Non ricordo che impressione mi fecero: ero stanca e intontita dopo una notte di viaggio e all’immagine che ne ebbi allora si sovrappose poi, annullandola, quella degli anni seguenti. Ricordo invece benissimo ch’ero molto spaurita. Il mondo in cui m’ero trovata immersa di colpo dopo la partenza da Torino era per me assolutamente nuovo. Lo era in parte anche per Piero: ma l’istintiva coscienza del proprio valore gli permetteva di muoversi in esso con la massima sicurezza. Io invece ero così inesperta, così goffa. Non avevo maturità intellettuale, ma una sfumatura di presunzione per i recenti successi scolastici; e mi mancava qualsiasi esperienza mondana. Nella settimana precedente, trascorsa a Roma, avevo incontrato persone come Giovanni Amendola e Zanotti Bianco, Prezzolini e Tilgher, Pirandello e De Chirico, tutte per me ugualmente gigantesche e remote; e ogni volta avevo avuto all’inizio un momento quasi di panico in cui mi chiedevo affannosamente come dovessi comportarmi, che cosa dovessi dire.
“Come mi accoglierà il filosofo?” – pensavo con un certo batticuore mentre attraversando un interminabile corridoio su cui si apriva una serie di stanze tutte colme di libri, ci dirigevamo al suo studio.
Il filosofo fece molte feste a Piero che già conosceva: quanto a me mi degnò appena di uno sguardo. “Vado a chiamare mia moglie” – disse subito: e lo disse con tono definitivo, come per rendere subito chiaro che non l’interessavo e che non aveva nulla da dirmi.
Poi si mise a chiacchierare animatamente con Piero: sulla situazione politica, su “Rivoluzione Liberale”, sugli amici di Torino. Guardavo, intorno a me, gli scaffali pieni di libri, e fuori dalla finestra, aperta pur in quella stagione invernale, il terrazzino di una casa accanto su cui il sole illuminava alcune piante fiorite.
A un tratto Piero, nel tentativo di includermi nella conversazione, disse che anch’io studiavo all’Università di Torino. “Ah, sì” – chiese Croce, con quello che mi pareva un barlume d’interesse. “E che cosa studia?” – “Filosofia” – risposi timidamente e, prendendo il coraggio a due mani, aggiunsi: “E ho anche letto le sue opere” – “Ah!” – fece Croce con una specie di grugnito; e subito riprese la conversazione con Piero. Capii d’aver detto una cosa sciocca e puerilmente presuntuosa: ma ormai era fatta.
A togliermi dalla confusione arrivò la signora Adele: semplice, cordiale, materna. Mi confortò il suo accento piemontese, la vista di una grossa macchia sulla gonna del suo vestito di casa: fu per me come il ritrovarmi in un mondo famigliare dove potevo muovermi senza paura.
Ci mettemmo a discorrere di Torino, dell’università, dei professori. La conversazione tra noi due divenne subito animata. A un tratto Croce si volse a noi. “Che? Che?” – disse come interessato. “Mi racconta di Torino” – spiegò la signora amabilmente, “Ah, ricordi di gioventù” – commentò il filosofo con un tono che mi parve sprezzante e che era invece di semplice constatazione.
Si aprì una porta ed entrò una bambina di quattro o cinque anni con un visetto arguto in cui si fondevano i lineamenti del padre e della madre. Era la secondogenita. Alda ci osservò con un’attenzione che mi parve acutamente e maliziosamente critica, recitò una poesia dedicatagli da un amico di famiglia, di cui il Senatore parve compiacersi, come un qualsiasi padre borghese, mentre la madre scuoteva invece il capo, dicendo, non capii perché, “poveri bambini”. Poi se ne andò.
Il colloquio tra Croce e Piero era intanto finito. “Vorrei pregarvi di rimanere a colazione” – disse la signora Adele – “ma la cuoca è partita proprio oggi…”. Ringraziai con riconoscenza e sollievo: nonostante l’accento piemontese e la patacca sul vestito della padrona di casa, un pranzo in casa Croce mi avrebbe terribilmente imbarazzata.
Riattraversammo il lungo corridoio, ridiscendemmo lo scalone. “Ho conosciuto Benedetto Croce” – continuavo a ripetermi, un po’ incredula. Non ero né esaltata né delusa: avevo semplicemente toccato una dimensione di realtà a me ignota, come il sole e l’azzurro del cielo di Napoli, che abbagliavano i miei occhi, non avvezzi a quello spendore.
Ada Gobetti, Ascoltare parlar Croce, in Mezzosecolo. Materiali di ricerca storica, n. 7 degli Annali 1987-89, a cura del Centro Studi Piero Gobetti, Franco Angeli 1990, pp. 10-12.
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Norberto Bobbio – Piero Martinetti
Come insegnare che “la chiarezza è l’onestà del filosofo” e poi ritrovarsi in gattabuia: questo è il senso del primo incontro, più una coda, tra Norberto Bobbio (Torino 1909) e Piero Martinetti (Pont Canavese, Torino 1872 – Castellamonte, Torino 1943). L’incontro, avvenuto a Spineto (Alessandria) nell’autunno del ’34, è raccontato non senza humour da Bobbio in un discorso celebrativo del ventesimo anniversario della morte di Martinetti in Castellamonte il 19 ottobre 1963. Nel racconto di Bobbio rivive il periodo della sua giovinezza, segnato dal contatto con integerrimi maestri, e tuttavia da un clima politico in cui anche il filosofo poteva conoscere la galera.
La tipologia è quella della presentazione.
Il filosofo e la galera
Sono passati quasi trent’anni dal giorno in cui venni per la prima volta a Castellamonte. Gioele Solari, mio maestro, voleva presentarmi a Piero Martinetti, che viveva da qualche tempo in volontario esilio nella rustica casa avita di Spineto. Doveva essere l’autunno del ’34. Era appena uscita l’ultima opera della grande trilogia, cioè l’Introduzione alla metafisica del 1906, e La libertà del 1928, il volume Gesù Cristo e il Cristianesimo, subito sequestrato per offese alla religione, ma ad onta del sequestro diffuso rapidamente e furtivamente tra amici, discepoli, ammiratori. A quest’opera Martinetti si era dedicato infaticabilmente negli ultimi anni, dopoché, dal ’31, aveva voltato sdegnosamente le spalle all’università asservita.
La fama di Martinetti era in quel tempo, nella cittadella della filosofia italiana, altissima. Oltre Croce e Gentile, solo Martinetti allora era considerato da noi giovani, non un professore di filosofia, ma un filosofo. Io ero, invece, un giovinotto da poco laureato, che stava facendo i primi incerti esercizi come scrittore di cose filosofiche. Avevo scritto durante l’estate un articolo, tratto dalla mia tesi di laurea, sulla filosofia di Husserl, di cui si cominciava allora a parlare. Solari lo aveva inviato, proponendone la pubblicazione sulla “Rivista di filosofia”, a Martinetti, che ne era il direttore occulto: la ragione della visita era sentire che cosa egli ne pensasse e in più, se il verdetto fosse stato favorevole, proporre una mia collaborazione più regolare alla rivista, anzi la mia partecipazione al consiglio direttivo che si riuniva a Milano due volte l’anno. Pareva che la rivista, guardata con sospetto dal regime, abbandonata dalla filosofia ufficiale, sostenuta anche finanziariamente da un piccolo cenacolo di amici e mal provvista di mezzi, avesse bisogno di qualche giovane volenteroso. Si può immaginare la mia emozione: fortunatamente ero guidato, per così dire scortato, dal vecchio Solari la cui giovialità era proverbialmente contagiosa. Martinetti aveva letto il mio articolo. Mi disse che in complesso poteva andare, ma era un po’ astruso. Mi consigliò di renderlo un po’ più accessibile al lettore comune: insistette sul fatto che la “Rivista di filosofia” era rivolta non soltanto agli studiosi di filosofia, ma a anche a gente semplice che coltivava i problemi dell’anima senza appartenere alla esigua e presuntuosa schiera degli specialisti. E’ una lezione che non ho più dimenticata e di cui ho cercato, nel corso della mia vita, di far tesoro. Martinetti aveva il culto della chiarezza: soleva ripetere che la chiarezza è l’onestà del filosofo. Come uomo, visto a tu per tu, era estrememente semplice, un po’ ruvido e asciutto, ma di grande affabilità: aveva gli occhi sfavillanti, la fronte altissima, sporgente, il volto segaligno, la voce energica. Aveva allora più di sessant’anni, ma al mio ricordo l’aspetto era ancor giovanile. Vestiva dimessamente e si sapeva che viveva con grande frugalità, disprezzando i beni materiali, ciò che riluce di fuori ed è opaco di dentro. Alla fine del colloquio mi trovavo ormai a mio agio, e visitammo insieme la splendida biblioteca, dove mi colpirono soprattutto i libri di storia e di critica religiosa che egli era andato raccogliendo negli ultimi anni.
Questo incontro ebbe poi una coda, che è la parte più curiosa di tutta la storia. Qualche tempo dopo Martinetti mi scrisse una cartolina postale ove mi diceva di esser lieto per la mia decisione di entrare a far parte stabilmente del consiglio direttivo della “Rivista di filosofia”. Indi aggiungeva questo commento: “La rivista è ancora una delle poche voci libere che vi siano in Italia: è poca cosa, ma coi tempi che corrono è molto”. Il mattino del 15 maggio del ’35 a Torino, la polizia politica fece una grossa retata di intellettuali invisi al regime: era quello che si dice un bel colpo. Fui arrestato anch’io per legami di amicizia con alcuni esponenti del movimento clandestino di Giustizia e Libertà. Ma la vera sorpresa di quella mattina fu che andarono a prendere anche Martinetti che non aveva alcun rapporto nè palese né segreto col gruppo. Era atteso quella mattina a Torino in casa Solari, dove si recava una volta al mese, credo per ritirare la pensione. Alle sei arrivarono i questurini e misero a soqquadro l’alloggio. Quando verso le dieci giunse Martinetti, ignaro e senza alcun sospetto, Solari lo presentò cordialmente agli insoliti visitatori e quelli senza tanti complimenti se lo portarono via. Nell’unico interrogatorio che ebbi nei brevi giorni di detenzione mi fu rinfacciata tra l’altro la frase scritta da Martinetti nella cartolina poc’anzi citata, e mi furono chieste le solite spiegazioni. Evidentemente la mia corrispondenza era da qualche tempo sorvegliata e la frase incriminata era stata rilevata e copiata. Non saprei dire quali fossero le ragioni che indussero il capo della polizia politica di Torino ad arrestare quel giorno anche Martinetti. Ma non escludo che avesse avuto la sua parte anche l’innocente cartolina. Comunque, lascio ai futuri storici dell’antifascismo torinese il compito di appurare la verità.
Norberto Bobbio, Piero Martinetti, in Italia civile, Passigli Editori, Firenze 1986, pp. 94-96. Già pubblicato in “Rivista di filosofia” LV, 1964, pp. 54-56.
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Giorgio Zampa – Luigi Bartolini
Il critico letteratio Giorgio Zampa (San Severino Marche, Macerata 1921) fa visita, insieme allo scrittore Paolo Volponi (Urbino 1924 – Ancona 1994), al settantenne pittore e scrittore Luigi Bartolini (Cupramontana, Ancona 1892 – Roma 1963), che di lì a poco sarebbe morto a causa di un tumore. Il racconto del primo incontro, che sarà anche l’ultimo, è parte del necrologio in onore di Bartolini. Zampa si era proposto di annotare le forti impressioni ricevute subito dopo la visita all’ammalato (che ignora il suo male), ma aveva rinviato e dimenticato di farlo. Volponi, dinanzi alla drammaticità della situazione, ostenta un certo distacco, e in realtà tradisce la sua emozione col “tono secco”, più del dovuto, ch’egli adopera per rivolgersi all’anziano amico.
Il racconto, esemplare del diverso atteggiamento che si assume di fronte alla morte (la rimozione di Zampa, l’apparente distacco di Volponi), si conclude con un valido insegnamento di Bartolini sull’arte dello scrivere: non basta la precisione, occorre la chiarezza.
Siamo a Roma nel 1962.
Al capezzale dell’ammalato
Conobbi di persona Luigi Bartolini a Roma, il 27 ottobre dell’anno scorso [1962]. Con Paolo Volponi avevamo deciso da un pezzo d’andare a trovarlo. Telefonammo da un ristorante, per fissare l’appuntamento. “Alle due e mezzo”, disse Volponi nel sedere di nuovo di fronte a me. “Muore. Anita ha detto di non lasciare capire nulla, ma non c’è più niente da fare”. Pronunciò tali parole con la sua inflessione urbinate, fissandomi con l’espressione assente e interrogativa che assume quando un pensiero lo tiene e deve occuparsi d’altro.
Traversammo Roma sotto la pioggia, arrivammo al margine della città; via Davila nasceva allora, il tassista non sapeva da che parte entrare, i passanti, interrogati, si stringevano nelle spalle, poi qualcuno disse che i numeri bassi di via “Davìla” cominciavano laggiù. Sprofondammo in uno sterrato, a un certo punto ci arrestammo in mezzo al fango, la vettura non poteva più avanzare. Il palazzo era sulla sinistra, isolato tra chiazze di verde e ciuffi di pini; aveva due ingressi e noi, naturalmente, entrammo in quello sbagliato. La portinaia parlò al citofono; eravamo i soli ad avere il permesso di salire.
L’uscio, al quinto piano, si era appena schiuso, quando una voce energica cominciò a ripetere il nome di Volponi, come per proibire all’amico d’indugiare; così, ci presentammo a Bartolini con gli impermiabili indosso. “Ah, Zampa, piacere”, disse dandomi un’occhiata per poi tornare a fissare Paolo, “Beh, mettetevi comodi. Anita, porta le sedie, non vedi che stanno tutti in piedi. Dunque, eh, che scherzo questo ginocchio. L’altro giorno…”.
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Appena rientrato in albergo, la sera, mi proposi di prendere qualche appunto sulla visita. Non lo feci, trascurai di farlo il giorno dopo, rimandai anche quando ebbi lasciato Roma. Sapevo che, a non fermare alcune cose, le avrei perdute per sempre. Quell’incontro aveva significato molto per me: non dovevo lasciare che sbiadisse, che certe frasi si dissolvessero. Non scrissi una parola: sebbene le portassi a lungo dentro e potessi udirle quando volevo, intatte. Forse non lo feci, perché l’episodio mi aveva toccato troppo. O piuttosto mancai verso me stesso. Appresa dal giornale la morte di Bartolini, la mia prima reazione fu di rimorso. Né valse la ragione che mi detti: “Non credevo che morisse. Due, tre settimane fa avevo visto un suo articolo. Mi ero detto che s’era ripreso”.
Ora l’ho davanti, sdraiato, la schiena contro il muro, nella stanzina che il letto occupava quasi intera. Un berretto da fantino di panno blu, giacca da camera caffè e latte. Mani lievi, mobili, ancora giovani, sul risvolto del lenzuolo; la singolarità dell’anello espiscopale. Debbo richiamarmi a quanto provai nel fissare il viso dal naso imperioso, il labbro inferiore risentito, lo sguardo senza debolezza, che la diffidenza di quando in quando induriva: mia nonna Reginalda. Lo stesso colore di pelle, la stessa grana fine. Le vecchie Marche, col loro rifiuto del patetico, sospettose di fronte alle parole, decise a rinuciare a ogni consolazione: insensibili al futuro, attente alla vita che passa.
Parlava volentieri, accalorandosi per convincere. I medici erano un branco di somari: e le medicine che gli ordinavano, intrugli. Mancava quella slogatura al ginocchio! Altrimenti sarebbe stato benissimo. L’operazione era andata a meraviglia. Era laureato anche in medicina, non si faceva prendere per il naso. “I soli rimedi sono quelli naturali, della santa natura: vedete, io bevo tanto volentieri il mio tè, vivrei solo di quello, sono sicuro che se mantenessi una dieta come dico io, andrebbe tutto a posto. Ah, quant’è buono il tè, proprio non mi stancherei mai di berlo: credetemi”.
*
**
Volponi si muoveva continuamente dal letto a un tavolo su cui erano disegni, incisioni, manoscritti. Mi colpì il tono staccato, a volte secco con cui si rivolgeva al malato. Non temeva di contraddirlo, dava a vedere fin troppo di non lasciarsi influenzare dai suoi ragionamenti: rientrati nella cameretta, dopo essere stati a scegliere delle incisioni all’altro capo dell’appartamento (grande, appena finito, con le porte a vetri, i pavimenti di “tabelloni” le pareti al ducotone), mi pareva prendesse a momenti, un piglio quasi ostile.
La signora Anita ci aveva detto, mentre confrontavamo esemplari dello “Scarabeo Ercole” o della “Passeggiata degli Angeli”, che la metastasi s’era estesa alle gambe: di qui il gonfiore al ginocchio. L’operazione era stata inutile; avrebbe resistito altri sei mesi – e sarebbero stati mesi d’inferno. “Lo sapesse, si butterebbe dalla finestra”. Volponi esaminava in silenzio le stampe, sembrava non udire la voce che raccontava di medicine versate di nascosto nella minestra, di trucchi per fare entrare in casa il medico, di illusioni incredibili. Nel congedarsi da Bartolini, fece come se dovesse tornare la settimana successiva. Il dolore al ginocchio sarebbe passato. Bartolini disse: “Si capisce, che stupido fui a inciampare per la scala di quel fotografo”.
Vorrei rammentare un’ultima cosa. Parlai a Bartolini di un suo articolo su Maiolati, Spontini e le Marche uscito in quei giorni, gli dissi che mi era molto piaciuto. “Ci ho messo parecchio per imparare, ora mi pare di scrivere molto meglio di prima, tutto sta nello scriver chiaro, non basta essere precisi, bisogna essere chiari”. Dopo “precisi” e dopo “chiari” emise il suo “eh” caratteristico, in un tono tra di accertamento e di ammonizione. Teneva gli occhi bassi e con le mani piccole, smagrite, posate sul dorso, spianava una piega del lenzuolo.
Giorgio Zampa, Ricordo di Bartolini, in “Lo Smeraldo”, anno XVII, n. 4 – 30 luglio 1963, pp. 21-23.
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Ranuccio Bianchi Bandinelli – Karl Julius Beloch
Questo ricordo dello storico e critico d’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli (Siena 1900 – Roma 1975) del suo primo incontro con lo storico tedesco Karl Julius Beloch (Petschkendorf, Slesia, 1854 – Roma, 1929) avvenuto a Siena negli anni della Grande Guerra, è parte di un contributo richiestogli nel 1964 dal preside del Liceo classico di Siena per la celebrazione del centenario dalla fondazione del liceo medesimo intitolato a Enea Silvio Piccolomini, di cui ricorreva allora il quinto centenario della morte. Il contributo è datato 14 marzo 1965. Un giovane liceale (il Bianchi Bandinelli) prende il coraggio a quattro mani per accostarsi al più che settantenne Beloch: momenti indimenticabili, da cui sarebbe scaturita una sorta di iniziazione agli studi di antichistica, ed anche una libertà di pensiero unita al disprezzo per le opinioni ingiuste ed ingiustificate della gente.
La tipologia dell’incontro è quella dell’autopresentazione.
Un “internato”
Io, in biblioteca ci andavo; così feci, presto, la conoscenza del Forcellini e del Du Cange, del padre Kircker, nelle edizioni Didot, del Garrucci, dello Schliemann, del Mommsen, mentre taluno studente di lettere arriverà, sì o no, a conoscerli nei quattro anni di Università. Ma feci anche la conoscenza di Giulio Beloch; non solo, questi, sul frontespizio di un libro, ma in carne ed ossa. Il più autorevole storico dell’Antichità allora vivente, era professore all’Università di Roma, giacché allora vigeva la legge Casati che rendeva possibile la chiamata in ruolo anche di uno studioso straniero (ed è sintomatico, che tale possibilità, abolita dalle legislazione fascista, non sia stata ancora rimessa in vigore; anzi, non sia mai stata richiesta da nessuna delle organizzazioni esistenti). Il Beloch, dunque, era professore di ruolo in Italia; ma essendo cittadino tedesco era suddito nemico ed era stato, come tale, “internato” a Siena, città ben lontana da ogni linea strategica. Passava, poveretto, le solitarie giornate in biblioteca. E io ebbi il coraggio, un bel giorno, di affrontarlo e di parlargli. Fu il mio primo contatto con un vero studioso. Beloch era vecchio (o, meglio, tale sembrava a me, allora) con una barba gialliccia e le gambe “a ìccase” (forma toscana, registrata nei vocabolari per dire X). Non era bello, e la gente lo guardava male: “la spia tedesca”, diceva la gente. E guardavano male anche me, quando lo accompagnavo a casa parlando in tedesco. (Fu la prima volta, ma non l’ultima, che una parte dei miei concittadini mi guardò male).
Ranuccio Bianchi Bandinelli, Ricordi e giovanili errori, “Belfagor”, a. XX, n. 4, 31 luglio 1965, pp. 481-482.
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Leone Piccioni – Cesare Pavese
Il critico letterario Leone Piccioni (Torino 1925) distingue due fasi del suo primo incontro con Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, Cuneo 1908 – Torino 1950): la prima, a Roma, verso la fine del giugno 1950 in occasione del Premio Strega assegnato a Pavese per La bella estate, durante la quale Piccioni osserva da vicino lo scrittore, ma evita di avvicinarglisi; la seconda, poco più di un mese dopo, a Forte dei Marmi, dove è lo stesso Pavese che ricerca il contatto col giovane critico, per ringraziarlo dell’interesse dimostrato per l’opera sua. Il racconto dell’incontro-convegno con Pavese è l’occasione per una riflessione sulla “…ingenuità nostra d’allora”, per la quale, dice Piccioni, “capitandoci di conoscere lo scrittore famoso, il maestro, c’era un tipo d’emozione sincera in noi, ma particolare, che si ripeteva ogni volta”: l’emozione del primo incontro.
Il racconto, datato 1968, è fortemente pervaso da una vena elegiaca, poiché retrospettivamente quell’incontro con Pavese risulta essere primo e ultimo. Ed infatti, su ogni altra considerazione risalta il ricordo doloroso della fine prematura di Cesare Pavese, avvenuta il 26 agosto del 1950.
Il volume da cui è tratto questo racconto è Maestri e amici (del 1969, ma vi si rifondono saggi e articoli degli anni immediatamente precedenti), una sorta di autobiografia intellettuale attraverso una serie di ritratti di scrittori, poeti, pittori, scultori conosciuti e studiati dall’autore.
Estate 1950
Il Premio Strega si assegnava in quell’anno 1950 sulla terrazza di un albergo romano dalle parti di Trinità dei Monti, e c’era l’aria ancora fervente della Roma del dopoguerra, aria non poco confusa negli impatti tra politica, letteratura, mondanità. Vien fatto di pensare che si desse allora molto maggiore importanza alle manifestazioni culturali, del resto assai più rare: forse perfino troppa, raccogliendo anche ruggiti o sospiri di letterati. (Via via le cose sono un po’ mutate, e non c’è, tutto compreso, da rallegrarsene: di quella importanza ben poco oggi è rimasto sia in sede politico-sociale che in sede mondana.)
Tardo giugno 1950: illuminazione assai forte su quella terrazza, cineoperatori (la TV non c’era ancora), gente stipata, un caldo da scoppiare: era notte ma si sudava, il pavimento ribolliva: vestiti leggeri, per quanto se ne volesse, un bel caldo!
Per la prima volta a me accadde di vedere quella sera Cesare Pavese di persona. Arrivò in un atteggiamento assai singolare, e per me indimenticabile, asciutto e schivo, a disagio ma anche un poco abbandonato a quell’insolito piacere (un piacere che avrebbe dovuto essergli sgradito, ma lì per lì, sgradito davvero non gli era), da pochissimi conosciuto personalmente, ma da tutti amato o avversato come scrittorre e come personaggio, già un mito vivo per la letteratura di allora, in un momento per lui cruciale anche rispetto a quella che di lì a poco fu la volontaria fine della sua vita. Vestito di chiaro, profilo teso sotto gli occhiali, anche se rispondeva sorridendo ai saluti, e poi ai complimenti – reso noto l’esito della votazione – non mutava lo stato della sua tensione. Vinse a mani basse, com’era giusto, ampiamente doppiando gli altri candidati della “cinquina”, con enorme distacco di voti anche dal secondo: e di rado premio letterario fu meglio assegnato di questo dato a Pavese per La bella estate. Di fronte a saluti, ad applausi, a complimenti, Pavese cercava piuttosto rifugio nello sguardo e nella vicinanza della bella attrice americana Doris Dowling, sorella di Costance, di cui Pavese era, in quel momento, molto innamorato, ma già in una profonda crisi sentimentale come poi, dalle date del diario, Mestiere di vivere, fu facile ricostruire. (E che sorte tragica e amara toccò anche a quelle due splendide sorelle!) Per quella sera del Premio, nel diario è scritto: “Domattina parto per Roma. Quante volte dirò ancora queste parole? E poi? Questo viaggio ha l’aria di essere il mio massimo trionfo. Premio mondano, D. [oris] che mi parlerà – tutto il dolce senza l’amaro. E poi? e poi? Lo sai che sono passati i due mesi? E che, any moment, può tornare?” (22 giugno). (Ed era certo Costance che poteva “tornare”: For C. Ripeness is all, fu la dedica de La luna e i falò. To C. from C. sarà quella di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.)
Poi, passati venti giorni (14 luglio): “Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo Tutto crolla. L’ultima dolcezza l’ho avuta da D. [oris], non da lei. Lo stoicismo è il suicidio. Del resto sui fronti la gente ha ricominciato a morire”.
(La guerra di Corea è in pieno corso.)
Ammiravo Pavese scrittore, c’eravamo scambiati una lettera o due, mi ero occupato, scrivendone, di quasi tutti i suoi libri di quegli anni, ma non volli disturbarlo quella sera, né lo salutai, né mi presentai a lui: lo osservavo da pochi metri, ed ero emozionato, io stesso, commosso, vedendolo in quell’atteggiamento raro. Altre edizioni di quello stesso Premio Strega, o di altri, mi avevano messo a contatto con vincitori – o sconfitti – di tutt’altra pasta: sicuri del loro lavoro, abituati a quei fatti, un poco – come dire? – di routine; anche la trepidazione e l’attesa, e – scontata – anche la soddisfazione della vittoria. Pavese aveva aria tutta diversa, insolita, forse tale che non ne ho mai vista simile un’altra, né potrò vederne mai: pensate, pur con un po’ d’ironia, “beatitudine”, “massimo trionfo”, “apoteosi”, detto da Pavese, giugno-luglio del ’50, e per un premio letterario!
[…]
Non conoscevo, dunque, Pavese, ed era già il mese di luglio di quel ’50: anche della Luna e i falò, avevo scritto, anche per quell’articolo Pavese mi inviò una lettera (Epistolario, II, pagina 556, 30 luglio ’50). In agosto ero al Forte dei Marmi, in vacanza, a casa nel pomeriggio, a difendermi dal caldo e a riposarmi, quando mi vennero ad avvertire da parte di De Robertis e di Pea, che al caffè Roma c’era Pavese di passaggio, ed in gran fretta. Era andato a salutar De Robertis, sicuro di trovarlo sotto i platani del caffè, accanto a Pea col baschetto e la bicicletta, e intorno Longhi, Carrà, Luzi, Bigongiari – quanti? (e quanti di passaggio fino ad una tal larga cerchia, con signore, bambini, mamme, nonne, nipoti, da prender tutto lo spazio con diecine di tavoli uniti?). Pavese aveva saputo che anch’io ero da quelle parti in vacanza, aveva detto che mi avrebbe conosciuto di persona e salutato volentieri, ma si fermava pochissimo, ripartiva subito, forse per Bocca di Magra, a trovar Vittorini, Einaudi, Sereni, non so… Ed io in bicicletta, vestito da mare, senza cambiarmi, a precipizio, e mi parve vedendolo, di volergli subito bene, di avergliene anche prima voluto, avvertendo sotto una tensione sua, sotto una limpida o rigida scorza, come una tenerezza, una debole disponibilità d’affetto – e so bene che non avrei voluto tanta gente d’intorno – neppure i miei cari De Robertis o Pea -, che avrei voluto stare un po’ solo con lui, a sentirlo parlare, a chiedergli di una casa o di un’altra – ma fu brevissimo colloquio il nostro, di continuo interrotto. Ma son sicuro di questo. Tante altre volte, a quei tempi (ora non so: non so in questo i giovani come siano, ma certo assai diversi da quella certa ingenuità nostra d’allora), capitandoci di conoscere lo scrittore famoso, il maestro, c’era un tipo d’emozione sincera in noi, ma particolare, che si ripeteva ogni volta. Ricordo veder Gadda a Firenze la prima volta, o incontrar Montale cosa fu per me, anche di fronte alla loro gentilezza, al loro tentativo di metterci a nostro agio; e perfino incontrar Bo (dico “perfino” perché oggi sono legato a Bo oltre che d’ammirazione, da tale affetto da considerarlo un poco fratello maggiore), divenendo la confidenza, un modo di voler bene, a poco a poco, più tardi. Ma in quel giorno dei primi d’agosto al caffè del Forte dei Marmi, non mi pareva di salutare lo scrittore già famoso e per me tanto importante, in Pavese, ma qualcuno conosciuto già, inconsapevolmente, in modo così preciso, da volergli bene.
Pochi giorni più tardi – 26 agosto – aprendo il giornale, ancora al Forte, la notizia della sua morte, il racconto preciso della maniera da lui scelta per levarsi di torno (simile a quella proposta per Rosetta alla fine di Tra donne sole), al massimo del successo letterario, annoiato, sofferente ancora, certo, ma soprattutto senza più voglia di seguitare a sbattere contro il muro di una realtà che sentiva non appartenergli.
Leone Piccioni, Cesare Pavese, in Maestri e amici, Rizzoli, Milano 1969, pp. 176-182.
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Paolo Pavolini – Rossana Rossanda
Il giornalista Paolo Pavolini presenta Rossana Rossanda (Trieste 1924) ai lettori de “Il Mondo” nell’ottobre del 1969, mentre è imminente l’espulsione dal PCI del gruppo de “Il Manifesto” (sarà radiato in quello stesso ottobre), di cui la Rossanda è magna pars, per evidente eterodossia rispetto alla linea del partito. Questo spiega l’odore di zolfo che lascia al suo passaggio la bella signora dal “neo nerissimo sul volto candido”. Si rammenti che già nel giugno 1969 la Rossanda aveva fondato con alcuni intellettuali del PCI “Il Manifesto” come mensile diretto da Luigi Pintor, che diverra quotidiano solo a partire dall’aprile del 1971. L’incontro tra Pavolini e la Rossanda non è datato, ma supponiamo sia avvenuto nei primi anni cinquanta (nel 1969 Pavolini fa riferimento ad una circostanza di molti anni prima). Si tratta dunque di una rievocazione autobiografica. L’incontro rientra nella tipologia dell’incontro-convegno.
L’odore di zolfo
Conobbi Rossana Rossanda molti anni fa durante un congresso socialista, e ricordo il mormorio di stupita ammirazione fra tutti i colleghi della stampa al passaggio di quella creatura. La eleganza semplice del tailleur dal taglio perfetto di gabardina mordoré che ne fasciava la figura flessuosa, era soverchiata da un volto pallido e liliale di quelle donne lombardo venete, che sono così belle quando sono belle. Il neo poi, quel neo nerissimo sul volto candido, e fissato proprio fra le narici e il labbro, appariva una provocazione irresistibile. Sembrava davvero impossibile che quella dama altera e fascinosa militasse nelle file del PCI di allora, così poco fine, socialmente parlando, nei suoi esponenti in genere e nelle sue donne in specie.
Le notizie su di lei, subito raccolte da tutti i colleghi (e, va da sé, ognuno per conto suo) aggiunsero altri pregi alle doti puramente femminili. Si seppe che quella signora era uno degli intellettuali più colti del PCI e insieme il numero uno della mondanità comunista, dotata in più di talenti organizzativi e di un istinto naturale per il comando che ne assicuravano sino da allora una rapida ascesa nelle gerarchie del partito. Passandomi accanto lasciò dietro di sé una scia di profumo insolito ed insinuante: e in una sosta del congresso volli informarmi subito in un negozio ad hoc quale ne fosse la marca e l’origine. Il profumo, seppi, era francese e si chiamava “Ma griffe”, la mia unghia, e si potrebbe dire anche il mio artiglio. Ed aveva inoltre un sottofondo piuttosto fuor di regola per un cosmetico femminile: odorava di zolfo.
Paolo Pavolini, La basilissa del PCI, in “Il Mondo”, anno XXI – 30 ottobre 1969, p. 7.
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Claudio Marabini – Giuseppe Ungaretti
Il critico letterario Claudio Marabini (Faenza, 1930) nell’epicedio di Giuseppe Ungaretti, ricorda l’incontro con il poeta a Milano nel 1970, qualche mese prima che morisse. Ma l’incontro che importa, anche in questo caso, è il primo, avvenuto nel 1966, sul Carso. Il paesaggio maestoso e tragico della valle dell’Isonzo rivive a mezzo secolo dalla Grande Guerra durante una escursione di gruppo (c’è anche Betocchi e Falqui) finalizzata all’evocazione di un mondo scomparso, il mondo cruento della prima guerra mondiale, riesumato non già dalla visita al museo, bensì dal contatto con la terra rossiccia, intrisa del sangue di migliaia di fanti uccisi nelle trincee. La tipologia è quella dell’incontro-convegno.
Ritornando sul Carso
Incontrai Ungaretti a casa sua alla vigilia della sua partenza per l’America. Aveva vinto un premio prestigioso, il “Books abroad”, che un po’ gli riparava lo smacco, o il mancato trionfo, del Nobel. […]
Non avevo nulla di particolare da chiedergli. Volevo solo vederlo in casa sua dopo il primo incontro sul Carso, quattro anni prima. […]
La visita al Carso era stata decisa a Gorizia, all’improvviso, dopo la conclusione di un convegno sulla letteratura mitteleuropea a cui Ungaretti aveva presenziato. Da quel tempo, dal tempo della trincea e delle poesie dell’Allegria, era trascorso esattamente mezzo secolo, e Ungaretti non aveva più messo piede sul Carso. Poco dopo alcune automobili filavano lungo una strada polverosa, costeggiata da siepi di acacie, diretta al San Michele. Si staccava a Sagrado dalla statale che da Gorizia porta a Trieste seguendo la linea di confine. Nei varchi della siepe balenava sulla destra la valle dell’Isonzo.
Fummo presto sulla cima: uno spiazzo abbastanza ampio cosparso di minute e bianche schegge ghiaiose: il colore del Carso, certo. A sinistra, il piccolo edificio del museo; qua e là, come piccoli monumenti tra aiuole e sentieri cannoncini grigioversi appostati: settantacinque da campagna, disse Betocchi, che faceva parte del gruppo. A destra, un parapetto e di là il grande spettacolo della valle col fiume che serpeggia, l’acqua che in alcuni tratti luccica metallica, in altri, i più fondi, dove il fiume fa gomito, s’addensa in un verda vigoroso e trasparente: “…l’Isonzo / di asfalto azzurro…” scrisse una volta Ungaretti. Biagio Marin lo aveva definito “il fiume che trascolora dalla malachite, alla giada verde, al quasi celeste delle turchesi”.
Ci avvicinammo al parapetto. A destra, sullo sfondo, la scura catena su cui corre il confine; giù, stesa nell’estremo lembo della piana, la macchia rosa di Gorizia; e immediatamente a ridosso, alla sinistra della città, scuro di vegetazione, il Calvario: vi morirono Serra, Slataper, Borsi; vi cadde la prima medaglia d’oro, il cesenate Decio Raggi: una tabellina blu, vergata finemente di bianco, lo ricorda a chi, provenendo da Gorizia, arriva al bivio salendo verso la cima e le Tre Croci.
Poi, accompagnando il corso del fiume, s’intravedono Lucinico, San Lorenzo; più vicino, Gradisca. L’Isonzo piega verso il mare; il poggio del San Michele lo copre. Lì sotto è il ponte di Sagrado. Guardammo, UNngaretti a occhi strizzati, e pareva ridesse con la maschera faunesca color rosa. Qualcuno ci chiamò verso il museo; un vialetto di cipressi toscani si staccava da quel punto verso l’alto. Non era certamente quello il Carso. Pare che questi cipressi li abbiano piantati allora, subito dopo; e che non possano crescere più che tanto su quella roccia scagliosa. Ungaretti disse che erano cipressi alla De Carolis. Si guardò intorno, curvo, e parve cercasse qualcosa, e anche in terra, fra il pietrisco e la polvere. Entrammo nel museo; la visita fu breve. Ricordi di guerra sotto le teche, molte foto alle pareti, e scritte, date, cifre: cifre di morti, di feriti, di ufficiali, di soldati. Ecco il pietrisco del Carso nelle foto, le trincee, i soldati gettati a terra, morti. Ungaretti guardò, rammentò luoghi e fatti: il ponte di Sagrado quando “lo buttavano giù”, per la ritirata di Caporetto, e loro che erano ultimi: “noi ultimi”; e l’ordine che non arrivava mai, e tutti erano disarmati; e poi il “vallone” del San Michele, quando loro erano “di rincalzo”, e “si aspettava di salire su”; e i “miliardi di pidocchi” nel ricovero austriaco del San Michele… Ungaretti rideva; la sua risata gracchiante dominava il vocìo del gruppo.
Uscimmo. E fu lui, col suo passo che sembrava strascicato e incerto e invece era sicuro come quello di un consumato montanaro, a imbucarsi nella galleria del ricovero austriaco; qualcuno gli diede il braccio, altri accesero fiammiferi. Andammo praticamente a tentoni. Laggiù baluginava una spera chiara. Arrivammo finalmente sotto le alte volte luminose, aperte sul fianco del Monte, in cui erano piazzate le artiglierie; ai lati si aprivano nicchie a intervalli, contro le ventate micidiali degli scoppi. Il monte era trapanato come un formaggio. C’era un crocicchio a un certo punto e Ungaretti si infilò a destra. Volle uscire, vedere le nostre trinceee, i nostri camminamenti: “Quelli sono tragici;” disse, “Qui no”.
E uscimmo, e ci trovammo in un piccolo spiazzo arido, con ciuffi di verdura selvatica, qualche alberello, e davanti a noi un camminamento che scendeva con gradini sgretolati e scivolosi, fino al nero di una nicchia, forse una galleria. Ungaretti si incamminò svelto; poi si fermò guardando a terra. Quello era il Carso d’allora! Cinquant’anni erano annullati di colpo. Guardai anch’io quei sassi. Ora capivo, “sentivo”, con la concretezza della materia viva, “quel” Carso: Ungaretti calpestava il pietrisco, grattava la terra con le scarpe, diceva che quello era il Carso vero, la sua pietra! Non fu suggestione di maniera se avvertii nelle parole e nell’atteggiamento una specie di ansiosa esaltazione. Poi, l’occhio strizzato del poeta, l’occhio invisibile dietro le palpebre senza ciglia accostate come due taglietti, fu attratto da un angolo di terra viva, rossiccia. Il suo piede gli fu subito sopra: quella, disse, era la terra rossa d’allora, che produceva il fango in cui per tanto tempo i fanti vissero mescolati.
Ungaretti restò un attimo assorto, prima di trascinare il suo accomapgnatore giù nel camminamento. Disse che lassù tutti gli animali erano morti. Lo ripetè: il sasso del San Michele era pieno di carogne d’animali d’igni genere: uccelli, topi.
M’allontanai. Dalla cima riappariva la valle dell’Isonzo: il fiume, Gradisca, San Lorenzo, Lucinico, il Calvario, Gorizia. Sentii la voce di Falqui osservare che lì aveva preso forma la poesia di Ungaretti. E basta infatti sfogliare l’Allegria. Da Cima Quattro, il 23 dicembre 1915: “Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno /massacrato…”. Da Mariano, il 15 luglio 1916: “Di che reggimento siete, / fratelli? / Parola tremante / nella notte”. Da Valloncello di Cima Quattro, il 6 agosto 1916: “L’aria è crivellata / come una trina / dalle schioppettate / degli uomini /ritratti / nelle trincee / come le lumache nel loro guscio”. Da Valloncello dell’Albero Isolato, il 16 agosto 1916: “In agguato / in queste budella / di macerie / ore e ore / ho strascicato la mia carcassa / usata dal fango…” Dallo stesso luogo, il 27 agosto 1916: “Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro”. Da Devetachi al San Michele (oggi Jugoslavia), il 25 agosto 1916: “Questi dossi di monti / si sono coricati / nel buio delle valli / Non c’è più niente / che un gorgoglio / di grilli che mi raggiunge…”
C’era silenzio: forse lo stesso d’allora nei momenti di pausa: un silenzio irreale, di morte. Forse il silenzio di cui Serra parla nelle ultime lettere. “Sono sdraiato per terra, in una buca mezzo arrostita dal sole meridiano, a mezza costa di una collina dove siamo arrivati a 200 metri dagli austriaci… E’ la calma del meriggio immoto: poche cicale rade cantano nel silenzio del cielo, in un vasto azzurro sbiancato e scolarato dal suo splendore… Qualche scoppio secco dei pezzi da montagna rotola e si perde lontano, nella pace”.
***
Quel silenzio tornava adesso nella memoria di Ungaretti, mentre ricordavamo quella visita del ’66.
Claudio Marabini, Ricordo di Ungaretti, in “Nuova Antologia”, luglio 1970, pp. 319-325, poi in La chiave e il cerchio, Rusconi, Milano 1973, pp. 135-144.
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Giuseppe Bonaviri – Salvatore Battaglia
Nel necrologio di Salvatore Battaglia (Catania 1904 – Napoli 1971) lo scrittore Giuseppe Bonaviri (Mineo, Catania 1924) ricorda il primo incontro con il filologo e critico letterario Salvatore Battaglia avvenuto a Villa S. Giovanni nel luglio del 1969, e il suo timore reverenziale nei confronti del maestro, presto superato grazie all’affabilità di Battaglia. Il ricordo prosegue con la visita all’Istituto del bergamotto di Reggio Calabria, il giorno dopo. Ed è nell’essenza di bergamotto che si condensa il senso dell’incontro, il piacere delle ore dilettevoli che la morte non può cancellare. Si tratta di un incontro-convegno.
Il profumo di bergamotto
Conobbi Salvatore Battaglia a Villa S. Giovanni, in occasione del premio 1969. Uomo alto, robusto, dai capelli già bianchi, dai gesti lenti. Stabilire un rapido rapporto umano mi sembrava poco probabile, specie se pensavo al ruolo che rivestiva sul piano della filologia romanza e della critica letteraria in Italia.
Non fu così. Entrammo ben presto in amicizia, e non so quanto influì la innata bontà dell’uomo e il modo di recuperare, in comune, ricordi, sottintesi climi culturali e un allusivo gioco dell’anima verso la comune matrice catanese.
Il giorno dopo, e già il luglio ardeva lungo lo stretto di Messina, andammo a Reggio Calabria, all’Istituto del bergamotto, dove assieme a Petroni e De Libero per un’ora, sotto la guida dell’esperto direttore, ci immergemmo in un quasi irreale accordo di profumatissime particelle ed essenze di bergamotto. Ore dilettevoli, passate, travolte dal correre del tempo.
Ed oggi che Salvatore Battaglia se ne è andato con l’accorato rimpianto di amici, discepoli e intimi; di lui, oltre a queste aure balenanti di memorie, ci resta la sua gran fatica di uomo di lettere.
Giuseppe Bonaviri, Ricordo di Salvatore Battaglia, “Nuova Antologia”, Dicembre 1971, p. 564.
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Romano Bilenchi – Elio Vittorini
La rivista “Il Ponte” dedicò il numero doppio 7-8 del luglio-agosto 1973 a Elio Vittorini (Siracusa 1908 – Milano 1966). Tra i molti scritti (e si veda più avanti quello di Mario Rigoni Stern), riportiamo la rievocazione autobiografica di Romano Bilenchi datata Firenze, dicembre 1971. E’ il racconto del primo incontro con Vittorini esordiente a Firenze nel 1930, la Firenze di Bonsanti (che glielo presenta), di Pancrazi e di De Robertis; con un’importante e significativa appendice: un sogno misterioso e rivelatore, nel quale il fantasma di Vittorini si congeda definitivamente dall’amico comparendo dinanzi a lui vestito come tanti anni prima, all’epoca del loro primo incontro.
Il fantasma di Vittorini
Conobbi Elio Vittorini sul finire del 1930. Quel giorno mi ero recato a trovare Alessandro Bonsanti che conoscevo da qualche mese. Era inverno. Nel pomeriggio di dicembre la tenue luce del cielo abbandonava la città e le subentrava un crepuscolo grigio, gelido e nevoso. Bonsanti doveva recarsi alla redazione di “Pegaso”, in piazza San Giovanni, e mi invitò a seguirlo. Fu così che conobbi Pietro Pancrazi e Giuseppe De Robertis con il quale mi legai, in seguito, di affettuosa amicizia. Quando la redazione della rivista fu per chiudere, saranno state le otto, uscii con Bonsanti. A pochi passi dal Bottegone, dove il vento, come spesso accade in quel luogo, ci spingeva quasi alla corsa, fummo superati da un giovane un po’ più alto di me, stretto in un cappotticcio grigio di stoffa diagonale, con la faccia affondata in una sciarpa di lana chiara. Portava un basco turchino. Camminava in fretta guardando il selciato. Bonsanti lo chiamò: “Elio”. Il giovanotto si voltò bruscamente e ci attese. Bonsanti me lo presentò: “Elio Vittorini”. Per metterci un po’ al riparo dal vento voltammo l’angolo di via Martelli. Dopo aver scambiato con me e con Elio qualche altra parola, Bonsanti se ne andò. Rimasi solo con Vittorini. Attratti da una subitanea reciproca simpatia decidemmo di andare a cena insieme.
In principio egli mi parlò con un impeto quasi aggressivo, come volesse sfogarsi con me, volesse narrarmi di un’altra persona che gli avesse fatto molti torti. Poi la sua voce divenne flebile, gentile, carezzevole. Lo sentivo sincero nelle parole e nello sguardo sempre leggibile. Mi raccontò di essere fuggito tre volte dalla Sicilia, interrompendo gli studi tecnici. [..] anche io gli raccontai la mia vita, le mie speranze, i miei dubbi, le mie delusioni. Avevo vent’anni e, nonostante la diversità delle nostre prime esperienze, della nostra formazione culturale ancora in divenire soprattutto per me, quando ci lasciammo era come se ci fossimo conosciuti, fossimo stati amici da sempre. Scoprimmo perfino che in quei giorni leggevamo lo stesso libro: Oblomov. Mi disse anche che stava scrivendo racconti che presto avrebbe pubblicato in volume e io mi impegnai a prenotarne una copia. [..]
La notte tra il 12 e il 13 febbraio [1966], dopo che Luzi e sua moglie se ne furono andati anch’essi addolorati per la orrenda notizia telefonatami da Vasco, preparai la valigia per recarmi a Milano e poi mi coricai. Stentai molto ad addormentarmi. Sognai Elio. Nel sogno – e anche questo sogno non lo dimenticherò mai – abitavo dove vivo oggi, all’inizio di via Brunetto Latini. Ma mi scorgevo dormire molto più in alto di un terzo piano, su un letto quasi sospeso nel cielo, e le pareti che davano sulla strada erano di vetro talmente trasparente, come se non esistessero. La città e la mia strada erano rumorose, piene di folle, opache. A un tratto la strada divenne deserta, silenziosa, per metà illuminata da un sole chiaro e lucente come nelle mattine di primavera. Quando i tetti delle case ebbero segnato una linea netta fra luce e ombra, dall’angolo opposto al lato dove abito apparve Vittorini. Era magro, con il volto serio e rattristato, portava il basco turchino, lo stesso cappotto grigio di stoffa diagonale, la stessa sciarpa di quando lo avevo conosciuto la prima volta nel 1930. Tenendo le mani in tasca come quella sera, fece, un po’ curvo in avanti, alcuni passi fino al cancello di casa mia. Alzò la testa. Stette lì qualche minuto in silenzio con una espressione di melanconia e di stupore nello sguardo. Poi scomparve dietro l’angolo dal quale era venuto. Mi svegliai pieno di tenerezza verso le persone, la casa, gli alberi, gli amici, la città, il mondo. Attesi l’ora giusta, poi, presa la valigia, mi avviai verso la stazione. Sarei andato con Vasco e Loredana a Milano. Acquistai il biglietto e mi misi, sotto la pensilina, ad attendere il treno. A un tratto ripensai al sogno: Elio era venuto a salutarmi. Non gli avrebbe forse fatto piacere che io, che tante volte avevo scherzato con lui, giovane e forte, fino a fingere di lottare, lo vedessi cadavere nella bara, ridotto quasi a uno scheletro. Lo scorsi malato nel letto, una larva della quale funzionava solo il cervello come mi avevano detto gli amici che erano andati a trovarlo. Pieno di dolore e di paura corsi fuori della stazione e rimasi più giorni turbato e sconvolto.
Romano Bilenchi, Vittorini a Firenze, in “Il Ponte”, anno XXIX, nn. 7-8, 31 luglio-31 agosto 1973, pp. 1085-1131, poi in Opere, Rizzoli, Milano 1997, pp. 788-831.
Note
[1] Della visita a Alfredo Loisy – che, dopo la scomunica, si andrà sempre più allontanando dal cattolicesimo, fino a diventare “fieramente antiromano e anticattolico” -, Buonaiuti riporterà un'”impressione sinistra” (cfr. op. citata, p. 63). Si noti che il Buonaiuti rammenta male il luogo dell’incontro, che fu Garnay (presso Dreux), e non Ceffonds (cfr. op. cit. p. 522, n. 1).
[2] Cfr. in questa antologia il racconto del primo incontro tra Pancrazi e D’Annunnzio.
[3] Questo è il racconto di Carlo Carrà: “Verso la fine di giugno del 1911 un articolo di Ardengo Soffici apparve su “La Voce” intitolato Arte libera e pittura futurista.
Era questa una violentissima stroncatura dei nostri quadri esposti a Milano al Padiglione Ricordi di Milano, stroncatura che mi offese tanto più in quanto io avevo sostenuto e contribuito a far conoscere “La Voce” agli artisti milanesi. Marinetti, Boccioni, Russolo ed io decidemmo allora di risponder subito in modo adeguato all’ingiuria, e partimmo per Firenze. Giunti, ci recammo guidati da Palazzeschi al Caffè delle Giubbe Rosse, dove sapevamo di trovare il gruppo vociano.
Ben presto infatti ci fu indicato Soffici, e Boccioni lo apostrofò: “E’ lei Ardengo Soffici?” Alla risposta affermativa volò uno schiaffo, Soffici reagì energicamente, tirando colpi a destra e a sinistra col suo bastone. In breve il pandemonio fu infernale: tavolini che si rovesciavano, trascinando con sé i vassoi carichi di bicchieri e chicchere, vicini che scappavano gridando, camerieri che accorrevano per ristabilire l’ordine; e arrivò anche un commissario di polizia, che s’interpose facendo cessare la mischia. Ci accompagnò al Commissariato e dopo averci ammoniti disse che per quella volta la cosa sarebbe finita lì.
Ormai avevamo compiuto quanto ci eravamo proposti e fissammo quindi per l’indomani mattina il ritorno a Milano.
Come prevedevamo alla stazione c’era compatto il gruppo de “La Voce”, Soffici, Prezzolini, Slataper e qualche altro, venuti per vendicare l’affronto patito dal loro compagno. Noi subito accettammo la sfida: giunti a breve distanza ci lanciammo gli uni contro gli altri alla rinfusa con rabbia indicibile. Il parapiglia generale assunse aspetti drammatitici. Da tutte le parti si sentivano grida: la gente accorreva per cercar di separare quella ridda di indemoniati.
Alla fine, i carabinieri sopraggiunti riuscirono a calmare il pandemonio: fummo condotti tutti in una sala d’aspetto e rinchiusi in attesa dell’arrivo del commissario. Sulle panche i due partiti sedevano stanchi e ansimanti; solo Marinetti e Prezzolini camminavano avanti e indietro brontolando e apostrofandosi violentemente. Ma ormai la disputa s’era trasportata sul piano della discussione.
Io rivolgendomi a Soffici, io gli feci rilevare alcune pecche della sua critica, e ciò fu pretesto per scambiare le nostre idee sull’arte, idee che avevano molti punti di contatto. E a poco a poco venne la rappacificazione, sulla base comune dei nostri programmi e delle nostre aspirazioni.
Futurismo e vocianesimo erano infatti due forme giovanili e impetuose, provenienti da uno stesso ceppo: entrambe volevano fare del nuovo, abbattere il vecchio pesante edificio di cultura borghese, stretta in schemi ormai superati che superavano il libero divenire dell’arte.
Da quel momento si crearono le premesse per l’adesione del gruppo di Firenze al futurismo: i due movimenti trassero da questa unione reciproco giovamento”.
Carlo Carrà, La mia vita, SE, Milano 1997, pp. 92-94. Si tenga presente, per la datazione del racconto, che Carrà finì di scrivere la sua autobiografia nel 1942.
Ed ecco il racconto di Ottone Rosai: “Una sera […] un giovane in bombetta dalla giusta statura, agile e deciso nei movimenti, staccatosi da due compagni con i quali era giunto pochi istanti prima al caffè delle Giubbe Rosse, dopo aver interpellato un cameriere, si dirigeva verso uno dei tanti tavoli posti all’esterno della piazza, intorno al quale erano seduti Soffici, Medardo Rosso, Prezzolini e Palazzeschi. Quest’ultimo, intuito il pericolo, sparì come volatilizzato. Il giovane in bombetta, senza alcuna reticenza, dopo essersi diretto verso colui che riteneva il maggiore responsabile degli attacchi fiorentini, Ardengo Soffici, piantandoglisi dinnanzi, disse nervosamente: “Sono Boccioni”, e immediatamente dopo gli lasciò andare un tal manrovescio che tutti i presenti si riscossero; la gente cominciò a fuggire urtando tazze e bicchieri, tanto che tra i tavoli si creò una specie di casamicciola. Intanto anche Marinetti e Carrà si erano portati nel luogo della mischia e Prezzolini e Rosso, accettata la mischia, si accapigliavano anch’essi con i nuovi venuti. Lo spettacolo andava prendendo proporzioni preoccupanti anche perché si erano intromessi nella giostra alcuni cittadini, inconsapevoli delle ragioni della lite: ma sempre pronti al piacere di menar le mani. Fu solo per l’intervento di qualche altro meno facinoroso che si riuscì a calmare momentaneamente i contendenti ed a stabilire un po’ di calma. Si videro allora i diversi protagonisti preoccupati di ritrovar i loro cappelli e alcuni bottoni staccatisi dalle giubbe in mezzo ad un monte di bicchieri e bottiglie andati in frantumi.
I milanesi se ne andarono e i fiorentini anche: a loro si era ricongiunto Palazzeschi che, dall’interno del locale, da dove aveva assistito a tutta la scena, con il volto appoggiato ai vetri, aveva per tutto il tempo sorriso con una tale quale ironia verso milanesi e fiorentini”.
Ottone Rosai, Alle Giubbe Rosse, su “Lacerba” e nelle strade la spericolata storia del Futurismo a Firenze, “Il Nuovo Corriere”, a. IX, n. 226, 23 settembre 1953, p. 3.
[4] L’incontro è rievocato da Giacomo Debenedetti anche in Lettere di Umberto Saba, in “Nuovi Argomenti”, n. 41, novembre-dicembre 1959, pp. 7-8: “L’entusiasmo con cui il poeta accolse l’invito di “Primo Tempo” fu calorosissimo, e giustamente ci inorgoglì. Egli mandò dapprima Il Vino, terza delle Canzonette che, poco dopo, ci spedì complete col loro Preludio. Ne facemmo un numero speciale della rivista, poi pubblicammo tutta la raccolta in un volumetto fregiato di alcune xilografie del pittore Nicola Galante, una delle “scoperte” di Soffici. Era l’estate; al principio d’autunno Saba venne a Torino, si presentò a casa mia, dov’era la redazione della rivista. Mezz’ora dopo l’incontro letterario era divenuto un’amicizia. Scoprimmo alcune somiglianze di tipi, di vicende, di gusti, di abitudini, di manie, di nobiltà e di ridicoli tra le nostre due famiglie ebraiche.”
[5] Cfr. quanto scrive in proposito Carlo Dionisotti, Momigliano e Croce, in Ricordo di Arnaldo Momigliano, Il Mulino, Bologna 1989, p. 29: “Nei primi anni Trenta, intorno al decennale del regime fascista, in aria già viziata da sospetti e paure, la conoscenza personale di Croce, nella sua casa, era per un giovane una sorta di iniziazione. E dannati conseguentemente furono gl’iniziati che tradissero”. La precisazione valga anche per l’anno 1929.